di Jean Bricmont – «Le Grand Soir».
Traduzione a cura della redazione di Megachip.
24 febbraio 2012
Lettera a una giornalista
Una
giornalista (di cui non citerò il nome né il giornale per cui lavora)
mi ha fatto una domanda a proposito del mio «sostegno ai dittatori» (in
particolare Assad), delle ingerenze negli affari interni di paesi come
la Siria che questo sostegno rappresenterebbe, dei miei collegamenti con
l'estrema destra così come con i siti "cospirazionisti" e della
"garanzia" razionalista e progressista che ad essi apporterei. Ecco la mia risposta.
Lei
solleva due questioni importanti: il mio “sostegno ai dittatori” e i
miei “collegamenti con l'estrema destra”. Queste domande sono
importanti, non perché siano pertinenti (non lo sono), ma perché sono al
centro della strategia di demonizzazione delle modeste forme di resistenza alla guerra e all'imperialismo
che esistono in Francia. È attraverso questo tipo di impasto che al mio
amico Michel Collon è stato proibito di parlare alla Borsa del Lavoro a
Parigi, dopo una campagna condotta da sedicenti anarchici.
In primo luogo, dal momento che si parla di razionalismo, pensiamo al più grande filosofo razionalista del XX secolo: Bertrand Russell.
E a cosa gli è toccato durante la Prima Guerra Mondiale, cui si era
opposto: è stato accusato di sostenere il Kaiser, evidentemente. Il trucco
di denunciare gli oppositori della guerra in veste di sostenitori della
parte a cui si fa la guerra è antica quanto la propaganda di guerra.
Negli ultimi decenni, io ho così "sostenuto" Milosevic, Saddam Hussein, i
taliban, Gheddafi, Assad e forse domani Ahmadinejad.
In realtà, io non sostengo nessun regime. Sostengo una politica di non ingerenza,
il che vale a dire che non solo respingo le guerre umanitarie, ma anche
le elezioni comprate, le rivoluzioni colorate, i colpi di Stato
organizzati dall'Occidente, ecc..
Propongo che l'Occidente faccia sua la politica del movimento dei Paesi non allineati,
che, nel 2003, poco prima dell'invasione dell'Iraq, aspirava a
«rafforzare la cooperazione internazionale volta a risolvere i problemi
internazionali di carattere umanitario nel pieno rispetto della Carta
delle Nazioni Unite» e ribadiva «il rifiuto da parte del movimento dei
non allineati del cosiddetto diritto di intervento umanitario che non ha
alcun fondamento nella Carta delle Nazioni Unite né nel diritto
internazionale.» Questa è la posizione coerente della maggioranza
dell'umanità, della Cina, della Russia, dell’India, dell’America Latina,
dell'Unione africana. Qualunque cosa ne pensiate, questa posizione non è
di estrema destra.
Siccome ho scritto un libro sull'argomento (Impérialisme humanitaire, Aden, Bruxelles, con prefazione di Noam Chomsky),
non vado a spiegare nel dettaglio le mie ragioni, mi limiterò a notare
semplicemente che se gli occidentali sono così capaci di risolvere i
problemi della Siria, perché non risolvono – tanto per cominciare -
quelli dell’Iraq, dell’Afghanistan o della Somalia? Vorrei anche far
notare che vi è un principio morale fondamentale che occorrerebbe
rispettare quando si sta interferendo negli affari interni di altri
paesi: subirne le conseguenze su sé stessi. Gli Occidentali, ovviamente,
pensano di fare il bene ovunque, ma i milioni di vittime
causate dalle guerre d’Indocina, dell’Africa Australe, dell’America
Centrale e del Medio Oriente, indubbiamente vedono le cose da un punto
di vista diverso.
Per
quanto riguarda i miei “collegamenti con l'estrema destra”, ci sono due
questioni distinte: cosa si intende per “collegamenti” e cosa significa
“estrema destra”? Non chiederei niente di meglio che manifestare con
tutta la sinistra contro la politica di ingerenza, come ritengo dovrebbe
fare. Ma la sinistra occidentale è stata completamente persuasa dalle argomentazioni in favore dell’ingerenza umanitaria
e, in effetti, critica molto spesso i governi occidentali perché non si
ingeriscono quanto le piacerebbe. Così, le poche volte che manifesto,
lo faccio con coloro che accettano di farlo, non tutti di estrema
destra, lungi da questo (a meno che, naturalmente, non si definisca come
di estrema destra il fatto di opporsi alle guerre umanitarie), ma che
non sono più di sinistra secondo il senso comune del termine, dal
momento che la maggior parte della sinistra sostiene la politica di
interferenza. Nella migliore delle ipotesi, una parte della sinistra si
rifugia nel "né-né": né la NATO né il paese attaccato
in quel dato momento. Personalmente, ritengo che il nostro dovere sia
quello di lottare contro il militarismo e l'imperialismo del nostro
paese, non di criticare coloro che si difendono contro di essi, e che la
nostra posizione non sia neutrale né simmetrica, contrariamente a
quanto suggerisce lo slogan "né-né".
Inoltre, sento di avere il diritto di incontrare e di parlare con chi voglio:
mi capita di parlare con persone che qualifichereste come di estrema
destra (anche se non sono, nella maggior parte dei casi, d'accordo con
questa caratterizzazione), ma più spesso con persone di estrema
sinistra, e più spesso ancora con persone che non sono né l’una né
l'altra cosa. Mi interesso ai siriani che si sono opposti alla politica
di ingerenza, perché mi possono fornire tutte le informazioni sul loro
paese che vanno contro il discorso dominante, mentre conosco certamente,
attraverso i media, il discorso dei siriani favorevoli all’ingerenza.
Per
quanto concerne i siti, parlo ovunque posso: ancora una volta, se la
NPA, il Fronte di Sinistra o il PCF desiderano ascoltarmi o anche
discutere con me in modo contraddittorio sulla politica d’ingerenza,
sono pronto a farlo. Ma non succede. Faccio notare che i siti
"cospirazionisti" come lei dice, sono molto più aperti perché sanno che
in generale io non sono d'accordo con le loro analisi, in particolare
sull'11 settembre, e mi accettano lo stesso. Inoltre, le persone che
conosco e che pubblicano su questi siti non sono in alcun modo di
estrema destra e il solo fatto di essere scettici sulla versione
ufficiale dell'11 settembre non ha nulla, di per sé, di estrema destra .
