18 febbraio 2016

Yemen, ancora un disastro per mano saudita

di Pino Cabras.
da Occhi della Guerra.


Il mattatoio siriano, malgrado mille voci troppo manipolate, riesce a fare notizia. Ma c’è un altro mattatoio, lo Yemen, dove ugualmente è in corso una guerra totale, che non arriva ai nostri schermi.  Eppure le notizie ci sono. Ci sono i morti e i feriti. Ci sono le immagini, tante e nitide, che potrebbero raccontare bene le loro storie. Il direttore della tv yemenita Al-Masirah, con ragione, rimprovera noi dell’Ovest: “Dove siete?“.
Da settembre scorso una coalizione guidata dall’Arabia Saudita conduce una terribile aggressione ai danni di questo paese di 25 milioni di abitanti, con un bombardamento continuo e indiscriminato. La coalizione comprende anche i paesi del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) ossia Arabia SauditaBahreinEmirati Arabi UnitiKuwaitOman e Qatar, con altre truppe di paesi clienti dei sauditi e con il beneplacito degli Stati Uniti.
Dopo neanche un anno, il bilancio di questa guerra assurda, scatenata contro uno dei paesi arabi più poveri, è già terribile, prima di tutto dal punto di vista umanitario: 10mila morti, di cui 2.200 bambini e 1.900 donne, decine di migliaia di feriti e mutilati. Inoltre, ci sono un milione e mezzo di sfollati e mezzo milione di case danneggiate. I bombardamenti non risparmiano nulla: totalmente o parzialmente distrutte 680 moschee (alcune antichissime), 258 strutture sanitarie, 669 tra scuole e istituti.
In termini di infrastrutture, gli attacchi della coalizione saudita hanno colpito: 19 aeroporti, 10 porti, 512 ponti, 125 centrali elettriche, 167 stazioni di comunicazione,164 reti idrauliche. Oltre dieci milioni di persone non hanno più l’acqua. La vecchia manovalanza di al-Qa’ida fa l’ennesimo favore ai sauditi, che li proteggono, terrorizzando intere città e regioni. Come se non bastasse, imperversa anche l’Isis, che prospera nel caos irradiato da Riad, fino a sfuggire al controllo degli aspiranti stregoni e affacciarsi così sulla porta del Mar Rosso, lungo le rotte mercantili più importanti.
Nessuna meraviglia dunque se il Paese risulta paralizzato. Tanto più perché anche le attività economiche sono sistematicamente bombardate. Case, botteghe, officine, mezzi di trasporto, sono tempestati di bombe a grappolo vietate dagli accordi internazionali, ma non dalle convenienze commerciali e geopolitiche. Sono affari d’oro per la Textron, una multinazionale con sede a Providence (Usa) che produce le micidiali CBU-105, presentate alla clientela in un video promozionale con tanto di musichetta.
Nel video le sub-munizioni che si separano dall’ordigno principale vanno a colpire ordinatamente un carro armato per ciascuna. Nel mondo reale, cioè in Yemen, le munizioni a grappolo cadono invece su quartieri densamente popolati. Nessun problema per la Textron. Ma gli affari sono affari anche per una fabbrica localizzata a Domusnovas, in Sardegna, dove la Rwm Italia sforna giorno e notte enormi carichi di bombe destinate a colpire lo Yemen, dopo un viaggio per nave o spesso per aereo cargo: questo quando i sauditi hanno fretta. Nessun problema nemmeno per la ministra della Difesa, Roberta Pinotti. Basterebbe unire i puntini che tratteggiano un unico disegno, che connette le bombe che produciamo con i crateri prodotti da quelle bombe. Un disegno che poi prosegue con le masse delle persone in fuga da quei crateri, fino a riversarsi su paesi vicini e lontani.
Il tutto il mondo arabo movimenti politici e associazioni umanitarie esprimono la loro condanna e preoccupazione per l’aggressione di Riad. Come se non fossero sufficienti le sofferenze di un popolo colpito con tanta furia omicida, ora rischiano di saltare tutti gli equilibri delicati di un paese già di per sé difficile, che diventa l’ennesimo nuovo affluente del grande fiume dei rifugiati.
Ne parliamo con il direttore della tv Al-Masirah, forse l’unica televisione oggi in grado di trasmettere immagini dallo Yemen al mondo. Si tratta di Ibrahim Mohammad al-Douleimi. Oltre a dirigere la tv, fa anche fa parte del Movimento sciita Huthi, ossia Ansar Allah, che difende il territorio yemenita assieme all’Esercito rimasto fedele al Presidente Saleh, tutti nemici acerrimi dell’Isis, di al-Qa’ida e dei piranhas di Casa Saud. Come in tutte le guerre del mondo, anche gli Huthi stanno dentro il quadro delle violenze belliche e dei calcoli di un conflitto spietato, ma Al-Douleimi ci ricorda con forza il contesto più importante, al momento: adesso è in corso un’aggressione internazionale straniera e il suo popolo è la parte oppressa che resiste.
