29 maggio 2009

Retroscena di un falso attentato

di Pino Cabras – da «Megachip»

“Attentato sventato a New York”, strombazzavano i media il 20 maggio 2009. La notizia ha meritato titoloni e tanti commenti che hanno riempito le “breaking news” e qualche paginone, ma finora si è indagato poco.

Per la maggior parte dei media è scattato il riflesso di chi dice “non abbassiamo la guardia”. E Dick Cheney, l’anima nera della precedente amministrazione USA, ne ha approfittato per l’ennesima tirata contro chi vuole smantellare il sistema da lui messo in piedi. Ma cosa è successo davvero a New York? Un’analisi appena più approfondita rivela sorprese clamorose.

Le vicende di “attentati sventati” degli ultimi anni mostrano in comune il ruolo ambiguo dei servizi di sicurezza.

Non fa eccezione l’ultimo caso newyorchese.

Scopriamo che i quattro «terroristi islamici» hanno una biografia da sfigati ricattabili, delinquenti abituali statunitensi di facile manipolabilità, e dal profilo jihadista improbabile. Il loro ordigno al plastico disposto dinnanzi a una sinagoga non è esploso, era “inerte”. Gli era stato fornito da un quinto elemento, un agente dell’FBI infiltratosi con la promessa di fornire un kit del perfetto terrorista che comprendeva anche un falso missile (per abbattere un aereo). Le mosse erano seguite passo dopo passo, di fatto governate, da molti mesi, in sinergia con altre agenzie federali.

Un importante elemento di raccordo fra i quattro e l’FBI era il cinquantaduenne pakistano Shahed Hussain, diventato informatore dell’agenzia federale dopo che nel 2002 era stato incriminato per banali reati legati a questioni d’immigrazione, e reso così prono ai ricatti. Hussein si presentava ai quattro con molta disponibilità di denaro e con promesse di procurare armi e ordigni speciali.

Ma il pezzo grosso dell’FBI è un altro. Risponde al nome di Robert Fuller. È un agente che ricompare in diverse vicende controverse, sin dalle circostanze legate agli eventi dell’11 settembre 2001.

Fuller nell’agosto del 2001 ebbe l’incarico di rintracciare e arrestare due persone molto sospette, Khalid al-Mindhar e Nawaf al-Hamzi. La segnalazione era giunta dalla CIA il 23 agosto dopo che i due erano giunti sul suolo USA. Qualche settimana ancora, e i loro nomi sarebbero stati ricompresi nella lista dei presunti dirottatori dell’11/9. La ricerca di Fuller fu talmente svogliata, che finanche la Commissione sull’11/9 ebbe a menzionarne l’indolente inefficacia.

Fuller riappare in cronaca nel novembre 2004. A Washington, sul marciapiede davanti alla Casa Bianca, un uomo si dà fuoco. È lo yemenita Mohamed Alanssi. Sopravvive con il trenta per cento del corpo coperto di ustioni. Nel frattempo emerge un documento di suo pugno nel quale spiega in qualche modo l’insano gesto. È una lettera per Robert Fuller, eccolo lì di nuovo, il quale lo aveva reclutato come informatore. Alanssi scrive di voler vedere la sua famiglia in Yemen prima di dover testimoniare in un tribunale USA su spinta di Fuller perché si dice certo che, dopo quella deposizione, la sua famiglia e lui stesso moriranno. Al «Washington Post» rivela: «Ho fatto un grosso errore a collaborare con l’FBI. L’FBI ha distrutto la vita mia e della mia famiglia, intanto che mi prometteva l’ottenimento della cittadinanza e di pagarmi 100 mila dollari». La somma fu erogata, ma Alanssi non acquisì la cittadinanza USA. La moneta di scambio era una testimonianza a carico di svariati imputati islamici.

Robert Fuller lo rivediamo in Afghanistan, all’aeroporto di Bagram, dove interroga - con i metodi disumani consentiti in questi anni di torture e pressioni - un quattordicenne afghano, Omar Khadr, orbo di un occhio dopo il combattimento in cui è stato catturato. A Khadr sono mostrate diverse foto di presunti guerriglieri, e gli viene chiesto un qualche riconoscimento. Fuller riesce a estorcere al giovane l’identificazione di un uomo canadese di origine mediorientale, Maher Arar, che a quel punto deve rispondere all’accusa di essere stato fra i guerriglieri afghani. Arar è arrestato sul suolo canadese e diventa uno dei tanti casi di «extraordinary rendition». Nell’incertezza giuridica sul grado di copertura sulle pratiche di tortura, Arar è consegnato alla Siria, dove ci sono meno esitazioni costituzionali sui supplizi di Stato (e questo è uno dei più stupefacenti casi di collaborazione fra paesi che altrimenti non si risparmiano atti ostili). Lì Arar viene torturato per mesi e mesi, come è avvenuto in tanti altri casi. Il ragazzo che lo ha accusato finisce intanto nel campo di Guantanamo, dove la commissione militare speciale lo processa nel gennaio 2009. Fuller è chiamato a testimoniare e l’agente FBI ribadisce che il riconoscimento di Arar è avvenuto sulla base di una foto. Il controesame del testimone spinge Fuller ad ammettere che all’inizio il riconoscimento non era stato così netto, anzi era proprio vago, e che solo una protratta «intensa pressione» aveva spinto Khadr a ricomporre in modo più assertivo il ricordo.