Il
mondo è troppo complicato per mantenere un atteggiamento "puro", dove
non si incontra né si parla se non con le persone della "nostra parte".
Non dimentichiamo che in Francia fu la Camera eletta al tempo del
Fronte Popolare a votare i pieni poteri a Pétain (dopo l'esclusione dei
deputati comunisti, e con l'aiuto dei senatori). E l'opposizione alla
collaborazione metteva insieme gli stalinisti (all'epoca i comunisti lo
erano davvero) e i gollisti, molti dei quali, prima della guerra, erano
stati assai a destra. La stessa cosa accadde durante la guerra d’Algeria
o del Vietnam, quando l'opposizione ai conflitti radunava, tra gli
altri, comunisti, trotzkisti, maoisti, cristiani a sinistra, pacifisti: a
proposito, forse Stalin, il FLN algerino e Ho Chi Minh
erano democratici? Era sbagliato "sostenerli", ossia opporsi assieme a
loro al nazismo o al colonialismo? E nelle campagne anticomuniste degli
anni '80, la sinistra dei diritti dell’uomo non faceva forse causa
comune con tutta una serie di nazionalisti estremi o di antisemiti (Solženicyn,
per esempio)? E oggi, i sostenitori dell’ingerenza in Libia e in Siria
non fanno forse causa comune con il Qatar, l’Arabia Saudita e una serie
di movimenti salafiti?
Poi
ho un problema con la definizione "di estrema destra". So bene cosa lei
vuol intendere nell’usarla, ma per me ciò che conta sono le idee, non
le etichette.
Aggredire
paesi che non vi minacciano (cioè la sostanza del diritto di ingerenza)
per me è un'idea di estrema destra. Punire le persone a causa delle
loro opinioni (come fa la legge Gayssot), per me è un'idea di estrema destra.
Sottrarre
a certi Paesi la loro sovranità e con ciò il fondamento della
democrazia, come fa sempre di più la "costruzione europea", per me è
un'idea di estrema destra.
Dire
che «Israele viene tanto criticato perché è una grande democrazia»,
come se non ci fosse altro motivo per criticare Israele, per citare
colui per il quale quasi tutta la sinistra voterà al ballottaggio
(François Hollande), per me è un'idea di estrema destra. Opporre in un
modo semplicistico l'Occidente al resto del mondo, in particolare alla
Russia e alla Cina (come oggi fa gran parte della sinistra in nome della
democrazia e dei diritti umani), per me è un'idea di estrema destra.
Se volete trovare un posto dove sarei senza esitazioni d'accordo con la "sinistra", viaggiate un po', e andate in America Latina.
Là vedreste una sinistra che è anti-imperialista, popolare, in favore
della sovranità e democratica: dirigenti come Chávez, Kirchner e Ortega
sono eletti e rieletti con percentuali qui impensabili, anche per la
"sinistra democratica", e si trovano ad affrontare un’opposizione
mediatica di gran lunga più insidiosa di un semplice Faurisson (questa
opposizione giunge a sostenere colpi di stato), ma non prenderebbe mai
in considerazione di proibirla.
Purtroppo, in Europa, e soprattutto in Francia, la sinistra ha capitolato su molte cose:
la pace, il diritto internazionale, la sovranità, la libertà di
espressione, il popolo, nonché il controllo sociale dell'economia.
Questa
sinistra ha sostituito la politica con la morale: decide, nel mondo
intero, chi sia democratico e chi no, chi sia di estrema destra e chi
sia una persona frequentabile o meno. Passa il suo tempo a gonfiare il
petto nel “denunciare” i dittatori, i loro complici, le frasi
politicamente scorrette, o gli antisemiti, ma non ha in realtà alcuna
proposta concreta da fare che venga incontro alle preoccupazioni della
gente che pretende di rappresentare.
Questi
molteplici abbandoni di cause progressiste in realtà aprono una larga
strada a una certa estrema destra, ma la colpa ricade su coloro che
hanno compiuto e accettato questi cambiamenti, non su coloro che cercano
modestamente di resistere all'ordine del mondo.
Versione italiana: http://www.megachip.info/tematiche/guerra-e-verita/7797-lettera-a-una-giornalista.html.
19 febbraio 2012
Come si abbattono i regimi
di Giulietto Chiesa - da Megachip.
Raramente scrivo recensioni. In genere, quando non sono costretto a farlo da ragioni di convenienza, o per soddisfare le pretese di autori molto insistenti, scrivo di libri che mi piacciono, o che intendo proporre ad altri lettori perchè li ritengo utili, o perchè offrono angoli visuali originali.
In questo caso il libro in questione non mi è piaciuto per niente. Anzi l’ho trovato irritante. Il suo autore è sostanzialmente un poveraccio (intellettualmente parlando s’intende), che esce come un pulcino inzuppato di ideologia – intesa come falsa coscienza – dalla lavatrice del pensiero unico. Un esegeta, dunque, della Matrix in cui ha vissuto, del tutto incapace di vedere i suoi confini. Una specie di protagonista da “Truman show”, ma privato di ogni possibilità di redenzione.
In questo caso il libro in questione non mi è piaciuto per niente. Anzi l’ho trovato irritante. Il suo autore è sostanzialmente un poveraccio (intellettualmente parlando s’intende), che esce come un pulcino inzuppato di ideologia – intesa come falsa coscienza – dalla lavatrice del pensiero unico. Un esegeta, dunque, della Matrix in cui ha vissuto, del tutto incapace di vedere i suoi confini. Una specie di protagonista da “Truman show”, ma privato di ogni possibilità di redenzione.
Perchè ne scrivo, dunque? Perchè – come avrebbe detto Leonardo Sciascia – il contesto che rappresenta è straordinariamente interessante, ricco di informazioni su come si pensa, cosa si pensa, come si agisce nei centri della sovversione, quei posti dove vengono elaborate le vere strategie e tattiche rivoluzionarie dei tempi moderni. Tempi in cui, per essere precisi, le rivoluzioni le fa il Potere, non i rivoluzionari d’un tempo, non i mitici anarchici, non i popoli, non i partiti, non i soviet, o comunque si siano chiamati in passato, fino al secolo XX incluso.