Il giovane direttore della tv comincia inviando un messaggio accorato all’opinione pubblica europea che fin qui non ha visto sui propri schermi neanche una delle tante vittime dello Yemen. Al-Douleimi si rivolge in particolare ai giornalisti: “La pace sia con voi. In veste di vostro collega e giornalista faccio un appello a tutti i giornalisti liberi nel mondo, a tutte le organizzazioni dei diritti umani. Voglio chiedervi dove siete, ora, di fronte a quel che succede nello Yemen da 11 mesi in qua, da quando una guerra saudita e americana è stata scatenata contro il nostro Paese. Dove siete? Non sentiamo la vostra voce. Non vediamo nessun giornalista presente nella nostra terra bruciata. Esiste un vero e proprio progetto criminale, uccidono donne e bambini, vengono utilizzati i bombardamenti più moderni, armi proibite, che viaggiano dai vostri aeroporti fino alle basi saudite. Dobbiamo continuare a morire? Dov’è l’opinione pubblica? Dove sono i giornalisti liberi? Lo Yemen vi aspetta, noi vi aspettiamo”.
Mentre guardiamo insieme le atroci immagini in esclusiva dei combattimenti in Yemen e delle vittime, chiediamo ad Al-Douleimi di approfondire le spiegazioni di questa guerra così importante eppure sconosciuta in Occidente.
Come si può spiegare ciò che sta succedendo nello Yemen? Cosa ha spinto l’Arabia Saudita ad aggredire il vostro Paese?
L’aggressione è stata una risposta alla volontà dello Yemen e del suo popolo di mettere fine nel 2015 all’egemonia saudita sul Paese e la sua scelta di stabilire rapporti indipendenti con i vicini. Noi per lungo tempo abbiamo sofferto la sottomissione all’egemonia saudita. Gli yemeniti sono stati privati dalla loro indipendenza e la loro sovranità sul loro territorio. Lo Yemen, malgrado la sua ricchezza, è rimasto un Paese arretrato legato alla volontà dominante della dinastia saudita. I sauditi sono intervenuti dopo una rivolta popolare che ha prodotto un clima nuovo di libertà e indipendenza. Contro la volontà del popolo yemenita è stata organizzata questa guerra distruttiva.
Esiste un vero oscuramento sulla situazione nello Yemen, i giornalisti non riescono arrivare a Sanaa per riferire quel che possono vedere. Eppure ci informano che l’Arabia Saudita vuole addirittura inviare già adesso le sue truppe in Siria. C’è da chiedersi: se ora Riad ha la forza per inviare truppe in Siria, ha forse già vinto in Yemen?
Di fronte al fallimento della politica regionale saudita possiamo aspettarci di tutto: i governanti sauditi sono infuriati, per niente lucidi, e possono commettere qualsiasi atto di stupidità. Purtroppo tutto può succedere di fronte al Caos totale, all’assenza delle Nazioni Unite che non si assumono le proprie responsabilità. L’odio saudita verso gli altri può spingere la monarchia a commettere ulteriori atti criminali, violando il diritto internazionale. Quel che sta succedendo nello Yemen in questo momento non è che un “esperimento” dei sauditi in un solo paese che vogliono ben presto estendere e generalizzare nella regione, in Iraq, in Siria o altrove. Quelli di Casa Saud possono collaborare con qualunque Stato per realizzare i loro obiettivi, perfino con la Turchia, Israele o altri Stati che condividano la loro visione. È vergognoso, di fronte all’aggressione e al disastro umanitario all’assedio del Paese, che ci sia un vero e proprio black-out dei mezzi di informazione. Anche i giornalisti che vogliono andare nello Yemen non possono farlo. I sauditi non vogliono testimoni. Tutti gli aerei diretti a Sanaa devono atterrare in un aeroporto saudita e i giornalisti tornano indietro.
I sauditi hanno raggiunto i loro obiettivi nello Yemen?
Sono riusciti distruggere le infrastrutture, sono riusciti ad aiutare l’Isis e al-Qa’ida ad entrare in importanti città nelle provincie del Sud. I bombardamenti dell’Arabia Saudita ci hanno costretto ad abbandonarle mentre al-Qa’ida avanzava nel Sud, anche ad Aden. Sono riusciti a distruggere lo Yemen ma hanno fallito perché non sono riusciti a far inginocchiare gli yemeniti, che combattono perfino all’interno delle Province saudite. L’Arabia Saudita dopo mesi di bombardamenti non riesce ad affermarsi come una potenza regionale e raccoglie ogni giorno nuove sconfitte.
Vedremo se lo stesso accadrà in Siria, dove i sauditi hanno detto di volersi impegnare con “decisione irrevocabile”, nel momento in cui i loro combattenti per procura, i tagliagole inquadrati nelle tante formazioni salafite, sono vicini a perdere la guerra per effetto dell’intervento russo. Un intervento diretto di Riad in Siria (magari assieme alla Turchia) introdurrebbe variabili molto più pericolose. L'”esperimento” yemenita non depone a favore di Riad, che non coltiva alcun senso della misura, aggiungendo disastri a disastri.
Diventa urgente, qui in Europa, capire subito chi sono gli attori di un’unica grande catena di guerre, quali sono gli anelli dimenticati della catena, come lo Yemen e altri paesi, chi sono i nemici e chi invece sono i potenziali alleati. Scopriremo che questi potenziali alleati sono numerosi anche presso quelli con cui l’Occidente non ha familiarità.
Con la collaborazione di Talal Khrais da Beirut

