30 agosto 2012

Che gran pezzi di... giornalismo

di Felice Fortunaci – da Megachip

In Iran si è iniziato lo scorso 26 agosto il vertice del Movimento dei Paesi non allineati, NAM, nel quale sono rappresentati due terzi dei membri delle Nazioni Unite e il 55% della popolazione mondiale.  L’Iran ha assunto per tre anni la presidenza di tale movimento e tanto basterebbe per sfatare il mito dell’isolamento della Repubblica Islamica da parte della “comunità internazionale”. Per parare il colpo, il giornalismo di guerra ha provato alcuni escamotage.
La Repubblica, leader italiano indiscusso in questo tipo di giornalismo, il giorno 28 agosto scorso ha relegato in un brevissimo articolo a pagina 12 la notizia sul vertice, ma in compenso ha pubblicato in prima pagina, con continuazione all’interno, un lungo pezzo di Moisés Naím, un giornalista venezuelano di origine libica, che parlava di mafia.  Beh, che c’entra? Intanto Naím non è un giornalista qualunque

È stato ministro venezuelano del Commercio e dell’Industria durante il sanguinario secondo mandato del presidente Carlos Andrés Pérez (un ex progressista asservito al Washington Consensus e ora in esilio dorato a Miami perché condannato per corruzione nel suo Paese), un governo cioè che è passato alla storia per il massacro della rivolta popolare del 1989 contro le privatizzazioni selvagge di cui Naím era fiero assertore. Si calcolano fino a 3.000 morti.
Uomo della Banca Mondiale di cui è stato Direttore Esecutivo, collaboratore della CIA come membro del board of directors del National Endowment for Democracy, nemico giurato di Hugo Chávez (probabilmente anche perché durante i massacri del 1989 fu uno degli ufficiali che si rifiutarono di sparare sulla folla), Naím è, conseguentemente, un ospite permanente del gruppo Espresso-La Repubblica.
Ebbene, cosa ci viene a dire questo figuro in prima pagina sul noto quotidiano “progressista”? Che ci sono Stati dove al potere c’è la mafia. I principali sarebbero, Guinea-Bissau, Montenegro, Myanmar (Birmania), l’Ucraina, Bolivia, Corea del Nord e, last but not least, ovviamente il Venezuela.
Una lista che inizia in sordina e finisce con ben cinque nazioni direttamente nel mirino degli USA. Tutti, guarda caso, appartenenti al NAM, tranne l’Ucraina che è però odiata per essere troppo filorussa. Sull’Afghanistan, Naím fa solo vaghi cenni sul traffico d’oppio, senza spiegare nulla in merito al ruolo giocato in questo traffico immane dagli occupanti sotto l’ombrello NATO.
Una lista di bersagli, dunque, che commenta da sola la serietà e gli intenti sia del giornalista sia del foglio che lo ospita. Il quale ultimo ha per altro una notevolissima faccia di bronzo dato che solo pochi giorni fa ha pubblicato un editoriale del suo fondatore, Eugenio Scalfari, che sosteneva la legittimità della trattativa tra Stato e mafia durante la stagione delle stragi mafiose del 1992.
Nella stessa edizione, la sezione affari internazionali di «Repubblica» si è impegnata a controbilanciare la notizia dell’attacco contro i soldati italiani in Afghanistan con un articolo intitolato “Cantano e ballano, 17 decapitati in Afghanistan il terrore dei Taliban”.
Quindi: che a nessuno venga in mente di parlare di un nostro ritiro.
Tanto valeva che intitolassero direttamente: “I Taliban sono cattivi”. Senza però scrivere niente. Così per lo meno non sarebbero incorsi in smentite: Afghanistan, dietro alle decapitazioni una faida tra famiglie rivali.
La stessa sezione ci informa infine che il progressista François Hollande ha avvertito: «Se Assad usa armi chimiche sì all’intervento». Ora, che in una guerra (su commissione) dove si combatte strada per strada si possano usare armi chimiche è già un’idiozia. Sembrerebbe idiota anche ricominciare a menarla con la storia delle armi non convenzionali che già si rivelò una solenne menzogna nel caso dell’Iraq. Ma in definitiva, dato che allora in qualche modo pagò, perché non riciclarla adesso per la Siria? Chi darebbe la notizia eventuale di un utilizzo di armi chimiche? L’Esercito Siriano Libero. Chi la controllerebbe? L’Osservatorio siriano dei diritti umani, con sede, guarda un po’, a Londra.
Come sempre.
Ma ecco che c’è chi dà credito all’idiozia: è stata sempre la prima pagina del quotidiano fondato da Scalfari a ospitare il 23 agosto un pensoso articolo sulla Siria del ministro degli esteri italiano, Giulio Maria Terzi di Sant'Agata, che alla locomotiva del suo interminabile nome attacca anche una vagonata di titoli: marchese, conte, barone, cavaliere del Sacro romano impero e Signore di Sant'Agata.
Siccome il quotidiano si chiama tuttora «la Repubblica» (ma non siamo sicuri che il nome duri, visto il suo crepuscolo reazionario), e siccome nelle edicole stanno uscendo di nuovo i DVD di Fantozzi, il ministro si è firmato appena Giulio Terzi. 
Ma il suo articolo ha estratto lo stesso l’anima del conte, del barone, del cavaliere e anche del lup. mann. figl. di putt.
Il titolare della Farnesina strilla infatti contro «il pericolo della proliferazione di armi di distruzione di massa (la Siria possiede il maggior arsenale di armi chimiche e biologiche in Medio Oriente)». 
Curioso: Terzi, che fu per anni ambasciatore in Israele (che se non sbaglio è in Medio Oriente) non ha mai fatto una dichiarazione a proposito delle centinaia di armi nucleari israeliane (ben proliferate, e ben capaci di distruzione di massa). 
Il resto dell’articolo è una valanga di foglie di fico per giustificare gli aiuti ai ribelli in Siria nascondendone le implicazioni militari. Il nostro cavaliere del Sacro romano impero dichiara che sta «considerando, sulla scia di alcuni nostri principali alleati, la fornitura all'opposizione di strumenti di comunicazione utili per poter prevenire attacchi contro civili, soprattutto donne e bambini». Non è un’amore? E non tanto per il suo tenero pensiero rivolto ai bambini, ma soprattutto per quel suo stare «sulla scia», come un drone. Magari come uno di quelli che «alcuni nostri principali alleati» scagliano quotidianamente sui bambini del Pakistan e dell’Afghanistan, e un domani, con una No Fly Zone, anche in Siria. Dove, però, si va solo con la "responsabilità di proteggere", non sia mai altrimenti: il tutto in compagnia dei piranhas del Qatar e di Riyad, anzi, «sulla scia» delle loro forniture. 