E qui è subito opportuna una serie di notazioni non a margine. Forse utile per quei lettori che ancora pensano, appunto, con le categorie dei tempi andati; di quelli che, non essendosi aggiornati, non avendo fatto alcuno sforzo per capire quali cambiamenti sono intervenuti nei rapporti di forza, nelle dinamiche economiche e sociali, nei sistemi di informazione e comunicazione, nelle tecnologie della manipolazione, continuano ad applicare le teorie rivoluzionarie dell’epoca delle lotte di classe così come fu descritta, e creata, a partire dalla rivoluzione francese.
Ma queste note a margine, che sono la ragione vera per cui scrivo queste righe, potrebbero forse servire anche per coloro che rivoluzionari non sono, e non intendono essere, ma che semplicemente non hanno mai provato a cimentarsi intellettualmente con il problema del Potere. E, essendo totalmente impreparati a farlo, non sono capaci di capire come il Potere agisce per mantenere se stesso. Con quale ferocia, un Potere – ferocia tanto più grande quanto più grande è questo potere – usa gli strumenti dei quali dispone. Il Potere non è mai “dilettante”. E’ un mestiere. E agisce sempre per la vita o per la morte.
Ma queste note a margine, che sono la ragione vera per cui scrivo queste righe, potrebbero forse servire anche per coloro che rivoluzionari non sono, e non intendono essere, ma che semplicemente non hanno mai provato a cimentarsi intellettualmente con il problema del Potere. E, essendo totalmente impreparati a farlo, non sono capaci di capire come il Potere agisce per mantenere se stesso. Con quale ferocia, un Potere – ferocia tanto più grande quanto più grande è questo potere – usa gli strumenti dei quali dispone. Il Potere non è mai “dilettante”. E’ un mestiere. E agisce sempre per la vita o per la morte.
Ora gl’intellettuali sono spesso inclini a ragionare proiettando sugli altri la loro visione del mondo. Quando lo fanno sulle persone prive di potere commettono sempre dei guai, ma talvolta questi guai sono di secondaria importanza, perchè le persone normali non hanno potere. Ma quando questa proiezione si esercita nei confronti del Potere, essa può divenire esiziale, sia per chi la fa (cioè per gl’intellettuali stessi), sia per chi ci crede, cioè per i lettori dei loro libri, dei loro scritti, dei loro articoli, delle loro conferenze.
Ovvio che con quelle categorie interpretative autoreferenti, non solo non si può vincere niente, ma non è più nemmeno possibile capire chi attacca e chi si difende, dov’è il campo di battaglia, chi sono i contendenti. Quando si discute con questi orfani della ragion politica non è difficile rendersi conto, per esempio, che questo vacuum quasi assoluto di analisi porta spesso costoro a pensare di essere all’offensiva su inesistenti tenzoni, mentre stanno subendo sconfitte clamorose nei campi reali dove la battaglia è in corso, ma dove loro non ci sono. Appunto perché sono altrove. I mulini a vento sono ciò che vedono questi Don Chisciotte modernissimi. La differenza tra loro e il loro prototipo consiste in un solo, enorme dettaglio. Quello della Mancia sognava per conto proprio. Questi sono stati ipnotizzati dal Potere, e vengono condotti per mano dove questo vuole.
Il libro è, in sostanza, la descrizione di come l’Impero, morente, diventa sovversivo per difendersi. E’ un manuale della “rivoluzione regressiva”: l’unica rivoluzione esistente, che segnerà gli ultimi decenni che precedono il crash finale di questo sistema. Il quale, non avendo più futuro, è costretto a pensare a ritroso. E lo fa utilizzando l’ultimo strumento che ha a disposizione: le tecnologie. E’ per questo che riesce ad apparire moderno agli occhi di milioni di giovani, che – immersi come sono nella Grande Piscina dei Sogni e delle Menzogne – non riescono a guardare “fuori” e a vedere la complessità della manipolazione cui sono soggetti.
L’autore si chiama Gene Sharp e non è un ragazzino, visto che è classe 1928. Come abbia vissuto fino ai giorni nostri è faccenda non misteriosa. Basta guardare su Wikipedia la sua modesta carriera di sovversivo.
In questa specialità emerge al termine di una lunga vita nell’ombra, pubblicando un libro il cui titolo originale – “From Dictatorship to Democracy” – richiama subito alla memoria Francis Fukuyama, quello della “fine della storia”. L’editore italiano è Chiarelettere, per altri aspetti benemerito, ma in questo caso completamente abbacinato anch’esso dall’ideologia imperiale.
I confini di Matrix, come sappiamo, sono vasti e appiccicosi. Nell’ultima di copertina l’editore italiano ci informa che Sharp “è ritenuto tra i principali ispiratori delle rivoluzioni che stanno sconvolgendo il mondo arabo”. Definizione riduttiva. In realtà Gene Sharp (diciamo la sua scuola di pensiero, sebbene chiamarla in questo modo faccia correre qualche brivido nella schiena) è l’ispiratore di tutte le esportazioni della democrazia americano-occidentale dell’ultimo trentennio. Di quelle innescate e vinte, come di quelle tentate e perse. E’ bene ricordarlo, perchè nonostante il Potere sia l’unico rivoluzionario esistente, non è detto che le rivoluzioni che tenta le vinca tutte. Qualche volta le perde.Comunque Sharp è il profeta, appunto, delle “rivoluzioni regressive”. Per questo merita tutta l’attenzione da parte nostra, di noi che siamo le sue vittime, i suoi bersagli.
Lui, di sè, dice: “Ero a Tien an men quando i carri armati ci sono venuti addosso” (La Repubblica, 17 febbraio 2011). Capito dove stava? Forse era lui quel giovanotto che fermò la colonna dei carri armati sotto l’Hotel Pechino. A quanto pare fu dappertutto. C’era lui dovunque sorgessero le rivoluzioni , come i funghi, specie dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Sicuramente Gene Sharp era anche quel rude picconatore che sgretolava a martellate il famoso Muro di Berlino. E’ stata la sua tavolozza a fornire i colori delle varie rivoluzioni del ventennio passato, da Belgrado a Tirana, a Pristina a Kiev, a Tbilisi. Quando Gene Sharp non era presente di persona, sembra di capire che “ispirava” da lontano.