Fonti: 

9 febbraio 2016

Siria: la riconquista dei confini

di Pino Cabras.
da PandoraTV.



L’esercito siriano, in combinazione con l’aviazione russa, gli Hezbollah libanesi e le forze armate iraniane, sta riprendendo – villaggio dopo villaggio – i territori persi da Damasco lungo i confini nel corso dei cinque anni di guerra. Non controllare i confini è stato l’incubo per chi resisteva all’assalto dei jihadisti, che ottenevano così armi e aiuti per miliardi di dollari. Le linee di rifornimento che collegavano ISIS-Daesh, Al-Nusra e altri soggetti all’entroterra turco e giordano vengono spezzate una ad una. Ora sono prevedibili nuove reazioni da parte degli alleati internazionali della galassia terrorista. 




4 febbraio 2016

Siria: ISIS & Co. perdono terreno, i loro sponsor scappano da Ginevra

di Pino Cabras.


Fonte: http://www.pandoratv.it/?p=6072.

Mentre i negoziati sulla Siria a Ginevra vengono congelati per le prossime settimane, sul terreno di battaglia la controffensiva di Damasco va avanti.
Le forze governative siriane hanno vinto una battaglia importante: hanno rotto l'assedio delle cittadine di Nubbul e e Al-Zahraa, nel distretto settentrionale di Aleppo, dopo tre anni di accerchiamento da parte dell'ISIS. Il tutto accade pochi giorni dopo la riconquista a sud di Shaykh Miskin e a nord di Rabia (nella regione di Latakia).

L’operazione militare – preparata da tre mesi - non solo chiude una situazione drammatica per circa 30 mila abitanti, ma taglia una linea di rifornimento ai terroristi dell'ISIS. L’esercito di Damasco si avvicina al confine turco, che si trova a 20 km dall'area liberata. Questa vittoria interrompe per l’ISIS anche la strada che va da Aleppo alla cosiddetta capitale del Califfato, Raqqah.

La rottura dell’assedio taglia quasi tutte le linee di rifornimento dalla Turchia che alimentavano i terroristi della zona di Aleppo. Per i gruppi armati in zona è un crollo strategico. I miliziani libanesi di Hezbollah, alleati dell’esercito siriano, intercettano le comunicazioni tra i combattenti dell'ISIS e di Al-Nusra mentre si sbandano disorientati a migliaia. Ora Damasco può pensare a liberare Aleppo, ancora una volta con l’aiuto dell’aviazione russa, che da settembre in qua ha cambiato i rapporti di forza in Siria. Vicino ad Aleppo i jihadisti sono geograficamente rinchiusi in una sacca che li espone a un’imminente catastrofe militare.

Non è un caso che proprio ora il segretario di Stato statunitense, Kerry, dica a Mosca “fermate gli attacchi aerei”. Prevedibile la risposta del ministro degli esteri russo, Lavrov: un secco “NO”. Le basi dei negoziati di Ginevra sono cambiate radicalmente ed è prevedibile che cambieranno ancora nelle prossime settimane, perché stanno cadendo le carte che avevano in mano i nemici di Bashar al-Assad. Vedremo se saranno giocate nuove carte.


Pino Cabras.
Hanno collaborato Talal Khrais (Beirut), Mohammad Eid (Damasco), Shadi Martak (Aleppo).

3 febbraio 2016

Nanni Salio (1943-2016), maestro della peace research


di Pino Cabras.
da Megachip.

Conobbi Nanni Salio, uno dei padri italiani di quella che viene definita nel mondo come peace research, vent'anni fa. Ebbi la fortuna di trascorrere assieme a lui molte giornate, mentre partecipavo all'organizzazione delle sue conferenze in Sardegna a cura della Comunità di Sestu, e da subito mi colpì il suo ragionare mite ma robusto, capace di collegare i grandi temi internazionali, le guerre, le questioni dei limiti ecologici della crescita economica. Il collegamento glielo forniva un approccio scientifico rigoroso e appassionato, interamente dedito a costruire una nuova cultura della pace. Fu uno dei migliori esempi di un'intera generazione di fisici che hanno saputo congiungere la loro consapevolezza sui pericoli estremi di quest'epoca, segnata da Hiroshima e Fukushima (due manifestazioni drammatiche della fisica applicata moderna), con un impegno militante molto paziente, costruttivo, fiducioso nella forza della ragione. Una ragione che può unire e dare forza a individui e movimenti.
In un momento come questo, in cui gran parte degli intellettuali sono silenziosi rispetto alle grandi crisi sistemiche del pianeta perché ormai non studiano da decenni e si sono persi in categorie culturali diventate rami secchi, il lascito culturale di Nanni Salio è invece attualissimo, prezioso e vitale.
Nel rileggere dopo anni le pubblicazioni del Centro Studi Sereno Regis da lui fondato, mi rendo conto della potenza delle categorie adoperate, della forza di quelle analisi. Chi oggi si sente spiazzato di fronte alla crisi mediorientale o non sa nulla del potenziale di pace che si trova nel mondo islamico, o vorrebbe davvero collegare riflessione teorica e azione concreta con esempi potenti e ragionati, è da lì che deve ricominciare.
Chi vuole iniziare il suo primo filo della moderna ricerca sui temi della pace, su Wikipedia potrà trovare la voce Giovanni Salio, con una corposa biografia che illumina da tante angolazioni il tema della nonviolenza. In coda a questo articolo potrà trovare i link a decine di suoi pezzi da noi pubblicati nel corso degli anni, sia brevi riflessioni sia veri e propri saggi.
Per chi studierà Nanni Salio sarà possibile riscoprire la duratura attualità politica di Gandhi e Capitini e potrà incontrare un altro grande maestro contemporaneo della peace research, il vecchio e lucidissimo Johan Galtung, grande amico di Nanni Salio. Oggi il mondo arranca a Ginevra per trovare formule di pace raffazzonate per la Siria, ma forse bastava ascoltare già da anni quel che proponeva Galtung con grande lungimiranza e completezza. Quel che voglio dire al lettore è che abbiamo avuto in casa un metodo per comprendere meglio la pace e la guerra, e che dovremo tenercelo caro e farlo fiorire ora che Nanni Salio ci ha lasciati.
E allora voglio ricopiare qui una sua bellissima riflessione sulla vita e sulla morte che scrisse nel 2010 in occasione della scomparsa di alcune personalità a lui care. Nel leggere le parole di Salio dedicate alla morte altrui si scoprirà un emozionante anelito di speranza che ora si può tranquillamente orientare alla sua assenza, che però, come ben ci spiega, sarà una compresenza. Nanni si chiede, nientemeno: «Ma cosa significa morire?». Le risposte sorprenderanno.
Buona lettura.