Peccato che nel frattempo gli inquirenti canadesi trovano le prove che il loro concittadino, proprio nel periodo in cui secondo Khadr e Fuller si trovava in Afghanistan, era invece in patria. Le autorità si rivolgono alla Siria per riavere Arar, evidentemente innocente. La sua storia viene raccontata dalla cronista Kerry Pither in un libro (Dark Days: The Story Of Four Canadians Tortured In The Name Of Fighting Terrorism).

E poi arriviamo all’ultima vicenda.

I quattro terroristi “islamici” fatti arrestare da Robert Fuller nel 2009 sono: James Cromtie, 44 anni, di cui 12 in prigione, un bugiardo patologico, un violento; David Williams, 28 anni, pluripregiudicato, il quale possiede una pistola da quando se ne compra una coi soldi datigli dall’FBI; Onta Williams, 32 anni, una vita dentro e fuori le prigioni; Laguerre Payen, 27 anni, pregiudicato, schizofrenico sottoposto a trattamento con psicofarmaci.

I quattro hanno incontrato questa caricatura di jihadismo soltanto perché un agente provocatore glielo ha proposto, con insistenze e azioni perseveranti, prospettando loro denaro e armi. Li ha messi insieme lui, insomma. L’allegra compagnia “islamista” non si priva di droghe, banchetti e sontuose bevute.

Il ritratto che emerge somiglia a quello di altri personaggi bizzarri che abbiamo imparato a riconoscere anche nelle cronache sulle deviazioni dei servizi segreti italiani nel corso degli anni, anche di recente, come nei casi di Mario Scaramella o Igor Marini. Sempre oltre il filo dell’impostura e della millanteria, questi soggetti compiono atti che si muovono macchiettisticamente lungo le frange esterne delle trame dei servizi segreti, con coperture, depistaggi, manovre che creano confusione, ma sempre disseminate di riconoscibili contatti con autorità governative. La commistione di vero e falso dei loro racconti e delle schede che li riguardano sembra indicare anche una loro strutturale indifferenza psicologica rispetto al confine tra verità e inganno. Basterebbe poco a smascherare le trame.

Tutta la vicenda dei quattro balordi di New York somiglia maledettamente a un sistema messo in piedi qualche anno fa nell’ambito della Guerra al Terrore. Un comitato di consulenti in seno al Pentagono, il Defense Science Board, nell’estate del 2002 ha proposto la creazione di una squadra di un centinaio di uomini, il P2OG (Proactive, Preemptive Operations Group, ossia Gruppo azioni attive e preventive), con il compito di eseguire missioni segrete miranti a ‘stimolare reazioni’ nei gruppi terroristici, spingendoli a commettere azioni violente che poi li metterebbero nelle condizioni di subire il ‘contrattacco’ delle forze statunitensi (1).

Il paradosso di una simile operazione è spinto fino a limiti estremi. Pare che il piano debba in qualche modo opporsi al terrorismo causandolo.

In base al documento prodotto presso il Dipartimento della Difesa statunitense, altre strategie comprendono il furto di denaro a delle cellule di terroristi o azioni di depistaggio attraverso comunicazioni false. Viene subito alla mente il caso del falso comunicato n. 7 delle Brigate Rosse durante il sequestro di Aldo Moro, nel lontano 1978, uno dei tanti depistaggi degli ‘anni di piombo’, quando erano in incubazione su scala limitata i metodi poi estesi alla globalizzazione della paura.

Gli atti precisi cui ricorrere per ‘stimolare reazioni’ nei gruppi terroristici non sono stati svelati, il tutto in ragione della riservatezza di fonti e contatti da non compromettere.

Un’organizzazione come questa è perfetta per creare confusione e depistaggi, quel genere di caos che si determina nel passaggio dall’«infiltrazione» alla «provocazione».

Il documento del Pentagono si spinge poi a spiegare che l’uso di questa tattica consentirebbe di considerare responsabili degli atti terroristici provocati quei paesi che ospitassero i terroristi, a quel punto considerati dei paesi a rischio sovranità.

Il grande giornalista investigativo Seymour Hersh, una mosca bianca fra la grande stampa, ha rivelato già all’inizio del 2005 che il P2OG è stato rimesso all’opera. Cosa svelava Hersh?