Il libro risulta tradotto in quasi trenta lingue, sicuramente in arabo, in russo e in cinese. E si capisce il perché, leggendolo. Perché le centrali sovversive guardano già a Mosca e San Pietroburgo, a Pechino e Shanghai. Si capisce anche che contenga qualche contraddizione, come accade a tutti i bestsellers.La tesi centrale del libro è che ogni dittatura può essere abbattuta, “purchè la ribellione nasca dall’interno”. Ovvero: purchè sembri che essa nasca dall’interno.
Viene in mente subito la Libia. E, ai giorni nostri, la Siria, o anche la Russia.
Infatti Gene Sharp spiega subito che, per nascere dall’interno, se non ci arriva da sola, la ribellione, deve “essere ispirata” da qualcuno. Ecco: il libro di Sharp è un manuale per formare gli “ispiratori”. Per questo – ma Sharp non lo dice – è sufficiente avere molti soldi, a decine e centinaia di milioni. Infatti, queste ribellioni avvengono di regola – così è stato fino ad ora – nei luoghi dove i redditi sono bassi, più bassi, e dove il denaro è l’arma principale per “ispirare”. Senza questo “differenziale” di ricchezza, non c’è ispirazione che tenga. E il primo suggerimento da dare agl’ingenui che non conoscono il Potere è proprio quello di chiedersi: come mai gl’«ispirati» che Gene Sharp cerca sono tutti nei paesi che soffrono di quel differenziale?
Non sarà che, ad essere «ispirati», sono gl’intellettuali dei paesi più poveri? Con i proventi di quel differenziale si possono finanziare centinaia e migliaia di borse di studio, di grants per professori universitari, che accorreranno nelle università britanniche, americane, francesi, tedesche, nei think-tank occidentali, dove verranno educati in piena libertà ad amare solo i valori occidentali, e dove vedranno aprirsi autostrade per le loro carriere future. In patria dopo la vittoria, all’estero in caso di sconfitta. E’ così che si delinea il provvidenziale aiuto dall’esterno. C’è, per questo, e opera da decenni, una possente rete di istituzioni specificamente ad esso destinate, costruite, finanziate. Da “Giornalisti senza frontiere”, solo per fare qualche esempio, ai vari Carnegie Endowment for International Peace, agli Avaaz che raccolgono firme a tutto spiano, e che a volte sembrano davvero delle centrali missionarie, moralizzatrici, libertarie, ecologiche, verdi, comunque molto colorate. Ci sono, per questa bisogna, radio come Free Europe, Radio Liberty, Deutsche Welle e via elencando. Ci sono televisioni satellitari, una marea di siti web, che sono impinguate di piccoli eserciti di “ispiratori” dall’esterno, che trasmettono incessantemente, foraggiano, spingono, descrivono le lotte per i diritti umani, per la democrazia; che fissano le scadenze delle rivoluzioni, delle “primavere”, degli aneliti alla libertà d’impresa, al mercato.
Se, per esempio – com’è accaduto recentemente – il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve votare una risoluzione di condanna del governo siriano che troverà il veto di Russia e Cina, ecco che l’”ispirazione” giungerà puntuale a muovere tutti i media occidentali perchè annuncino stragi in diverse città siriane. Mancheranno fonti attendibili e conferme, ma basterà per questo pubblicare i dati forniti da Avaaz, non si sa come raccolti, oppure quelli di Al Jazeera e di Al Arabiya, la cui attendibilità è ormai pari a quella della CNN, cioè uguale a zero. Non insisterei su tutti questi noiosi dettagli se non avessi assistito di persona alle modalità con cui sono state finanziate e organizzate lerivoluzioni colorate in Jugoslavia, in Ucraina, in Georgia, in Cecoslovacchia, e prima ancora con il meraviglioso prototipo di Solidarność in Polonia, che ebbe come “ispiratore” principale, sotto il profilo ideologico e finanziario, niente meno che il Vaticano del – per questo – beatificato Karol Wojtyła.
Operazioni che, nel centro d’Europa, continuano tutt’ora attorno all’”ultima dittatura”, quella di Aleksandr Lukašenko in Bielorussia, accerchiata dalle radio e dalle televisioni che, pagate dall’Unione Europea, trasmettono dai territori appena conquistati del Prebaltico e della Polonia.
Naturalmente – sarà opportuno ricordarlo per prevenire le geremiadi di coloro che mi accuseranno di sostenere i dittatori più o meno sanguinari – in molti di questi casi le repressioni sono esistite ed esistono. Naturalmente la corruzione e la palese assenza di democrazia di alcuni di quei regimi esistono e sono esistite. Naturalmente esistono e sono esistite forme di resistenza dei diritti umani che meritano tutta la nostra solidarietà. Esse esistono, combattono in condizioni impari contro un Potere che è più forte di loro. Ed è appunto su di esse che si esercita l’”ispirazione” di cui scrive Gene Sharp. Ed essa può fare conto sulla potenza sterminata del denaro, quando è sterminato; ma anche sull’ingenuità dei destinatari. I quali, costretti come sono sulla difensiva, sono straordinariamente penetrabili alle forme più sottili, più innocenti, più “giustificabili”, di corruzione. E’ appunto maneggiando questa trappola che agiscono gl’”ispiratori” come Gene Sharp e i finanziatori che sono appollaiati sulle sue spalle.
Dunque la prima cosa che occorre fare, per capire cosa è successo e succede in tutti i paesi che si trovano dalla parte bassa del differenziale di ricchezza, è osservare l’evoluzione che si verifica proprio nei movimenti di ribellione: cioè come essi sono prima della cura cui vengono sen’altro sottoposti dagl’”ispiratori”, e poi dopo. Questa analisi rivelerebbe curiose somiglianze tra la trasformazione che fu subita, per esempio, da movimenti come “Otpor”, a Belgrado e nella ex Jugoslavia, e la rinomata e ormai defunta “Rivoluzione Aarancione” in Ucraina. Si parte da qualche vecchio ciclostile, e si arriva con un contratto di insegnamento magari a Harvard. Resistere è difficile, per non dire impossibile. All’inizio sono “ispirazioni”, poi diventano ordini, ai quali è impossibile resistere. E più il differenziale è alto, più è facile trovare decine, poi centinaia, poi migliaia di sinceri, sincerissimi “ispirati”.