Pino Cabras



di Nanni Salio, 1 luglio 2010

Di fronte alla morte di persone più o meno note, più o meno care e a me vicine, mi tornano alla mente i versi di una bella poesia di Vivian Lamarque:

A vacanza conclusa dal treno vedere
chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna
la loro vacanza non è ancora finita: 
sarà così sarà così lasciare la vita?

Come ricordare Elise Boulding (6 luglio 1920 - 24 giugno 2010), Enzo Tiezzi (4 febbraio 1938 - 25 giugno 2010), Rina Gagliardi (15 novembre 1947 - Roma, 27 giugno 2010),

persone diverse ma accomunate dal profondo impegno sociale per i problemi della pace, dell'ambiente e della giustizia sociale, che ci hanno lasciato nei giorni scorsi? La loro non è stata una semplice vacanza, come recita la poesia i cui versi evocano il senso di smarrimento che ci coglie di fronte alla morte e al venir meno, più o meno improvvisamente, dei nostri progetti di vita ancora incompiuti.

Pochi di noi, forse, conoscono Elise Boulding, particolarmente nota in sede internazionale per il suo pluridecennale impegno nel campo della "ricerca, educazione e azione per la pace".
Ho avuto modo di conoscerla anni fa, seppure di sfuggita, in uno dei convegni dell'IPRA (International Peace Research Association) che si svolgono con cadenza biennale nei più diversi paesi del mondo.

Elise è stata definita la "matriarca degli studi per la pace", anche lei norvegese come Johan Galtung, che invece, di dieci anni più giovane, può essere considerato il "patriarca".
Oltre a quanto si trova sul web (in particolare segnaliamo il breve ricordo in http://www.transnational.org/ e il suo commovente "viaggio con l'Alzheimer", http://www.transnational.org/ ), di lei in italiano non c'è molto, se non il piccolo, ma prezioso libretto "Inventare futuri di pace", pubblicato dall'EGA nel 1998, in una collana diretta da Giuliano Pontara, nel quale Elise sintetizza gli aspetti principali del suo lavoro.

Il giorno successivo alla sua morte, avvenuta nella ricorrenza di san Giovanni, mi è capitato casualmente di vedere una brevissima nota su Enzo Tiezzi.
In seguito, ho cercato invano notizie sui quotidiani, che invece sono presenti solo nel web, come il breve ricordo scritto da Ugo Bardi nel blog di aspoitalia (http://aspoitalia.blogspot.com/2010/06/enzo-tiezzi-1938-2010.html).

Non riesco a rendermi conto come ci si possa scordare del suo intenso lavoro di ricercatore, scienziato, educatore e animatore nel campo delle questioni ecologiche e in particolare della sostenibilità.
E la bella stagione della rivista Arancia blu, che riprendeva l'immagine della Terra vista dallo spazio. Nonché il suo lavoro sulla scia di Howard Odum per introdurre le tecniche di modellizzazione e valutazione dei sistemi ambientali mediante il concetto di emergia (contrazione del termine inglese "embodied", "incorporata, inclusa", ed "energia", ovvero energia incorporata).


E infine, Rina Gagliardi (alla quale, giustamente, i media, a cominciare da Liberazione, il giornale per il quale ha a lungo lavorato, hanno dedicato molta attenzione) che invitammo anni fa per un confronto tra la cultura di cui era portatrice e quella della nonviolenza, conoscendo la sua sensibilità e attenzione anche a questa tematica.
Sono passati anni da allora, non ho più avuto modo di incontrarla, ma quel ricordo è rimasto come speranza perché la cultura della nonviolenza faccia breccia anche tra coloro che spesso l'hanno fraintesa, riducendola a qualcosa che riguarda solo degli ingenui utopisti che non conoscono la durezza della lotta politica reale.

Ma cosa significa morire? Eterno e irrisolto problema, al quale amo rispondere proponendo, tra le tante possibili, due riflessioni.