I giornali di mezzo mondo stanno via via sbugiardando queste pretese, e spazzano via almeno le foglie più indecenti usate dai governi. Ma con «Repubblica» il ministro va sul sicuro, e si sdraia come un pascià. Non gli faranno mai domande. Sanno quali sono le fonti gradite al potere.

In un articolo di Venerdì 2 marzo 2012, apparso su «la Repubblica» a firma di Alberto Stabile, si parlava della drammaticità della battaglia di Bab Amro, «il quartiere simbolo della resistenza contro la brutale repressione della protesta siriana». Ora, una battaglia contro una protesta non l’ha mai fatta nemmeno Hitler. Ma tant’è. Il punto di vista di Stabile coincideva curiosamente con quello dei cosiddetti “ribelli”, dato che lui stesso poco dopo ci informava: «Sono stati gli stessi ribelli ad offrire un quadro drammatico della situazione».
E quali altre fonti ha mai utilizzato «la Repubblica» e tutto il mainstream? Rileggetevi i vari non-reportage: è tutto un “ha dichiarato un portavoce dei rivoltosi”, “ha detto il Consiglio Nazionale Siriano”, “fonti dell’opposizione”, eccetera. Infatti, coerentemente, poche righe dopo un’ulteriore “informazione” inizia con «Secondo notizie diffuse dalle organizzazioni dell’opposizione».
Le fonti “alternative” sono Al Arabiya e Al Jazeera, ovvero i media delle petromonarchie, cioè degli autocrati che non governano i loro Paesi ma li hanno in uso come proprietà personali, e che reprimono gli oppositori con una ferocia che riesce a guadagnarsi solo distratti trafiletti sulla declinante gazzetta che ci fa da «Pravda».
Gran bei pezzi di giornalismo, insomma.
È la stampa di guerra, bellezza! Quella della Terza Guerra Mondiale ormai in atto.
Come direbbe Altan, il trucco c’è, si vede benissimo, ma non gliene frega niente a nessuno.  Men che meno agli affezionati lettori, già progressisti, de «La Repubblica» ai quali magari luccicano ancora gli occhi quando sentono parlare di Che Guevara (che dal canto suo riteneva gli USA un pericolo mortale per l’umanità).  Sanno che è diventato un giornale illeggibile ma si ostinano a comprarlo per inerzia e perché magari si consolano con qualche notizia di cultura o semi-cultura qua e là. Insomma, per una sorta di nostalgia e di narcisismo semicolto riflesso.
Nostalgia, inerzia e narcisismo semicolto riflesso che però lavorano sulle capacità critiche, che in tempo di guerra devono essere azzerate: Credere, Obbedire, Combattere!
Un ordine che si accompagna all’altro, ben noto, del capitalismo: “Accumulate, accumulate! Questa è la Legge e questo dicono i profeti!”.
La nuova catechesi del giornalismo “progressista” italiano e occidentale?