Hic Rhodus, hic salta. E’ qui che bisogna avere il coraggio e la forza di distinguere i diritti sacrosanti che vengono violati, dai profittatori politici esterni (o anche interni) che li utilizzano per fini di conquista. C’è un criterio abbastanza semplice per distinguere. Basta conoscere chi finanzia. Se, per esempio, ci sono buone ragioni per pensare che sia l’Arabia Saudita a comprare armi e a assoldare eserciti, ecco che si può stare certi che, appoggiando una data rivolta, non si lavora al servizio della democrazia e dei diritti, bensì si sostiene la barbarie e l’oppressione.
Ti mostreranno il contrario, naturalmente. E’ il loro mestiere. Lavorano per questo, ben pagati, 24 ore al giorno, tutti i giorni. Esempi preclari di questa circostanza sono l’UCK del Kosovo e la rivolta siriana. Nel primo caso fu un intero esercito a essere organizzato, finanziato, istruito, appoggiato da fiumi di denaro provenienti da Riyād, da Washington, da Berlino, dalla Nato. E non è un caso se il governo di Pristina che ne è emerso è un covo di criminali, le cui mani insanguinate vengono strette ora con calore a Bruxelles, in pieno ludibrio di ogni diritto umano e di ogni principio europeo di libertà e di rispetto dei diritti umani.
L’altro esempio è ora sotto i nostri occhi in Siria, dove l’evidenza mostra un intreccio complesso ma trasparente di aiuti esterni, ai ribelli provenienti da Israele, dalla Turchia, dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti d’America. Non sono singole unità, sono centinaia, e poi migliaia di stipendi, di prebende, di consiglieri, di esperti. E poi, quando non bastassero i consigli e si dovesse fare ricorso alla forza, è la volta degli eserciti mercenari. E, quando essi vanno al potere e vincono, segue una lunga scia di sangue, di violenze, di vendette, di illegalità e di soprusi. E, dunque, si può essere certi che, in caso di caduta del regime di Bashar el-Assad, quello che verrà dopo non sarà certamente il trionfo della libertà e dei diritti umani. Si veda il caso, di nuovo, della Libia appena liberata dal “sanguinario” dittatore Gheddafi e in preda a masnade criminali che erano già tali prima che il conflitto cominciasse e che ora sono divenute padrone.
Insomma basta applicare l’antica regola del cui prodest. Che non è criterio certo al 100%, ma che funziona, in politica, quasi sempre. Ovviamente usando norme di cautela elementari, come quella di stare sempre attenti che gli organizzatori delle provocazioni le costruiscono sempre utilizzando alla rovescia proprio il principio del cui prodest. Così, quando vi capiterà di trovarvi di fronte a un attentato terroristico qualunque, basterà che analizziate bene – per disinnescarlo - il cui prodest che vi viene offerto su un piatto d’argento. Per esempio quando qualcuno assassinasse Vittorio Arrigoni, e voi sentiste da tutti i mass media, all’unisono, la rivendicazione di un non meglio identificato “gruppo salafita”, con tanto di sito internet e musichetta rivoluzionaria araba, dovreste immediatamente pensare che gl’ispiratori sono stati – faccio un esempio a caso - i servizi segreti israeliani.
L’edizione italiana di Gene Sharp mette in caratteri minori il titolo inglese e offre una nuova titolazione: “Come abbattere un regime”, e come sottotitolo offre un condensato ideologico da cento tonnellate di peso: “Manuale di liberazione non violenta”. Come non applaudire? Qui, sommersi nella melassa libertaria, si possono intravvedere diversi contenuti complementari. Il primo è chiarissimo: noi siamo la democrazia, la libertà e la verità. Dunque abbiamo il diritto, se non addirittura il dovere, si insufflarla
sugli altri. Meglio se negli altri. Chiunque si opponga al trionfo dei nostri ideali è parte del “Male”.
I dittatori sono tutti brutti e cattivi, e sono tutti gli altri: quelli che contrastano il Bene. Chi non li combatte con sufficiente convinzione è un alleato del Male.
Perchè esistano i dittatori, da dove vengano, come si siano formati, se abbiano qualche legittimità, se siano stati un prodotto della storia, chi li ha portati al potere, se siano stati nostri amici e alleati, se siano capi di stato o di governo riconosciuti dalle Nazioni Unite, se abbiano quindi diritti riconosciuti dalla comunità internazionale, se abbiano ragioni da rivendicare, di carattere storico o di emergenza, tutte queste sono questioni che non meritano di essere neppure prese in considerazione. Essi infatti sono “oppressori di popoli”. I quali popoli,ipso facto, vengono sussunti all’interno del nostro sistema di valori. Essi, cioè, hanno i nostri desideri, i nostri impulsi, i nostri bisogni, le nostre aspirazioni. La storia, le diverse storie dei popoli vengono, come per incanto, cancellate. E, come passo successivo immediato, occorre immaginare per loro conto quale dovrà essere la forma di governo che essi devono avere.
Il secondo contenuto implicito è questo: loro, i dittatori, sono violenti; noi, i democratici, dobbiamo essere non violenti. Purchè, naturalmente, il dittatore non riesca a mantenere soggetto il suo popolo. Nel caso ci riesca, poichè noi abbiamo deciso che può farlo solo grazie alla violenza, allora saremo autorizzati a esercitare a nostra volta la violenza. O, per meglio dire, saremo autorizzati a “ispirare” l’uso della violenza da parte degli oppressi contro il “dittatore” che, nel frattempo avremo già definito “sanguinario”, autore di “massacri indiscriminati”. E, giovandoci del differenziale a nostro favore, incluso quello mediatico, saremo riusciti a far diventare dominante la nostra narrazione degli eventi in tutto il mondo esterno.
Dunque, se vi sarà violenza, questa sarà interamente da attribuire alla “sacrosanta” reazione popolare alla “repressione” del dittatore. S’intende che questa “sacrosanta” reazione popolare sarà armata e organizzata mediante il differenziale di armi, munizioni, organizzazione, informazione, tecnologia. Ma saranno comunque i pacifici manifestanti per la libertà a usare le armi contro il sanguinario dittatore e i suoi scherani. E i morti saranno tutti, indistintamente pacifici cittadini, la popolazione civile innocente. Va da sé, inutile ricordarlo, che effettivamente la popolazione civile morirà in grande quantità. L’essenziale è che i racconti e i filmati assegnino la responsabilità degli eccidi esclusivamente al dittatore sanguinario e ai suoi scherani. Che magari sono effettivamente scherani e sanguinari, ma che avranno la malasorte di essere considerati gli unici criminali che agiscono sul terreno.