La prima è quella che suggerì il grande drammaturgo Friedrich Dürrenmatt nel corso di un'intervista con Michael Haller:

Cosa significa per lei la morte? E' uguale al nulla?
Forse. Ma posso anche immaginarmi che si esista sempre. Schopenhauer ha parafrasato questa idea più o meno così: la coscienza dell'umanità è come un mare di cui la coscienza individuale è un'onda. La totalità della coscienza esisterà fino a quando ci sarà l'umanità. E posso pensare che dopo la morte si diventi un'onda nuova, diversa, di questo mare della coscienza.(Friedrich Durrenmatt, Gorbaciov e Havel. Le ragioni della speranza. Due discorsi politici, Il Melangolo, Genova 1991, pp. 54-55)

La seconda si richiama alle belle riflessioni che Aldo Capitini sviluppò intorno al concetto di compresenza, che ripropongo a partire da alcuni brani tratti dalla sua opera più specifica (La compresenza dei morti e dei viventi, Il Saggiatore, Milano 1966):
"Ho sofferto acutamente nel vedere, proprio al centro della mia attenzione, che c'è chi è colpito dalla realtà com'è ora: l'ammalato, l'esaurito, lo stolto, il morto, e mi sono messo in rapporto - attraverso il tu a quell'infelice - con una realtà che non lo escluda e lo tenga unito con altri esseri che sono nati (realtà di tutti), e lo renda uguale e lo compensi sviluppandosi anche lui infinitamente nella cooperazione ai valori, come chi è sano, vigoroso, vivente (Compresenza).
Questa apertura alla compresenza si può chiamare religiosa, se "religione" è vivere un rapporto (che sia fondamentale nel proprio svolgersi) con "altri". E l'apertura religiosa è pratica, perchè la realtà della compresenza non la posso conoscere scientificamente come le parti della realtà attuale, ma la posso vivere mediante impegni in atto nel tu-tutti che le rivolgo"(p. 11).
"Tutti gli esseri che mai furono e che sono, morti e viventi, costituiscono una compresenza che s'accresce dei nati, che è tenuta insieme ed unificata dalla produzione dei valori" (p. 12).
" Tutti' vuoi dire tutti gli esseri singoli che sono nati. Ci sono gli insufficienti relativi, che sono colpiti dal mondo della natura con qualche grave limitazione. ma vivono; ci sono gli insufficienti assoluti che sono i morti, e ci sono anche i viventi attuali, anche i minimi. La compresenza nella sua capacità unitaria (Uno-Tutti) li trascende come singoli, perché come singoli esseri non sarebbero capaci di dare il compenso di uguaglianza agli insufficienti per i colpi del mondo della natura; tuttavia ogni essere vivente fa parte della compresenza, opera in essa. Questo significa che ogni essere vivente non è soltanto forza vitale e potenza, ma in quanto è unito alla compresenza è in quel "di più" capace di compensare le insufficienze del mondo della natura" (p. 18).

La «grande livellatrice», l'«eterna vincitrice», ci ricorda la nostra fragilità e l'impermanenza di tutte le cose, suggerendoci di essere più umili, saggi, distaccati, profondi.
Pur nella continua incertezza esistenziale delle nostre vite, ci è di conforto pensare e percepire, care/i Elise, Enzo, Rina, la vostra presenza nel grande oceano della compresenza capitiniana, dell'inter-essere, delle onde di coscienza individuali nel quale un giorno anche noi confluiremo.



ARTICOLI DI NANNI SALIO PUBBLICATI DA MEGACHIP
A qualcuno piace caldo e ad altri piace fresco!, 28/11/2008 
Complessità, globalità e ignoranza: fondamenti epistemologici della conoscenza ecologica, 05/12/2008 
Leggere Gandhi a Teheran.. e non solo!, 13/01/2009 
Travolti dall'Alta Voracità, 30/04/2010 
Impermanenza, compresenza e fragilità, 01/07/2010 
Il nucleare non è la risposta. Ma qual è il problema?, 22/07/2010 
Prima che sia troppo tardi, 27/08/2010 
Le balene ringraziano Sea Shepherd, 17/02/2011 
Gandhi No-TAV, 01/07/2011 
Caro Gandhi NO TAV, e adesso cosa dobbiamo fare?, 08/07/2011 
Pragmatismo e nonviolenza 2011, 10/07/2011 
Movimento per la pace: un movimento che non c'è. ancora!, 02/09/2011 
Religioni, spiritualità e crisi ecologica, 30/09/2011 
Facciamo da soli, 06/07/2012 
La Siria tra guerra, pace e nonviolenza, 29/08/2013 
I forconi e Gandhi, 13/12/2013




29 gennaio 2016

Bombe italiane da Cagliari a Riad

di Geraldina Colotti.



Un esposto in diverse Procure per chiedere un’indagine sulle spedizioni di bombe aeree dall’Italia all’Arabia Saudita. Questa l’iniziativa della Rete Italiana per il Disarmo, illustrata ieri durante una conferenza stampa alla Camera — dal titolo «Controllarmi» — e presentata in Procura da Alfio Nicotra, Lisa Pelletti Clark, Massimo Valpiana, Giorgio Beretta, Maurizio Simoncelli e Francesco Vignarca. 