(29 agosto 2012)

27 agosto 2012

Attentato alla sinagoga. Organizzato dall'FBI

di Miguel Martinez - Kelebek Blog.

 
Come sanno i lettori di questo blog, e pochi altri, la quasi totalità degli attentati terroristici islamici negli Stati Uniti – ben 44 casi dal 2009 – sono stati preparati e messi in atto da un’unica organizzazione. Che non è al-Qaeda, ma l’FBI.
Alzi la mano, chi ha sentito parlare dei Newburgh Four.  Newburgh è una cittadina vicina a New York, non più grande di Imola in Italia, che le ha viste tutte.  Fondata da luterani tedeschi, sede del comando dell’esercito ribelle durante la rivoluzione americana, grande centro industriale; poi il declino – oggi è uno dei cinque comuni più “stressati” – la dicitura ufficiale – di tutto lo Stato.
Una popolazione equamente divisa tra bianchi, neri e latini se la vede con la disoccupazione, il crac, le caratteristiche famiglie basate su madri sole, con padri assenti o in carcere. I figli militano in massa elle contrapposte gang nere e latine.
Di tanto in tanto, centinaia di agenti dell’FBI, con fucili da guerra e mascherati, danno l’assalto al centro di Newburgh, portando via molte decine di adolescenti alla volta. Le famiglie vengono così minate ulteriormente, i ragazzi ricevono una dura formazione criminale in carcere, ed escono più pericolosi di prima.
La soluzione escogitata è consistita nell’arrestare, non singoli criminali, ma tutti i membri noti di ogni banda, con l’equivalente statunitense dell’accusa di associazione mafiosa, che permette di rinchiuderli in carcere per decenni – la prova non consiste più in ciò che noi comunemente consideriamo reati, ma nella dimostrazione di amicizie, legami e contatti tra persone.
Un’isola di relativa pace è la moschea frequentata soprattutto da convertiti neri, che offre anche una clinica con alcuni servizi gratuiti per la comunità. L’Imam della moschea, Salahuddin Muhammad  è cresciuto in una famiglia senza padre a New York, e ha passato dodici anni in carcere per rapina. Nella logica americana della conversione, non solo è diventato musulmano, ma è diventato lui stesso cappellano carcerario.
Nella moschea, che serve oltre 500 famiglie, si sono incontrati quattro giovani neri:
- Onta Williams, già in carcere per possesso di sostanze stupefacenti
- James Cromitie, una vita dentro e fuori il carcere, l’ultima volta per aver venduto sostanze stupefacenti “vicino a una scuola” (termine definito in maniera abbastanza estensivo da coprire l’intera cittadina di Newburgh e quindi indurire notevolmente le condanne). Cromitie, che aveva tentato due volte il suicidio e ammetteva di “vedere e sentire cose che in realtà non c’erano“, è un gran narratore di frottole, che con difficoltà è riuscito a trovare un lavoro come scaricatore in un centro commerciale.
- David Williams (solo un omonimo di Onta), già in carcere per droga e possesso di armi. Anche lo zio di Williams era stato spacciatore, e suo padre era stato a lungo in carcere per commercio di sostanze stupefacenti. L’ambiente familiare lo descrive la zia:
“David è cresciuto senza padre… questa famiglia è gestita da donne senza uomini. Non abbiamo modelli maschili per i nostri giovani uomini in famiglia… ci sono qualcosa come quindici nipoti. Noi donne facciamo del nostro meglio con quello che abbiamo”.
David Williams ha un particolare punto debole: un fratello affetto da un tumore maligno al fegato, che ha bisogno di denaro per le cure.
- Laguerre Payen, cittadino haitiano, con una condanna per aggressione, che un giudice aveva risparmiato dalla deportazione quando una perizia lo aveva trovato affetto da “schizofrenia paranoica“.