Sarà utile non dimenticare che, mentre noi - che stiamo sulla parte alta del differenziale, e che leggiamo le cronache dalle nostre alture - applaudiremo alla rivolta pacifica dei popoli oppressi presi di mira dai dittatori efferati che abbiamo preso di mira, altri dittatori, proprio lì a fianco, insieme ai loro scherani sanguinari, saranno lasciati in piena tranquillità a opprimere i rispettivi popoli, godendo, nel fare ciò, del nostro più cordiale appoggio e sostegno. Questo dettaglio – lo ricordo di passaggio – viene sempre dimenticato dagl’intellettuali amanti dei diritti umani che ci stanno intorno e a fianco. E, se glielo fai ricordare, si irritano accusandoti di cambiare discorso. Infatti uscire dalla narrazione delmainstream significa, per loro “cambiare discorso”. E, a pensarci bene, per chi conosce solo la narrazione del mainstream, uscirne anche solo per un attimo significa cambiare discorso.
Ma procediamo oltre. A questo punto il paese astratto che stiamo considerando si trova già in piena guerra civile. Il movimento di protesta ha già ricevuto le necessarie istruzioni per l’uso per colpire i “talloni d’Achille” di quel determinato regime. Perchè Gene Sharp sa perfettamente che ogni regime ha i suoi talloni d’Achille che, se bene individuati e colpiti, potranno farlo crollare di schianto. Da qualche parte, possibilmente in un paese confinante, si trova già un’avanguardia bene organizzata, bene collegata con l’interno, bene integrata con il sistema informativo occidentale, capace di usare al meglio i social networks (tutti sotto il controllo e la guida dei centri di analisi occidentali). Non sarà mica stato casuale se,all’inizio del 2011, poco dopo l’avvio della cosiddetta “primavera araba”, Obama e Hillary Clinton convocarono proprio i chief executive officers dei principali social network, di Google, Facebook, Yahoo and companies? Per la verità quest’ultima è una evoluzione tecnologica che Gene Sharp non include nel suo manuale. Il libro è stato scritto prima che essa diventasse utilizzabile su larga scala e, sotto questo profilo, appare datato.
Ma il manuale di Sharp ha un pregio indubbio, quello di aiutarci a capire bene i meccanismi tradizionali, quelli che sono stati usati negli ultimi decenni e che – si può essere certi - non usciranno di moda. Adesso in Siria, superata la fase dell’innesco della guerra civile, non c’è più nemmeno bisogno di fingere che, a combattere, siano solo i pacifici dimostranti armati oppositori del regime di Bashar el-Assad. Ora si dice apertamente che centinaia di agenti americani, sotto la guida di David Petraeus, attuale direttore della Cia, sono impegnati a reclutare, in Iraq, miliziani delle tribù di confineperchè vadano a combattere in Siria. La stessa cosa avviene attraverso la frontiera turca, dove agiscono i contingenti militari provenienti da Bengasi di Libia, comandati dai leader fondamentalisti islamici che, con l’aiuto della Nato, hanno abbattuto il regime libico. E, dalla frontiera libanese, agiscono le bande del deputato di Beirut Jamal Jarrah, reclutatore di mercenari per conto dell’Arabia Saudita, uomo che fa da cerniera tra il pincipe Bandar, da un lato, e dall’altro – attraverso il nipote Ali Jarah – i servizi segreti israeliani.
Come dire: da un lato i dollari a camionate, dall’altro i migliori consiglieri militari e i più evoluti sistemi di intelligence di tutto il Medio Oriente. Si aggiungano le bande di commandos che già da mesi operano dentro i confini siriani, con l’obiettivo specifico di uccidere Bashar e i suoi più stretti collaboratori, di collocare bombe, di far saltare gli oleodotti.
Sarebbe evidente, il tutto, se i pubblici occidentali lo sapessero. Ma non lo sanno, perchè la cronaca è scritta all’incontrario. E i “diritti umani” della popolazione siriana sono giù stati avvolti nello stesso sudario in cui è imbavagliata ogni verità. Ma gl’intellettuali occidentali, insieme ai giornalisti, e assieme a una certa dose omeopatica di pacifisti, credono di sapere. L’esistenza del sudario non riescono nemmeno a immaginarla. Sentenziano con l’aria di farci sapere che “a loro non la si fa”. Pensano di essere più intelligenti – avendo letto qualche romanzo giallo, o perfino avendolo scritto – dei professionisti che lavorano a tempo pieno per conto di un Potere che non sta giocando a carte.
Così, m’è venuto in mente, usando un altro gioco, di provare una mossa del cavallo. Cioè di andare a vedere, in retrospettiva, cosa avvenne, una ventina d’anni fa, in Lituania. Anche lassù, molto lontano dal Medio Oriente, ci fu un inizio di guerra civile, quando l’Unione Sovietica stava per crollare. I lituani volevano l’indipendenza, e avevano diritto di chiederla. C’era un genuino movimento popolare che si batteva per questo. Fu sufficiente un inizio. Poi tutto si concluse con la sconfitta dell’Impero del Male. Ci furono una ventina di morti a Vilnius, quando le truppe russe e il KGB occuparono la torre della televisione. L’accusa cadde su Gorbaciov, sui russi, i cattivi di turno, che furono accusati di avere sparato a sangue freddo sulla folla.
Lo racconta ora Audrius Butkevičius, che divenne poi ministro della difesa della repubblica, e che, quel 15 gennaio 1991, organizzò la sparatoria.
Fu una operazione da servizi segreti, predisposta, a sangue freddo, con l’obiettivo di sollevare la popolazione contro gli occupanti.
Chiedo al lettore di sopportare la lunga citazione dell’intervista che venne pubblicata nel maggio-giugno 2000 dalla rivista “Obzor” e che è stata recentemente ripubblicata sul giornale lituano “Pensioner”. Sarà una fatica non inutile, perchè coronata da una preziosa scoperta, che ci aiuterà a capire diverse cose del libro di cui stiamo parlando.