L’articolo 1 della legge 185/90 — ha spiegato ieri Vignarca, coordinatore della Rete — vieta l’esportazione di armi verso paesi in stato di conflitto armato e che violino i diritti umani. Invece, partono dalla Sardegna «continue spedizioni con tonnellate di bombe aeree dirette in Arabia Saudita»: 5 dal 2015 a oggi. Bombe che servono a rifornire i velivoli della Royal Saudi Air Force che «dallo scorso marzo bombardano lo Yemen senza alcun mandato da parte delle Nazioni unite, esacerbando un conflitto che ha provocato quasi 6.000 morti, la metà dei quali vittime civili e sta determinando la maggior crisi umanitaria in tutto il Medio Oriente».

Le spiegazioni fornite dal governo, sono state tardive e ambigue, «al punto da farmi rimpiangere i governi Andreotti — ha detto Giuseppe Civati, presente in sala, e ha proposto che ogni parlamentare pubblichi gli allarmanti dati del traffico di armi e il testo dell’esposto. «Il Parlamento non è più la sede politica adatta per chi tiene alla pace e al rispetto delle norme», ha rincarato Giulio Marcon, criticando la risposta del governo secondo cui la vendita di armi viene «decisa caso per caso»: perché occorrerebbe comunque una decisione del Consiglio dei ministri e il voto delle Camere. 
Riccardo Noury, di Amnesty International, ha ricordato le violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita.

Giorgio Beretta ha denunciato le complicità del governo Renzi «per le nuove autorizzazioni alle esportazioni rilasciate (almeno 5 monitorate, via aerea e via mare), ma anche per il mancato controllo per gli invii di materiali militari decisi in precedenza, com’è espresso compito dell’esecutivo».

Il senatore 5S Roberto Cotti e il deputato di Unidos, Mauro Pili hanno raccontato come «un carico di migliaia di bombe» sia partito in tutta segretezza ancora due settimane fa dall’aeroporto di Cagliari con destinazione la base dell’aeronautiva militare saudita di Taif, non lontano dalla Mecca. 
Dall’ottobre scorso, due spedizioni sono partite via aereo cargo, altre due dai porti di Olbia e Cagliari. Secondo il ministero della Difesa — ha detto Pili — si tratterebbe di materiale in transito: «Bombe in vacanza — ha ironizzato, attratte dalla bellezza del paesaggio». Bombe prodotte dalla RWM Italia, azienda tedesca del gruppo Rheinmetall con sede legale a Ghedi (Brescia) e stabilimento a Domunovas (Carbonia-Iglesias), in Sardegna. 
Per questo, l’esposto della Rete italiana è stato depositato, oltre che alla Procura di Roma, anche a quella di Brescia. Cotti ha chiamato in causa anche le responsabilità del governo della Regione Sardegna.

Significativa la considerazione finale di Beretta: «Le bombe — ha affermato — vengono costruite in una regione come la Sardegna dove le fabbriche chiudono e agli operai non resta che quel tipo di produzione. E vengono gettate in un’altra parte del mondo altrettanto povera, per i profitti di un paese ricco, attraverso l’impresa tedesca».







23 gennaio 2016

Occidente: i media al polonio

di Pino Cabras.


Quando nel 2013 alcuni scienziati svizzeri trovarono livelli di Polonio-210 diciotto volte più elevati del normale nella salma, riesumata, del primo presidente dell'Autorità Palestinese, Yasser Arafat, la notizia non aprì le edizioni dei telegiornali occidentali come invece è stato ieri per il delitto della spia russa Aleksandr Litvinenko. Preferivano bacchettare chi osasse alludere a quelle potenti strutture che avrebbero potuto procurarsi un veleno così difficile da maneggiare. Allora no, non si doveva parlare di "avvelenamento di Stato".

Viceversa, tutti gli organi della NATO (ossia l'intero grande sistema informativo occidentale) sanno invece di dover per forza aprire le notizie con le accuse britanniche a Putin per l'omicidio Litvinenko (con la ridicola innovazione giuridica della responsabilità "probabile", che nei titoli diventa però certissima).

Nel terreno immenso delle notizie di rilevanza mondiale, i grandi media sanno a memoria quali piste battere e quali trascurare del tutto. La redazione è il dio che decide cosa devono sapere milioni di persone, quando innalza piccole notizie al rango di scoop planetario o invece sommerge le grandi notizie annacquandole a pagina 17 o tacendole del tutto.

Eppure proprio in questi giorni emergono notizie sempre più raccapriccianti sui bombardamenti della popolazione civile yemenita da parte dell'Arabia saudita. Pensate all'effetto devastante che avrebbero le foto dell'infanzia spezzata. Ma sulle prime pagine non se ne parla. Il dio redazionale decide che non contano nulla, e nessuno sarà ritenuto responsabile, nemmeno "probabile".

Tutto questo avviene nonostante abbiamo notizie certe sui tappeti rossi con cui David Cameron e i suoi colleghi in Europa e oltreoceano accolgono i piranhas della dinastia saudita.

Così come abbiamo notizie certe sulle bombe - di Cameron e italiane - vendute a Riad per dilaniare migliaia di bimbi in Yemen. Cause ed effetti passano sotto silenzio, e nessuna immagine è usata per scuotere le coscienze.

Dunque abboccate pure, giornalisti, alla lista delle notizie che fanno piacere al cerchio magico della NATO! Non abbiate schiena dritta! Bevetevi di tutto, e soprattutto, fatelo bere alle masse! Magari evitate di raccontare che in Ucraina i nazisti protetti dagli apparati repressivi dello Stato danno una caccia spietata e assassina agli oppositori più eminenti, uccidendoli senza che voi scriviate un solo rigo, nemmeno quando le vittime sono vostri famosi colleghi. Oppure continuate pure a nascondere la repressione selvaggia di Erdoğan sul giornalismo turco, non sia mai che la vostra narrazione atlantista ne risenta.