In questo miserabile contesto, compare un personaggio affascinante, un elegante pakistano di nome Shahed Hussain, proprietario di un motel negli Stati Uniti, che sostiene di essere anche proprietario di 22 case in Pakistan e di possedere una catena di pompe di benzina. Emergerà che Shahed Hussain era stato anche arrestato due volte in Pakistan con l’accusa di omicidio.
Nel 2002, Hussain fu condannato per una truffa a danno di immigrati, convinti di poter ottenere a loro volta truffaldinamente una patente di guida pur non conoscendo la lingua inglese. L’FBI lo assunse allora come uno dei suoi quindicimila informatori:  nel 2004, l’FBI chiese al governo 12,7 milioni di dollari solo per la gestione informatica della propria rete di informatori.
Hussain prima riuscì a incastrare un bengalese, proprietario sull’orlo del fallimento di una pizzeria, promettendogli cinquantamila dollari se fosse entrato in un presunto progetto per riciclare “fondi per il terrorismo”: la sua vittima fu condannata a quindici anni di carcere.
Dopo questo primo successo, Hussain viene mandato a frequentare la moschea di Newburgh, comparendo a turno con una SUV, una Mercedes o una di due diverse BMW.
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Shahed Hussain
Fa amicizia con Cromitie, lusingandolo, pagandogli l’affitto di casa e promettendogli 250.000 dollari; infine, gli fa sapere di essere un agente di qualcosa chiamato “Jaish-e Mohammad”, “L’esercito di Muhammad”, inviato negli Stati Uniti per organizzare un attentato contro una sinagoga nel Bronx e contro alcuni aerei militari, in cambio di 5.000 dollari a testa.
Comitie, pur abbagliato da Hussain, a un certo punto ruppe i rapporti. Poi venne licenziato da Walmart. Hussain gli promise la salvezza economica, se fosse riuscito a coinvolgere altri musulmani.
Comitie avvicinò così i suoi tre amici,  elaborando un piano per truffare a loro volta Hussain, facendosi pagare da lui, ma senza far male a nessuno.
Ovviamente, per riuscire a truffare Hussain, dovevano fargli credere di essere fanaticamente decisi, e quindi fecero esattamente il tipo di dichiarazioni che Hussain voleva registrare: Cromitie si vantava con Hussain di essere stato in Afghanistan e di dirigere un intero gruppo di jihadisti che si allenavano nei boschi, e si prodigava in insulti generici contro “gli ebrei”.
In un complesso giro di mutuo inganno, l’FBI lavorò dietro le quinte per fare spostare un processo per furto contro David Williams – non poteva permettere che uno degli imputati si trovasse in carcere al momento del dunque.
Così, dopo un anno di intenso lavoro da parte di Hussain, i quattro furono riforniti di “missili” e “bombe” – in realtà un ammasso di innocui fili – e partirono verso il loro inevitabile destino.
Un’ora dopo l’arresto, il sindaco di New York era sul posto, assieme al capo della polizia, vantandosi del successo nella lotta per la sicurezza.
Il governatore dello Stato di New York dichiarò  che “questo caso dimostra come sia persistente la minaccia del terrorismo che incombe su New York e come riguardi tutte le nostre comunità, a prescindere dalla razza, la religione o l’appartenenza etnica”.
Hussain ricevette 96.000 dollari  per il lavoro; i quattro detenuti, invece dell’ergastolo chiesto dall’accusa, furono condannati a 25 anni a testa.
Ma molto americanamente, la signora McMahon aggiunse che la sua misericordia si sarebbe limitata a dare l’opportunità ai quattro di morire fuori dal carcere. Payen sarebbe stato deportato a Haiti, dopo una detenzione che la signora si auspicava particolarmente dura.
Se volete potete scrivere a Onta Williams a questo indirizzo, evitando ogni riferimento a questioni politiche:
Onta Williams 83614-054
MDC BROOKLYN
METROPOLITAN DETENTION CENTER
P.O. BOX 329002
BROOKLYN, NY 11232
E a David Williams qui:
David Williams #70659-054
USP McCreary
U.S. Penitentiary
PO Box 3000
Pine Knot, KY 42635
USA
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David Williams, da giovane