«Non posso giustificare il mio operato di fronte ai familiari delle vittime – dice Butkevičius, che allora aveva 31 anni – ma davanti alla storia io posso. Perchè quei morti inflissero un doppio colpo violento contro due cruciali bastioni del potere sovietico, l’esercito e il KGB. Fu così che li screditammo. Lo dico chiaramente: sì, sono stato io a progettare tutto ciò che avvenne. Avevo lavorato a lungo all’Istituto Einstein, insieme al professor Gene Sharp, che allora si occupava di quella che veniva definita la difesa civile. In altri termini si occupava di guerra psicologica. Sì, io progettai il modo con cui porre in situazione difficile l’esercito russo, in una situazione così scomoda da costringere ogni ufficiale russo a vergognarsi. Fu guerra psicologica. In quel conflitto noi non avremmo potuto vincere con l’uso della forza. Questo lo avevamo molto chiaro. Per questo io feci in modo di trasferire la battaglia su un altro piano, quello del confronto psicologico. E vinsi».
Spararono dai tetti vicini, con fucili da caccia, sulla folla inerme. Come hanno fatto in Libia, come hanno fatto in Egitto, come stanno facendo in Siria.
Adesso avete capito. Gene Sharp era là, in spirito. Fu lui che insegnò a Butkevičius come vincere, “trasferendo la lotta sul piano psicologico”. Peccato che, lungo la strada, morirono 22 persone innocenti. Ma, “di fronte alla storia”, cosa pretenderanno i nostri difensori dei diritti umani?
Il libro di Sharp va dunque letto sotto un’altra luce. Ed è, sotto questa luce, un’opera geniale. E’ stato scritto proprio per le giovani generazioni, che sono ormai totalmente prive di ogni memoria storica, già omologate dalle televisioni, ora intrappolate nei social network, che non hanno mai fatto politica, che sono digiune di ogni forma di organizzazione. Per questo è scritto con sconcertante semplicità, per essere compreso da un ragazzo o una ragazza della scuola media: per introdurli nella lotta politica e psicologica rese possibili dai tempi moderni, ma in modo tale che siano strumenti non in grado di capire ciò che fanno e per chi lavoreranno. E’ un manuale per organizzare la “sovversione dall’interno”, di tutti i paesi “altri” rispetto all’America e all’Europa; per armare, con la “non violenza” le quinte colonne che devono far cadere tutti i regimi che sono esterni al “consenso washingtoniano”.
Questa operazione ha un solo “tallone d’Achille”. Che si potrebbe vedere, come fosse fosforescente, non appena si strappasse il tendaggio principale: l’assioma indiscutibile che “noi siamo la democrazia”. Perché capiremmo tutti che la ribellione “non violenta”, che suggerisce Sharp, può essere diretta contro i nostri oppressori “democratici”, che hanno trasformato la democrazia in una cerimonia manipolatoria e senza senso. Potremmo anche noi attuare tutti i suggerimenti di Sharp: dileggiare i funzionari del regime, fare marce, boicottare certi consumi, esercitare la non collaborazione generalizzata, attuare la disobbedienza civile.
In realtà, a ben pensarci, grazie professor Sharp, lo stiamo già facendo. Solo che non abbiamo, a sostenerci, i mercenari pagati con i denari dell’America. E possiamo anche noi citare, come fa Sharp, il deputato irlandese Charles Stewart Parnell (1846-1891) : “Unitevi, rafforzate i deboli tra voi, organizzatevi in gruppi. E vincerete”.
Solo che questa nostra democrazia è molto più subdola delle dittature. E dobbiamo sapere che, quando cominceremo ad abbatterla, per costruirne una vera, magari tornando alla nostra Costituzione, non avremo nessun aiuto dall’esterno.
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15 febbraio 2012
Siria, prima che spari la “tecnica”
di Pino Cabras e Simone Santini - da Megachip.
Quanto
è spesso, l’involucro che protegge la nostra fragile normalità? Fino a
un certo giorno abbiamo un lavoro o abbiamo speranze di ottenerlo,
abbiamo scuole, acqua potabile in casa, l’elettricità, e poliziotti e
giudici sì imperfetti ma guai a non averli. E fino a quel giorno abbiamo
anche ospedali, abbiamo strade più o meno sicure, e una pensione che
forse ci basterà a non cenare soltanto con caffellatte e un misero
biscotto per tutti gli anni del nostro inverno. Quant’è spesso
quell’involucro, il giorno in cui, al posto delle autorità normali,
quelle dello Stato, l’unica presenza visibile di una qualche autorità è
la “tecnica”? Soprattutto, cos’è la “tecnica”?
No, non ci stiamo riferendo a Monti e Papademos, anche se questo inizio poteva farlo credere.
La “tecnica” di cui parliamo non è la tecnica comunemente intesa, è il nome di un tipo di oggetto ben preciso
che ci è stato mostrato tante volte, negli ultimi anni, nelle cronache
di guerra, ma che aveva un nome solo per chi lo usava e per pochi altri.
È un manufatto che rappresenta bene il degrado che attende gli stati
falliti. Li abbiamo visti, in Somalia e in altri disgraziati paesi
africani, e poi in Afghanistan e in Iraq, e da ultimo in Libia, questi
oggetti particolari. Una “tecnica” (in inglese technical) è un tipo di veicolo militare low cost,
un micidiale accrocchio composto da un mezzo civile con un cassone
(tipicamente un pick-up) attrezzato con armi pesanti, quali lanciarazzi e
grosse mitragliatrici. È spaventosamente efficace e distruttivo.
Guardiamolo
bene, fissiamocelo in testa, quel veicolo. Quando la “tecnica”
scorrazzerà nelle nostre strade di sempre, in slalom tra le macerie,
l’involucro della nostra normalità sarà stato già frantumato. La
disoccupazione sarà dilagante, le scuole già distrutte, i
potabilizzatori e le reti idriche costruite in generazioni saranno
poltiglia, l’elettricità arriverà poche ore al giorno, la sanità sarà un
ricordo, le pensioni una chimera. E perfino il povero caffellatte del
nostro inverno cui ci aggrapperemo per sopravvivere sarà inquinato,
perché le guerre asettiche esistono solo nei videogame, mentre le guerre
vere sono eventi ambientali distruttivi.