La notizia 'Made in UK' su Litvinenko aveva in realtà un'importanza molto più modesta: l'indagine per un omicidio che fu certo eclatante per le sue modalità non ha portato a prove certe e si è persa in un labirinto di sospetti, come accade a molti delitti di mafia e certi assassinii politici, quando purtroppo non si trovano dimostrazioni sufficienti.

Dunque: trasformare in una notizia mondiale e in un affare di Stato il caso Litvinenko (un vicolo cieco di illazioni del tutto carenti presso qualsiasi tribunale) è una precisa scelta politica, una chiara provocazione, sulla linea delle recenti provocazioni antirusse giocate con l'abbattimento di aerei civili e militari.

Tra sanzioni e isteria mediatica, si crea in tal modo un clima di guerra, mentre i riflessi di un pubblico continuamente aizzato alla russofobia allontaneranno milioni di europei dai loro interessi, per primo l'interesse a costruire un sistema di sicurezza comune con la Russia.

L'edizione del 22 gennaio di «la Repubblica» ha dedicato al caso addirittura le pagine 2, 3 e 4, cioè il blocco principale delle notizie, con tutti i tromboni russofobi in gran spolvero contro «lo Zar Oscuro». Mentre in prima pagina campeggia la fotonotizia della vedova che invoca sanzioni a Putin.

Possibile che in quelle quattro paginate non ci sia stato spazio per riportare cosa ne pensa un altro congiunto di Litvinenko, suo fratello Maksim? Il quale, mentre nel 2006 chiedeva indagini sul governo russo, oggi sostiene che Aleksandr sia stato ucciso da servizi occidentali perché era un agente doppiogiochista che in realtà raccoglieva informazioni presso russi residenti in Regno Unito, nemici di Mosca. E dice anche che la lettera del suo consanguineo che puntava il dito contro Putin era semplicemente un falso. Interessante, no?

Si badi bene, è quasi impossibile avere la più pallida idea di chi menta e chi no, ma chiediamoci: perché - se l'intento fosse davvero una genuina volontà di investigare - i giornali trascurano questo lato della vicenda, nascondendolo alla vista di un pubblico adulto e vaccinato che potrebbe giudicare autonomamente?

Il caso Litvinenko, come minimo, è molto controverso, per nulla lineare, maturato a ridosso di uno degli ambienti più torbidi del pianeta - la mafia russa di Londra - dove da anni si riscontra un alto tasso di delitti, tradimenti, doppiogiochismi intrecciati con le grandi partite della finanza e dei servizi segreti di tanti paesi. Una zona grigia che non consente il complottismo semplicistico delle redazioni ossessionate dalla Russia.

Eppure - come suggerisce il caso Arafat che richiamavamo all'inizio - nel mondo risulta che non sia solo la Russia a possedere veleni radioattivi.

Una nebbia così povera di fatti certi dovrebbe forse giustificare questo volume di fuoco usato contro un unico bersaglio, il Cattivissimo Putin? Certo, le 329 pagine del rapporto sul caso Litvinenko citano 186 volte il nome di Vladimir Putin (niente male in mancanza di prove), e una cinquantina di volte citano il nome di Anna Politkovskaya, la giornalista uccisa dieci anni fa e che da sempre deve scandire il rosario delle accuse a Putin, anche quando non c'entra con un'indagine.

Bastava a metterci in allarme un altro esempio recente: il caso doping negli sport olimpici. Anche lì, stessa procedura standard: tutti i media dell'Occidente - con perfetta sincronia totalitaria - aprono con pagine e pagine (le prime) sul "doping di Stato" russo e riportano persino false dichiarazioni di Putin, che nemmeno si curano di correggere. Poi nei giorni successivi si scopre che il doping riguardava molti altri paesi: notizia in taglio basso, quasi invisibile. Al pubblico rimane l'imprinting della prima notizia urlata.

Non si dimentichino nemmeno le notizie più assurde, diffuse pur di insudiciare con ogni mezzo la nomea di un leader nemico, come quella dello «sperma di Putin inviato via posta a ogni cittadina russa per fecondarsi». E si potrebbero fare molti altri esempi.

Emerge chiarissimo il meccanismo pavloviano stimolato dal sistema dei media NATO, teso a consolidare ogni giorno un'immagine stereotipata e negativa del potere russo, in un quadro che tace notizie che bucherebbero la bolla mediatica in cui siamo affondati.

18 gennaio 2016

Italia-UE, una crisi dentro una crisi più grande


di Pino Cabras.
da Sputnik e Megachip.