«Sotto il nuovo approccio di Rumsfeld, mi è stato riferito (da fonti interne ai servizi americani, ndr) che agenti militari USA sarebbero stati autorizzati all’estero a fingersi uomini d’affari stranieri corrotti, intenti a comprare pezzi di contrabbando che possano essere utilizzabili per sistemi d’armamento atomici. In certi casi, stando alle fonti del Pentagono, dei cittadini locali potrebbero essere reclutati per entrare a far parte di gruppi guerriglieri o terroristici. Ciò potrebbe comprendere l’organizzazione e l’esecuzione di operazioni di combattimento, o perfino attività terroristiche.»

Evidenziamo: «perfino attività terroristiche».

Anche il prossimo libro di Hersh, di imminente pubblicazione, sarà incentrato sull’esistenza di un mondo pseudo-terroristico e para-terroristico che ha pericolosi punti di contatto con strutture dotate di una qualche patina di legalità.

La recente vicenda di New York, così come le vicende degli attentati londinesi reali o sventati tra il 2005 e il 2007, e altri episodi ancora, sembrano indicare un metodo di lavoro molto consolidato, in grado di inquinare la scena pubblica con una paura indotta.

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(1) Russ Kick (a cura di), 50 cose che forse non sai, San Lazzaro di Savena, Nuovi Mondi Media, 2005. Una descrizione della losca operazione ‘P2OG’ è presente anche in Bruno Cardeñosa, 11-S. Historia de una infamia, las mentiras de la versión official, Malaga, Corona Borealis, 2003.

21 maggio 2009

Perché i piani di Obama & C. non funzioneranno

di Pino Cabras - da Megachip

Sessant’anni di mentalità, di poteri, istituzioni internazionali, una linea economica di riferimento, tutto questo nella nostra percezione non passa in un istante. I commenti politici degli ultimi mesi sono ancora immersi in quel sistema, ma tutto è cambiato. Il mondo uscito dal 1945 ha avuto una lunga continuità che in pochi mesi si è sgretolata. La Grande Crisi procede a dispetto delle idee aggrappate ai vecchi tempi.

A maggio 2009, il rapporto mensile di Leap/Europe 2020 - il sito francese che ha previsto meglio di tanti altri soggetti l’evolversi dell’attuale crisi - scrive proprio che ci siamo, che in questa primavera il mondo farà l’ultimo passo prima di uscire dal quadro di riferimento dei poteri globali degli ultimi sessant’anni, e uscirà soprattutto dalla sua versione “semplificata”, quella impostaci negli ultimi vent’anni, dopo la fine del sistema sovietico.

La fine di un’era rende già subito inutilizzabile il cruscotto di strumenti che sinora hanno guidato le azioni di chi ha preso le più importanti decisioni economiche.

I tentativi disperati di salvare il sistema finanziario globale guidato da Londra e New York hanno fatto impazzire tutte le bussole, influenzate dalle manipolazioni di istituti finanziari, banche centrali e governi.

Le immissioni astronomiche di liquidità che hanno invaso il sistema finanziario globale per un anno, specie il sistema USA, hanno portato gli operatori politici e finanziari a perdere completamente contatto con la realtà. Europe 2020 li paragona ai sub che vengono colpiti da narcosi da azoto (detta anche ‘ebbrezza da alti fondali’), i quali manifestano un’euforia che li spinge ad andare più a fondo quando avrebbero invece bisogno di riemergere. Anche nel caso della finanza c’è un’ebbrezza – lo vediamo in qualche rally borsistico di queste settimane – che distrae dal vero pericolo, per il quale non c’è più la lucidità necessaria in termini di orientamento né ci sono più strumenti adatti.

L’ebbrezza si scontrerà prestissimo con la realtà.

Dieci anni fa, fra le prime 20 istituzioni finanziarie al mondo per capitalizzazione, 11 erano statunitensi, 4 britanniche, 2 giapponesi, 2 svizzere e due giapponesi.
Oggi, le prime 3 sono cinesi, mentre di statunitensi ne sono rimaste 3, intanto che molte fallivano. Il cambiamento è avvenuto nel giro di brevissimo tempo.
Sono tempi insoliti, con paragoni che devono fare il passo del secolo, ossia salti di generazioni.
Europe 2020 fa tre esempi illuminanti.

1) Da quando nel 1694, ossia 315 anni fa, venne creata la Banca d’Inghilterra, il tasso d’interesse non aveva mai toccato un livello più basso di quello attuale, lo 0,5%.


2) Nel 2008 la Caisse des Dépôts et Consignations, un istituto finanziario che fa da braccio operativo dello Stato francese, ha chiuso il bilancio in rosso per la prima volta dalla sua fondazione, avvenuta 193 anni fa, nel 1816. La Caisse era passata per monarchie, repubbliche, fasi imperiali, guerre mondiali, crisi, senza mai conoscere una perdita.

3) Nell’aprile 2009 la Cina è diventato il primo partner commerciale del Brasile, un genere di evento che altre volte ha annunciato un cambio di guardia nella leadership planetaria. Due secoli fa gli inglesi soppiantavano i portoghesi e questo coincise con l’inizio della grande potenza britannica a livello globale. Gli USA sostituirono il Regno Unito come partner principale del Brasile negli anni Trenta del XX secolo, e la cosa coincise con un passaggio di ruolo internazionale che poi vide la preponderanza statunitense.