Fonte: http://kelebeklerblog.com/2012/08/26/attentato-alla-sinagoga-organizzato-dallfbi/.

La vicenda descritta nell'articolo è raccontata in dettaglio anche nel libro di Giulietto Chiesa e Pino Cabras "Barack Obush".


ARTICOLI CORRELATI:

12 agosto 2012

La Siria è solo un pretesto

di Thierry Meyssan



Megachip avvia oggi la collaborazione permanente con Thierry Meyssan. Questa "cronaca settimanale di politica estera" appare simultaneamente in versione araba sul periodico "Tichreen" (Siria), in versione tedesca sulla "Neue Reinische Zeitung", in lingua russa sulla "Komsomolskaja Pravda". Prossimamente troverà spazio anche su giornali e magazine on-line in Algeria, Iran e paesi dell'America latina.
Non necessariamente Megachip fa proprie tutte le valutazioni che appariranno in questa rubrica, ma consideriamo Thierry Meyssan una voce importante, informata su questioni altamente controverse, e sulle quali il mainstream occidentale mente sistematicamente o agisce distorcendone i significati. (Redazione di Megachip)

Nelle ultime settimane, la scena diplomatica internazionale è stata nuovamente catturata dalla crisi siriana. Un doppio veto è stato esposto al Consiglio di Sicurezza, l'Assemblea Generale ha approvato una risoluzione e l'inviato speciale del Segretario Generale si è dimesso. Questa agitazione, che pure è controproducente in termini diplomatici, risponde a ben altri obiettivi che non alla ricerca della pace.
Gli occidentali non avevano alcun motivo diplomatico di portare al voto il loro progetto di risoluzione, dal momento che i russi avevano annunciato che non lo avrebbero fatto passare. Non avevano alcuna ragione di far approvare una nuova risoluzione da parte dell'Assemblea Generale, dopo che questa ne aveva già approvata una in termini analoghi. Infine, Kofi Annan non aveva alcun motivo oggettivo per rassegnare le dimissioni.
Inoltre, una parte di questa sequenza è illegale. L'Assemblea Generale non ha alcuna competenza per discutere di questioni su cui il Consiglio di Sicurezza si sia bloccato, tranne quando «sembri esistere una minaccia contro la pace o un atto di aggressione e ove, per il fatto che l'unanimità non sia stata raggiunta tra i suoi membri permanenti, il Consiglio di Sicurezza non riesca a esercitare la sua responsabilità primaria nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionali». Non si dà questo caso, in quanto i promotori della risoluzione insistono per presentare la crisi siriana come un problema esclusivamente interno.
In ogni caso, l'Assemblea Generale non ha menzionato questa competenza (nota come «Uniting for Peace-Union pour le maintien de la paix»), ma i leader occidentali hanno lasciato intendere che essa disponesse molto di più: di un diritto di intervento umanitario. Si tratta evidentemente di una frode intellettuale. La Carta dell’ONU si basa sul rispetto della sovranità degli Stati membri, mentre il «diritto d’ingerenza» (un tempo denominato «missione civilizzatrice») è il privilegio del più forte utilizzato dalle potenze coloniali per conquistare il mondo.
In questo spirito, i leader occidentali hanno ripetutamente condannato l'inazione del Consiglio di Sicurezza. Nulla è più lontano dalla verità: il Consiglio è diviso, come dimostrano i tre successivi veti, ma è attivo e ha già emanato tre risoluzioni sulla crisi siriana (2042, 2043 e 2059). Quando la giuria di un tribunale penale è divisa sulla colpevolezza di un imputato e lo assolve, non dice che la Corte è impotente a condannarlo, ma afferma al contrario di aver fatto giustizia. Quando il Consiglio di Sicurezza, che è una delle fonti del diritto internazionale, respinge una risoluzione, si deve accettare quel che ha espresso la legge, che si sia soddisfatti o meno della sua decisione.