Le guerre che circondano l’Europa alimentano una parte importante del flusso migratorio, e ora quel flusso si abbatte sui contrasti interni dell’Unione europea, disunita e fiaccata da troppi anni di austerity.
La Turchia, soggetto attivo e passivo della guerra siriana, ha in mano il rubinetto che regola l’intensità del flusso migratorio verso l’Europa, mentre l’Europa ha il rubinetto delle risorse finanziarie da dare alla Turchia: solo che sul rubinetto dei soldi le mani in lotta per controllarlo sono più d'una. Si ricorderà che a novembre 2015 fu firmato un accordo da 3 miliardi di euro fra la UE e la Turchia, a sostegno di un pacchetto di interventi pluriennali per i rifugiati, da spendere soprattutto sul suolo turco. Il problema è che quei 3 miliardi bastano a malapena per un anno (mentre Ankara chiede 3,5 miliardi l’anno per due anni), e nessuno sa chi metterà - e in che modo – già da ora, i due terzi della cifra.
Si presume che paghino in gran misura gli Stati membri, ciascuno in base al suo peso economico. Per Stati già sottoposti a vincoli di spesa sempre più penetranti rimane il dilemma: tagliare ancora le spese o chiedere all’Europa più libertà di spesa?
L’Italia, ad esempio, aveva già chiesto qualche flessibilità alla Commissione europea, sforando in modo concordato i rigidi parametri del deficit. Questo è bastato al presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, per dire "abbiamo già dato". Ovverosia: niente ulteriore flessibilità per Roma. Il contributo dell'Italia alla crisi dei migranti ricadrebbe nei soliti vincoli, con prevedibili conseguenze sul bilancio e sull'economia.
Ecco perché il governo italiano non ci sta e dichiara di non volersi sottomettere alla Commissione europea (né alla Germania): esige che quanto sarà speso in più per i rifugiati non faccia scattare la tagliola di Bruxelles. L'attacco di Matteo Renzi ha avuto una risposta durissima da parte di Juncker: «Il presidente del Consiglio italiano sbaglia ad offendere la Commissione in ogni occasione. La mia irritazione è in tasca, sono pronto a tirarla fuori.» Quando i pezzi grossi della troika usano questo linguaggio, la battaglia sarà durissima. È la fine di una sorta di "periodo di grazia" accordato a Renzi. Infatti, sebbene l'Italia sia stata fra i paesi membri più solerti nell'aderire al famigerato "Fiscal Compact", ossia il Patto di bilancio europeo, non ha dovuto applicare da subito il suo pesantissimo obiettivo: ridurre entro vent'anni il debito pubblico dal 130% al 60% del PIL (cioè mazzate pazzesche ogni anno), l'impegno ad avere un deficit pubblico strutturale che non deve superare lo 0,5% del PIL (cioè impossibilità di fare politica economica), l'obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio (che unicamente l'Italia ha introdotto in Costituzione), nonché altre vessazioni che formano l'ossatura della dittatura europea, quella forma di tirannia che pensa di curare l'anemia con i salassi. Per tutto questo meccanismo infernale, in grado di distruggere definitivamente l'economia italiana (e di tutto il Sud Europa), al "premier-mai-eletto" è stato concessa una sorta di sospensione del Fiscal Compact, per non far cadere subito il suo governo e non creare perciò un'altra Grecia, molto più grande e incontrollabile.
È grazie al poter stare in questo limbo che Renzi ha potuto presentare come una svolta epocale un PIL che non calava più, anche se cresceva di pochi spiccioli, così come ha potuto maneggiare qualche risorsa per giochi di prestigio fiscali, senza però intaccare nessuna delle ragioni del declino italiano.
Ora Renzi non sarà più graziato, mentre rimane il nodo di fondo della dittatura fiscale europea: un nodo scorsoio che tornerà a stringersi, non lasciando più margini di manovra. Con regole simili e con interlocutori così rigidi ai piani alti dell'eurocrazia, la strada dell'austerity è già segnata.
Per questo motivo il caso turco anticipa il problema.
Il presidente turco Erdoğan, uno dei grandi perturbatori del Levante, dopo aver fornito il retroterra militare ai combattenti jihadisti che hanno generato una catena di catastrofi umanitarie in Siria e dintorni, è la diga che oggi trattiene due milioni di rifugiati, ma che domani può anche non trattenere più. Sa bene che l'Europa è un continente ripiegato sui suoi problemi. Sa che i suoi Stati reggono male l'arrivo devastante di una fiumana di disperati, perché su questo sono culturalmente e politicamente impreparati. Sa che quasi tutti questi Stati sono anche vincolati dalla NATO e che la Turchia può coinvolgerli in guerra, dentro quel disastro che essi stessi hanno contribuito a creare destabilizzando il Medio Oriente e il Nord Africa. Insomma, Erdoğan ha potenti strumenti di ricatto per pretendere il pizzo all'Europa, che però non ha ancora deciso chi paga.
È quella stessa Europa che finge che l'Ucraina non sia in bancarotta mentre continua ad appoggiarla diplomaticamente e militarmente, intanto che contro la Russia intraprende la battaglia autolesionista delle sanzioni.
Gli alibi e i rinvii non funzionano più, e le contraddizioni si presentano tutte insieme, in forma di crisi migratorie, finanziarie, sociali, militari e diplomatiche. Se si solleva lo sguardo è un'unica crisi politica europea, nel momento in cui non esiste alcun "sogno europeo" che possa funzionare. Nessun sogno funzionerà finché resterà nella doppia morsa della NATO e delle istituzioni deviate del costrutto comunitario. Rimangono solo i ricatti e i rapporti di forza, oltre a leggi europee che acuiscono i contrasti e creano le basi per ulteriori sconvolgimenti. La battaglia su "quanto deficit si può sforare" è ancora poca cosa rispetto alla vera portata della crisi.