Assieme a questo senso di assoluta novità, sono preoccupanti le sensazioni di dejà vu, nell’ora in cui cerchiamo di dar forma alla crisi.
Una prima cosa da chiedersi è se una crisi possa avere una forma. I grafici provano a dare una risposta. Le tendenze dei mercati azionari nel corso delle quattro maggiori crisi economiche dell’ultimo secolo mostrano una evidente convergenza fra la curva della crisi del 1929 e quella di oggi.


Trend borsistici: al netto dell’inflazione – durante le ultime quattro maggiori crisi economiche (grigia: 1929, rossa: 1973, verde: 2000, blu: crisi attuale) - Fonte: Dshort/Commerzbank, 17 aprile 2009.

Ma la questione fondamentale da chiedersi è un’altra. L’impegno profuso per reagire alla Grande Crisi andrà a buon fine? Ci chiediamo cioè se gli enormi interventi dei governi e delle banche centrali, nel breve volgere dei prossimi mesi, siano in grado di bilanciare una tendenza storica così robusta che va in direzione contraria. Ci chiediamo se sia possibile spendere bene cifre così difficili da assorbire. Insomma mettiamo in discussione sia lo “stimulus plan” degli USA, sia l’omologo cinese, due piani monstre che sembrano volersi sporcare le mani con l’economia reale.

Europe 2020 vede un ostacolo insormontabile rispetto all’efficacia dei mega-piani di stimolo messi in campo da Obama e Hu Jintao. È la “barriera della capacità di assorbimento”. Cioè l’esistenza di un limite “fisico” alla capacità di spendere enormi risorse pubbliche in tempi sensati, con progetti funzionali, con burocrazie capaci di far procedere il meccanismo di spesa.

Tutti conosciamo la fatica del processo europeo, la lunga storia di tentativi e adattamenti che ancora – nonostante decenni di ricalibrature – rendono la capacità di spesa ben lontana dal 100%, con ampie aree di corruzione, spreco, ininfluenza sui fondamentali dell’economia. A Stati Uniti e Cina manca perfino il tempo, la risorsa oggi più importante, quando invece i risultati dovrebbero far capolino immediatamente per rasserenare i cuori di milioni di persone, e confortare i portafogli vicini a questi cuori.

I leader dell’Unione europea e le autorità che presiedevano ai bilanci hanno scoperto già all’inizio degli anni novanta l’esistenza di una barriera in relazione alla capacità di un sistema-Paese di “assorbire” gli aiuti allocati per il suo sviluppo economico.

Se calcolato su base annua, il piano di Obama corrisponde a 182 miliardi di euro, quello cinese a 215 miliardi. L’Europa dei fondi strutturali dispone di circa 70 miliardi di euro per anno. Ciascuno dei piani di stimolo economico varati da Washington e Pechino è dunque circa tre volte più grande dei fondi europei, proprio quei fondi che scontano tuttora la “barriera della capacità di assorbimento”.

Capite ora quanto è inedita la portata del problema.

Cina e USA devono dimostrare immediatamente una capacità di assorbimento enormemente più vasta di quella europea, pur rodata da vent’anni di pratiche.
Dovranno, qui ed ora, tener conto delle loro dimensioni continentali, con tutte le diversità locali, le differenze stridenti fra territori e sistemi subregionali. Proprio come l’Europa.
Diversa rispetto all’Europa sarà però l’infrastruttura pubblica: molto meno sviluppata in USA, molto di più in Cina, ma in entrambi i casi non abbastanza preparata e formata per gestire in pochi mesi tanta complessità operativa.
Il dilemma è inventarsi un flusso di procedure e risorse che non può permettersi il lusso di arrestarsi nei colli di bottiglia, né sopportare carenze progettuali, né farsi vanificare da mafie agguerrite che spolpano i fondi.
Nel mentre il ticchettio della crisi va avanti. Dal febbraio 2008 al febbraio 2009 gli Stati Uniti hanno perso oltre 4 milioni di posti di lavoro, e la tendenza si accelera.

Mappa dell’occupazione USA (feb 2008 - feb 2009). In blu il lavoro creato, in rosso il lavoro perso.
Fonte: Bureau of Labor Statistics / NYT

In queste situazioni il rischio immediato è che ogni euro, ogni dollaro, ogni yuan renminbi investito dalle autorità pubbliche generi sempre meno valore aggiunto. O non viene speso del tutto, o viene speso male.

Nei casi peggiori, gli effetti degli incentivi sono perfino negativi, perché possono creare delle “bolle” a livello locale, o erigono cattedrali nel deserto, senza impatti sull’economia. Oppure selezionano imprenditori specializzati a massimizzare il denaro pubblico, anziché l’economicità delle loro imprese. Nei casi davvero peggiori, come ci dice anche l’esperienza italiana, incancreniscono la corruzione sistemica a livello di governo locale, fino a creare vaste reti criminali in grado di condizionare la politica e rendere non rendicontabili i risultati.