Kofi Annan ha spiegato le sue dimissioni con queste parole: «la crescente militarizzazione sul campo e la chiara mancanza di unità del Consiglio di Sicurezza ha cambiato radicalmente le condizioni per il successo della mia missione.» Par di sognare, ma Kofi Annan aveva accettato le sue funzioni il 23 febbraio. A quel tempo, l'esercito siriano stava assediando l'Emirato Islamico di Baba Amr, dove sono stati ricacciati due-tremila combattenti con istruttori occidentali, intanto che la Cina e la Russia avevano già fatto ricorso per due volte al loro diritto di veto.
In realtà, nessun protagonista ha cambiato la sua posizione di una virgola. Solo l'equilibrio delle forze sul terreno è cambiato: una fazione della popolazione siriana che sosteneva i gruppi armati ormai dà il suo appoggio all'esercito nazionale; dopo aver perso l'Emirato Islamico di Baba Amr, i Contras non ce l’hanno fatta a impadronirsi di Damasco né di Aleppo, e sono privi di un santuario. Kofi Annan diserta il campo di battaglia siriano, come aveva fatto a Cipro nel 2004, dopo il rifiuto del suo piano di pace in un referendum.
In retrospettiva, sembra che concepisse la sua missione nell’ottica di un rovesciamento del presidente al-Assad con la forza, e ora non sappia più che fare davanti al fallimento dell'Esercito siriano libero sostenuto dall’Occidente. Evidentemente, le dimissioni dell'inviato speciale non sono solo l’espressione del suo personale turbamento, ma è anche parte della campagna occidentale volta a stigmatizzare un «impedimento della comunità internazionale» e caricare la responsabilità sulle spalle di Siria, Russia e Cina.
Questo fa intravedere il vero significato di questa agitazione. Gli occidentali se ne infischiano del benessere dei siriani: sono loro ad armare i mercenari che torturano e massacrano in grande scala, e non hanno intenzione di fermarsi. La loro attività diplomatica è esclusivamente orientata verso una messa in stato d'accusa della Russia e della Cina nonché a rimettere in discussione l'esistenza stessa del diritto internazionale.
L’ossequiosissimo Ban Ki-moon non si è sbagliato. Aprendo il dibattito dell'Assemblea Generale sulla Siria, ha sconfessato l'analisi presentata dalla risoluzione. Non ha denunciato un conflitto siro-siriano. Ha lamentato «una guerra per procura» tra grandi potenze, una guerra il cui obiettivo è non è la presa della Siria, ma la regolazione di un nuovo rapporto di forze a livello mondiale.

(12 agosto 2012)
Traduzione a cura di Matzu YagiMegachip.

 Link: http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/8675-la-siria-e-solo-un-pretesto.html.

2 agosto 2012

Siria: immagini false e "spin" di guerra

di Pino Cabras – da Megachip
 



Siria e Photoshop. Per manipolare la cronaca dalla guerra le immagini sono il campo di battaglia più insidioso, un campo che arriva fin dentro alle nostre case occidentali. L’ultimo esempio è quello del quotidiano austriaco «Kronen Zeitung», che ha sparato una fotonotizia drammatica, con una giovane coppia siriana che si muove a passo svelto, tenendo un infante infagottato, in mezzo alle macerie e ai palazzi sventrati di Aleppo.
Peccato che la foto sia totalmente falsa. Come spesso accade grazie alla Rete, la fandonia in immagini è stata fatta a pezzi in poche ore. Come meno spesso accade, il giornale si è scusato del grave errore.
Le scuse non rispondevano però alla domanda chiave: perché è potuto accadere?