Le avvisaglie di queste difficoltà ci sono già.
In USA le agenzie che hanno in carico la realizzazione del programma potranno dare informazioni sui progetti solo nell’ottobre 2009 e “forse” (che per i burocrati significa “non prima di”) durante la primavera del 2010, fuori tempo massimo perché la cosa abbia senso («USA Today, 6 maggio 2009»). I canali di spesa già oliati non ci sono.

In Cina la fantasia dei burocrati è arrivata a prescrivere per tutti i funzionari pubblici del distretto di Gongan (provincia di Hubei) l’«obbligo di fumare» per stimolare l’economia dell’area, fortemente basata sulla produzione di sigarette. Davvero la Grande Crisi produce notizie. L’uomo morde il cane.


I peggiori dieci periodi di perdita di posti di lavoro in USA:
Fonte: US Bureau of Labor Statistics / Christian Hill

Rimane la notizia vera di una crisi senza precedenti e in avvitamento. I piani di stimolo ridurranno forse la caduta dell’occupazione, sebbene con effetti marginali. Ma il lascito sarà terribile per la finanza pubblica. In Cina ci sarà un drastico calo delle riserve finanziarie. Negli USA ci saranno un deficit e un debito meno sostenibili, o forse proprio del tutto insostenibili. Per la prima volta nella storia le risorse del livello federale sono diventate l’introito più importante per i singoli Stati, e gli effetti saranno duraturi.

Quanto a noi, in Italia, l’informazione è lontana dal raccontare la dimensione della crisi. Addirittura un crollo del PIL intorno al -6% è capace di passare quasi inosservato.

15 maggio 2009

Tutto il PD giapponese e importanti settori della società civile con Yukihisa Fujita per una nuova inchiesta sull’11/9

da reopen911.info




Yukihisa Fujita, un membro della Camera alta del Parlamento giapponese ha appena pubblicato un libro intitolato: “Ridiscussione dell’11/9 al Parlamento giapponese – Obama può cambiare gli USA?”.

I coautori del libro sono David Ray Griffin, Yumi Kikuchi ed Akira Dojimaru.


Il parlamentare Fujita è membro in carica nonché ex direttore della Commissione per gli Affari Esteri e la Difesa. In questo ruolo ha rimesso in discussione l’11 settembre in Parlamento per tre volte. Fujita ritiene che una nuova inchiesta sull’11/9, in quanto giustificazione principale della “Guerra al terrorismo”, sia necessaria per trovare delle soluzioni pacifiche.


Un ricevimento ufficiale ha avuto luogo l’8 aprile all’hotel Tokyo Dome, in occasione della pubblicazione del libro di Fujita. Questo evento è stato organizzato e promosso da un importante gruppo di sostenitori di Fujita, tra i quali il redattore capo del «Japan Times», numerosi deputati di spicco del partito democratico e svariati capitani d’industria.


Yumi Kikuchi, pacifista e attivista assai noto per le sue indagini sull’11/9, ha presentato una videoconferenza preparata dal coautore del libro, Akira Dojimaru, che si trovava in Spagna al momento dell’incontro. Nel corso della presentazione sono stati esposti in dettaglio i principali elementi in totale contraddizione con il resoconto ufficiale dell’amministrazione americana e dei mass media circa l’11/9, a chiara dimostrazione di come l’11/9 sia stato utilizzato costantemente per giustificare delle guerre.

Takao Iwami, un giornalista politico titolare di una rubrica sul quotidiano «Mainichi Shimbun» ha intervistato Fujita sul suo libro, sulle conseguenze dell’11/9 e sulla sua visione della politica mondiale. Durante la seconda parte dell’evento Fujita ha ricevuto i saluti ufficiali dai seguenti relatori:

Tadashi Inuzuka, membro del Parlamento e della commissione per gli Affari Esteri e la Difesa.
Hideaki Seo, direttore della Sundai School, presidente del forum politico di Fujita.
Yukiyo Hatoyama, Segretario Generale del Partito Democratico giapponese.
Kazuo Tanigawa, ex-ministro della Difesa e ministro della Giustizia del partito liberale democratico ‘Minshuto’, attulmente al potere.
Yasushi Kurokouchi, ex-ambasciatore in Svizzera, Nigeria e Tanzania.
Haruhiko Shiratori, padre di una vittima dell’11/9.
Yasuo Onuki, ex direttore delle redazioni Europa e USA di NHK (radiotelevisione pubblica giapponese).
Hiroshi Yamada, ex capo-redattore di delle redazioni USA ed Europa del quotidiano giapponese «Yomiuri».
Kyoji Takei, rappresentate di un importante sindacato operaio dell’industria tipografica giapponese.


Tutti i relatori hanno sostenuto incondizionatamente gli sforzi di Fujita nel sottolineare l’importanza delle questioni legate all’11/9 nel quadro di un’istanza di pace e di riconciliazione in Afghanistan e di protezione del carattere non belligerante della Costituzione giapponese. L’articolo 9 della Costituzione giapponese vieta infatti qualsiasi atto di guerra da parte dello Stato. Il Giappone ha formalmente rinunciato al diritto sovrano di muovere guerra e ha bandito l’impiego della forza per risolvere e comporre i conflitti internazionali. L’articolo 9 dichiara altresì che per perseguire tali obiettivi, il Giappone non manterrà forze armate con un potenziale militare. Tuttavia, i movimenti conservatori che sempre più pressanti chiedono una revisione dell’articolo 9 affinché il Giappone possa giocare un ruolo di maggiore rilievo nella sicurezza mondiale, stanno utilizzando l’11/9 come giustificazione sostanziale delle loro richieste. In chiusura, un saluto ufficiale di Ichiro Ozawa, capo dell’opposizione e del Partito Democratico del Giappone, è stato letto al pubblico. Nel corso di tale saluto, Ozawa ha chiesto a Fujita di perseverare con il suo lavoro.


Le seguenti personalità hanno ufficialmente manifestato il loro sostegno a questo evento:

- Katsuhiro Suzuki, portavoce del gruppo di supporto.
- Takuhiko Tsuruta, presidente dell’associazione degli abitanti della prefettura di Ibaragi
- Masanori Endou, presidente dell’associazione Fujimizu – ex governatore di Bunkyo-ku, Tokio.
- Sachio Endo, presidente della confederazione sindacale locale di Tokyo (Tokyo Local Japanese Trade Union Confederation)
- Ichiro Ozawa, capo del PD
- Azuma Koshiishi, presidente della Camera dei Consiglieri del PD.
- Naoto Kan, portavoce del PD
- Yukiyo Hatoyama, Segretario generale del PD
- Katsuya Okada, membro della Camera dei Rappresentanti, ex presidente del PD
- Seiji Maehara, membro della Camera dei Rappresentanti del PD.
- Mr. Terashima, presidente onorario del Japan Research Institute ed ex direttore (1987-1991) della Mitsui Coporation USA.
- Yukika Arima, presidente dell’associazione per il soccorso e l’assistenza
- Takao Iwami, giornalista
- Minoru Morita, giornalista
- Zuusaburou Shigeki, presidente della Kikkoman Corp.
- Kazuhisa Ogawa, analista militare
- Toshiaki Ogasawara, presidente del quotidiano «Japan Times», il più diffuso tra i giornali in lingua inglese
- Hironobu Narisawa, sindaco di Bunkyu-ku, Tokyo.
- Souya Hayama, presidente di Olympia Co. S.A.
- Masaaki Hiyama, presidente di San Trade Co.
- Tetsu Komatsu, avvocato.
- Masakazu Hagiya, avvocato
- Tsunetaka Tanaka, presidente di Hinomoto Jomae Co.
- Masatake Makamura, presidente del Comitato sindacale giapponese di elettricità, elettronica e informazione
- Kyoji Takei, presidente del Comitato sindacale giapponese dei poligrafici.


Per la prima volta, l’ampio sostegno fornito alla lotta di Fujita nella denuncia delle menzogne ufficiali sull’11/9 potrebbe diventare decisivo al momento delle elezioni, che dovranno avere luogo al più tardi entro ottobre. Tuttavia, il governo è messo sotto pressione per trovare occasioni favorevoli, mentre il paese è preda della peggiore recessione dai tempi della Seconda Guerra mondiale. Se il partito di Fujita dovesse vincere le elezioni, le cose potrebbero davvero cominciare a cambiare.


24 aprile 2009, Heiner Buecker (http://www.911video.de/news/fujita/fu-en.htm).

Traduzione dal tedesco di Perry per ReOpenNews, tradotta in italiano da Milena Finazzi per Megachip.

2 maggio 2009

11/9: chi tocca i fili

di Pino Cabras - da «Megachip»



Chi tocca i fili muore, o per lo meno si dimette, o viene dimesso. Il cliché del discorso pubblico sull’11 settembre si ripete spesso. Si è ripetuto anche nel caso più recente, quello della rivista scientifica che ha pubblicato un articolo clamoroso, firmato dal professore danese Niels Harrit e altri otto scienziati, quello in cui dall’analisi delle polveri del World Trade Center si è ricavata la presenza di un materiale nanotech che potrebbe essere la causa dei danni che l’11/9 hanno fatto crollare i tre grattacieli. La ‘editor in chief’ della rivista, Marie-Paule Pileni, si è dimessa, una volta interpellata da videnskab.dk, lamentandosi di non essere stata informata della pubblicazione dell’articolo. Materia scottante, al solito.

Prima di addentrarci in questo caso specifico, dobbiamo ricordare che già per altri numerosi episodi sono scattati provvedimenti drastici non appena si arrivava a sfiorare il tabù delle versioni dell’11/9 codificate dai media mainstream e dagli enti che hanno condotto le inchieste.