Cosa ha fatto dunque il più diffuso giornale austriaco, che a Vienna e dintorni chiamano familiarmente “Krone”? Senza controllare, la redazione ha pescato da un social network la foto postata da un giornalista; e senza ulteriori verifiche, l’ha usata per confezionare la pagina sulla battaglia di Aleppo.
L’immagine che segue mostra la pagina del “Krone” del 28 luglio 2012 in tutto il suo impatto. Il titolo recita: «I carri armati dell’esercito di Assad percorrono le strade verso la "Madre di tutte le battaglie"». E sopra, la grande foto.
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Le foto originali erano però altre due: 
1) la foto della famigliola, in un contesto urbano totalmente differente, vicino a un bar. Le scritte sui muri elencano generi di conforto, ma è Ramadan. La saracinesca, se si aprirà, aprirà tardi:
famigliola-aleppo

2) la foto delle macerie, scattata tuttavia non ad Aleppo, ma a Homs, in un altro momento e in altre circostanze.
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La manipolazione assomiglia a quella illustrata nel film “Wag the Dog” (tradotto in Italia con il titolo “Sesso e Potere”, 1997). Ricordate? gli esperti di pubbliche relazioni al servizio del presidente USA, per distogliere l’opinione pubblica da uno scandalo che colpisce l’inquilino della Casa Bianca, inventano (letteralmente: inventano) una guerra a uso dei media, che vengono inondati di dettagli mirati e verosimili sul conflitto, in modo da colpire le emozioni del pubblico. Fra i materiali confezionati, ecco un video in cui una ragazzina si muove spaventata fra le macerie.
Il film mostra dapprima la scena girata in studio su sfondo blu, poi la post-produzione che aggiunge lo sfondo di macerie, e infine – colpo da maestro – l’idea di un soffice gattino bianco tenuto in mano dalla ragazzina, un batuffolo di candida fragilità che trascina l’immedesimazione del telespettatore in contrasto con la cupezza minacciosa della devastazione. I conduttori dei telegiornali rilanceranno le immagini all'infinito, fino al clou della tenerezza felina. Il bebè di Aleppo assolve alla stessa funzione.
wag-the-dog-post
wagthedog-cat
 

A Vienna non sembra esserci l’intervento diretto degli “spin doctor” come nella Washington della finzione. E' una sorta di auto-spin. E allora, di nuovo, chiediamocelo: perché è potuto accadere?
Senza lanciarci in altre considerazioni, mettiamola così: i grandi giornali procedono in automatico, quando trattano di guerre per le quali il potere manda segnali continui e fortissimi, segnali che indicano chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Non c’è nemmeno bisogno di immaginarci gerarchi che diffondono veline in stile Minculpop (“scrivi questo, taglia quello”), sebbene ci sia anche oggi – eccome - una produzione tossica di notizie che svolge la stessa funzione, a opera di agenzie influenzate da servizi segreti e cancellerie.
È sufficiente che i giornalisti si sintonizzino con la traiettoria della loro carriera, l’unica possibile se non vogliono incontrare un muro invalicabile che la blocca. È la traiettoria che non dispiace al potere.
Basta che i cronisti siano fino in fondo conformisti, e inquadrino tutto nello schema di fondo: i buoni, i cattivi; noi e loro. Noi siamo i buoni. Loro non possono essere che massacratori.
Le pieghe complicate della realtà, le contraddizioni, le sfumature grigie: saranno tutte annullate dalla luce del pensiero unico accettabile. Se la realtà non è all’altezza, beh, perbacco, che ci vuole? Basta seguire i luoghi comuni. Basta prendere qualche foto da Facebook o dalle agenzie, e adeguarla a quella che pensiamo che sia la notizia vera.
Moltiplicate tutto questo per tutti i giornali. Fatelo interagire con altre manipolazioni più sofisticate e più subdole, come quando «la Repubblica» titolava, nei giorni in cui veniva aggredita la Libia, che «Gheddafi ha ordinato di sparare ai bambini». Otterrete un sistema totalmente menzognero e inaffidabile. Con migliaia di giornalisti che continueranno a errare senza ritegno. È così che molti si saranno trovati in guerra, senza che nessuno l’abbia loro spiegata prima.

tratto da: http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/8632-siria-immagini-false-e-qspinq-di-guerra.html.