È capitato nel 2008 a due giornalisti al vertice di «France 24», il canale ‘all news’ francese, Grégoire Deniau e Bertrand Coq, rispettivamente direttore dell'informazione e redattore capo del canale, entrambi vincitori del premio Albert Londres, il “Pulitzer francese”. Licenziati in tronco per “colpa professionale”, il giorno in cui avevano osato organizzare un dibattito sull’11/9.

Anche due delle firme del ‘paper’ di cui è capofila Harrit, Steve Jones e Kevin Ryan, hanno dovuto lasciare il loro lavoro subito dopo aver preso posizione sull’11/9, quando avevano divulgato quanto avevano appreso dai rispettivi ambienti e campi di attività. Prassi comportamentali tollerate in migliaia di altri casi diventano improvvisamente un problema da risolvere, e un cavillo si trova sempre. A meno che non ci sia una ritrattazione. Ha funzionato così anche in altri casi.

Un testimone oculare sulla fine dell'edificio 7 del World Trade Center, Barry Jennings, del Dipartimento per gli Alloggi della città di New York, aveva dichiarato episodi nettamente discordanti dalle versioni ufficiali. Jennings chiese tuttavia che la registrazione della sua testimonianza per il documentario Loose Change Final Cut venisse ritirata per paura delle conseguenze. Poco dopo Barry Jennings morirà, all'età di 53 anni, in circostanze ancora sconosciute. In altri casi sono stati dei tempestivi suicidi a mondare le controversie.

La professoressa Marie-Paule Pileni, per buona sorte, è ancora in salute. E scrive: «hanno messo in stampa l’articolo senza il mio permesso, e finché voi non mi avete interpellato, io non sapevo che l’articolo fosse stato pubblicato. Io non lo posso accettare, e di conseguenza ho scritto all’[editore] Bentham che mi dimettevo da tutte le attività con lui.»

Fin qui la prassi contestata. Poi la professoressa Pileni entra sulla questione dell’articolo in sé: «non posso accettare che una tale materia sia pubblicata nella mia rivista. Questo articolo non ha nulla a che vedere con la chimica fisica o la fisica chimica, e non faccio fatica a credere che ci sia un punto di vista politico dietro la sua pubblicazione. Se qualcuno me l'avesse chiesto, avrei detto che questo articolo non avrebbe mai dovuto essere pubblicato in questa rivista. Punto.»

Un commento rimarchevole è attribuito alla professoressa francese: «Marie-Paule Pileni sottolinea che poiché l’argomento ricade fuori dal suo campo di competenza, non può giudicare se l’articolo di per se stesso sia buono o cattivo.»

Leggendo invece il suo curriculum, le sue aree di ricerca sembrano contraddire questo assunto. Commenta bene 911blogger.com:

«Interessante. Stretti legami con il complesso militare industriale francese ed europeo. Esperienza con esplosivi (polverizzati) e nanotecnologie. È cosa ragionevole presumere che la Pileni conosca bene i nano-esplosivi. Pertanto l’obiezione della Pileni sul fatto che la materia ricada fuori dal suo campo di competenza è falsa. Perché mai un’esperta di nanotecnologie ed ex “consulente di esplosivi polverizzati” non vuole commentare in merito a un articolo che tratta di esplosivi nano-termitici? Un articolo che ha fatto sì che si dimettesse? Inspiegabile».

Insomma, La Pileni vede obiettivi politici dietro l'articolo, che però non ha in sé parti di analisi politiche. Davvero incomprensibili i suoi rilievi di merito. Gli autori sono chimici e fisici, la materia trattata è lo studio fisico del contenuto chimico e delle reazioni nei campioni considerati. Dove diavolo è, dentro il ‘paper’, la politica? Non c'è. Non certo nel testo in sé. Politiche sono le conseguenze, queste sì. Perché si sollevano questioni davvero scomode, imbarazzi che possono segare una carriera fin lì senza sgarri.

Madame Pileni ha per giunta criticato pesantemente la giovane rivista “Open Chemical Physics”, che ha pubblicato lo spinoso articolo. Il fatto che le altre riviste scientifiche non l’abbiano ancora citata sarebbe per lei il segno che questa testata non sia una buona rivista, e non sia pertanto di alcun interesse. Aveva accettato di diventare la redattrice capo per offrire l’opportunità a giovani ricercatori di farsi conoscere. Ora non vuole che il suo vistoso curriculum e il suo nome siano in alcun modo associati alla rivista.

Eppure è abbastanza normale che il caporedattore non legga proprio tutti gli articoli che appaiono nella sua rivista scientifica. Le dimissioni intervengono su una questione che esula dalle procedure scientifiche normalmente adottate e rivela, essa sì, un disagio tutto politico. Tra l’altro il potenziale discredito richiamato sulla rivista passa per un sacrificio di credito personale che ricade innanzitutto sulla Pileni stessa e sul suo scrupolo di redattrice capo. Evidentemente è disposta anche a questa immolazione.

Il chimico Niels Harrit si è detto dispiaciuto delle decisioni di Marie-Paule Pileni: «Mi ha sorpreso, certamente, e mi dispiacerebbe se il nostro lavoro ne traesse discredito. Ma il suo abbandono non cambia le nostre conclusioni perché è un fatto meramente personale che l’ha fatta adirare. Resto convinto che abbiamo fatto della fisica chimica e se ci sono degli errori nel nostro studio, saremmo ben lieti di sentire le sue critiche».

La Pileni a un certo punto ha affermato che «Open Chemical Physics», la rivista di cui pure aveva accettato di coordinare la redazione, «non compare nell'elenco delle riviste internazionali, e questo è un brutto segno. Ora vedo che questo è perché si tratta di una cattiva rivista.»
Ma è davvero così? Niente affatto.

Invero anche il nostrano Dipartimento Materiali e Dispositivi del C.N.R. ricomprende la «Open Chemical Physics»: http://www.dmd.cnr.it/english/oaj.php

Ma non finisce mica qui. La rivista «Open Chemical Physics», assieme ad altre 154 riviste della Bentham, fa parte della lista nella directory delle riviste ad accesso libero gestita dalle biblioteche della Università di Lund:
http://www.doaj.org/doaj?func=findJournals&hybrid=&query=bentham.

Una ricerca su Google che richieda al motore di ricerca quattro parole: "open chemical physics journal" – nelle sue prime 5 pagine rimanda a una marea di inclusioni della rivista nelle biblioteche e database accademici:http://www.google.com/search?q=%22open+chemical+physics+journal%22&hl=en...

Georgetown University Library: http://library.georgetown.edu/newjour/o/msg02683.html

Intute: Science, Engineering and Technology:
http://www.intute.ac.uk/sciences/cgi-bin/fullrecord.pl?handle=20080813-1...

Internetchemie:
http://www.internetchemie.info/chemistry/chemical-physics.htm

Ecole Polytechnique Federale De Lausanne- Scientific Information and Libraries:
http://library.epfl.ch/en/periodicals/?recId=12868587

Henryk Niewodniczanski Institute of Nuclear Physics PAN:
http://www.ifj.edu.pl/lib/dodat_info.php?lang=en

University of Saskatchewan Library:
https://library.usask.ca/ejournals/view/1000000000375713

ABC Chemistry- Belarusian State University, Minsk, Belarus:
http://www.abc.chemistry.bsu.by/current/fulltexto.htm

Portico.org – “support for Portico is provided by The Andrew W. Mellon Foundation, Ithaka, The Library of Congress, and JSTOR”:
http://www.portico.org/Portico/feedback/oa_title_recommendation.por

J R D TATA MEMORIAL LIBRARY (JRDTML) - INDIAN INSTITUTE OF SCIENCE:
http://www.library.iisc.ernet.in/bentham/bentham-open-journals.htm

逢甲大學圖書館 Feng Chia University Library:
http://e-resources.fcu.edu.tw:8080/1cate/?BM=az&provider=DOAJ&tableName=...

Wageningen UR Library Catalogue:
http://library.wur.nl/WebQuery/catalog/lang/1902051

Geneva Foundation for Medical Education and Research:
http://www.gfmer.ch/Medical_journals/Biochemistry_chemistry_physics.htm

Brigham Young University- Harold B. Lee Library:
http://exlibris.lib.byu.edu/sfxlcl3?url_ver=Z39.88-2004&url_ctx_fmt=info......

Journal Search - Sutherland Shire Libraries:
http://journalsearch.sutherlandlibrary.com/JournalDisplay.asp?JournalID=...http://911reports.com/

Non va dimenticato che «Open Chemical Physics Journal» - rivista inclusa nella famiglia di riviste a revisione paritaria Open della Bentham, pubblicamente apprezzate da vari premi Nobel – rende tutti i suoi articoli disponibili online e gratis.

L’Editorial board della rivista comprende 98 nomi di tutto il mondo, fra cui 6 italiani. La pubblicazione scientifica in questione è assolutamente ben sorvegliata. Ben nove autori si sono coinvolti in pieno: Niels H. Harrit, Jeffrey Farrer, Steven E. Jones, Kevin R. Ryan, Frank M. Legge, Daniel Farnsworth, Gregg Roberts, James R. Gourley, Bradley R. Larsen.

Il lavoro svolto rientra perfettamente nel loro campo di competenza, e si espongono apertamente alle controanalisi e alla confutazione delle loro conclusioni nel caso che vi fosse stata una qualche falsificazione.

Sono le parole 11 settembre e World Trade Center l’unica vera grana.“Active Thermitic Material Discovered in Dust from the 9/11 World Trade Center Catastrophe”.

Questa scoperta segnerebbe una chiara strada alla riapertura del caso qualora risultasse definitivamente confermata. Perciò chi ha dato spago al mito del complotto di Bin Laden non la vede di buon occhio.