Se
avremo la disgrazia di pregare in modo “sbagliato”, dovremo perfino
andarcene via, chissà dove e chissà come, a milioni. I luoghi di culto
sbagliati, come tutti i nostri luoghi sbagliati in cui facevamo
comunità, saranno stati rasi al suolo dagli unici ragazzi che trovano un
buon lavoro, i picciotti esaltati e giusti delle tecniche, tanto
innamorati dei loro oggetti da tatuarsi il marchio della Toyota nei loro
avambracci, come già fanno in Afghanistan e in Iraq. E non ci sarà
nessun giudice a proteggerci, nemmeno quello di uno stato oppressivo e
corrotto, ma non digiuno di leggi. L’unica autorità visibile risiederà
sulla canna dei mitragliatori delle tecniche. Le monete che ci suderemo
saranno cartacce da borsanera, che prenderanno il volo verso i boss e
verso l’unica autorità che sovrasterà i signori della guerra locali, una
superiore forza armata di occupazione assistita da mercenari spietati.
Ci
siamo immedesimati abbastanza? Non stiamo descrivendo un film
apocalittico di fantascienza post-atomica del XXII secolo. No, stiamo
raccontando la Guerra Infinita di oggi, con la sua sequela di Stati
falliti, ordinatamente messi in fila secondo l’inesorabile tabella di marcia
rivelata dal generale Wesley Clark. Là dove c’erano Stati sovrani che
ostacolavano l’Impero rimangono territori neocolonizzati e
neofeudalizzati. I regimi prima della dissoluzione saranno ricordati
solo dal lato della loro “oppressione”. I leader saranno visti come
Tiranni folli. E con i folli c’è poco da negoziare, no? Lo abbiamo letto, quel rifornitore di bombardieri che risponde al nome di Adriano Sofri? Dice che occorre «avvertire il nuovo pazzo di Damasco che la sua ora è suonata».
La
caccia al tiranno da abbattere prelude a immensi lutti e, finalmente,
all’arrivo delle “tecniche” a Damasco. Questa è la prossima stazione
della guerra, nel quadro di una lunga pianificazione.
Abbiamo assistito alla missione della Lega Araba in Siria, e i risultati sono stati sorprendenti, tanto da meritarsi il mutismo da parte della grande corrente dei media.
La
Lega Araba è egemonizzata dalle autocrazie del Golfo sotto l’ombrello
militare di Washington. Assad, per evitare l’aggravarsi dell’isolamento
finché ha potuto, l’ha accolta alle condizioni dettate, consentendo uno
scrutinio penetrante in lungo e in largo in tutto il Paese. Con sorpresa
di tutti, il rapporto descrive una situazione molto diversa da quella
che corre nei nostri media, e quindi è stato silenziato. Esattamente
come accadde a Saddam Hussein quando l'Agenzia internazionale per
l'energia atomica non trovò uno straccio di prova sulla presenza di armi
di distruzione di massa. La guerra all’Iraq era comunque pianificata e
si fece a dispetto di ogni residuo pretesto. La guerra alla Siria è già
in agenda, e infatti – a dispetto del rapporto - la Lega Araba rompe le
relazioni con Damasco. La determinazione inflessibile è quella che
prelude alla guerra totale. Non si fanno prigionieri.
Lo schema riduzionista imperante è che Bashar al-Assad
sia l'ennesimo nuovo Hitler, il dittatore sanguinario che spara al suo
popolo, un politico irrazionale che usa la repressione contro istanze
democratiche genuine e pacifiche.
La cosa più drammatica di questa veste concettuale dominante è che essa abolisce la profondità della storia e accetta solo la cronaca,
cioè un terreno totalmente contaminato dai media integrati con le
strategie militari occidentali e di fatto quasi impraticabile per le distinzioni vitali della politica.
Se
si accetta l’agenda dell’Impero, le sue urgenze arbitrarie e
manipolate, si affoga nell’oblio. Dimenticheremmo cioè che esiste un
modello di intervento mediatico e militare ripetitivo già usato in tutte
le guerre dell'ultimo ventennio. Mentre Sofri incita alla fine di
Assad, scende un assurdo silenzio sulla coazione a ripetere di disastri
umanitari e ambientali della Guerra infinita in corso d’opera.
E
c'è di più, se ci facciamo dettare la cronaca dall’Impero assecondiamo
un’immagine ingannevole della Siria e dimentichiamo cosa è stata
veramente negli ultimi anni: un paese di 19 milioni di abitanti che ha
dato una casa e una nuova vita a un milione e mezzo di profughi dall’Iraq,
che hanno potuto spiegare bene ai siriani le amenità della democrazia
per nuovi senzatetto, lo splendore delle strade di Baghdad presidiate
dagli squadroni della morte che mitragliano dalle loro tecniche, nonché
l’odore delle ferite in suppurazione.
Prima
di spiegare ai siriani cosa devono fare a casa loro, chiediamoci tutti:
l'Italia - per fare una esatta proporzione - sarebbe stata capace di
accogliere umanamente, da un anno all'altro, cinque-sei milioni di nuovi stranieri?
Possiamo avere sinceri dubbi in proposito? Proviamo a immaginare lo
sconvolgimento nella vita civile delle nostre città, una per una,
mettendo in fila, una per una, le vite di milioni di famiglie atterrite.
La
Siria se ne è fatta carico con umanità e immensa fatica, scontando in
modo sostenibile le tensioni aggiuntive che si incastravano nel già
complicato miscuglio etnico del paese, scaricate lì
dall'irresponsabilità criminale di chi ha voluto la guerra irachena. Se rinunciamo a questo giudizio storico equanime, la guerra avrà guadagnato molto terreno.
Assad
ha un consenso molto forte, anche quando reagisce con durezza militare
alle sedizioni armate che finora hanno ammazzato migliaia di uomini
delle forze dell'ordine, perché milioni di siriani sanno che se dovesse
saltare il suo blocco politico e sociale sarebbero “irachizzati” e
trasformati anch’essi in uno stato fallito. Il sistema di potere della
dinastia familiare del presidente siriano ha tirato troppo la corda
delle riforme a lungo rinviate, e arriva terribilmente tardi. Ma un
minimo di analisi politica oggettiva è sufficiente a cogliere che le
aperture costituzionali ci sono, e non sono di poco conto.
Basterebbe già questa vicenda a ridare il senso delle proporzioni per valutare il contesto della guerra. Prima di farci trascinare nel coro delle condanne contro le repressioni, ascoltiamo bene chi inizia il canto corale. Sono i capi di apparati che fanno una strage dopo l'altra. Lasciando stare per ora i droni di Obama in Pakistan o le stragi di Sarkozy in Costa d’Avorio, ci basta aprire un quotidiano turco in un giorno qualunque, per trovare notizie come questa: “I caccia turchi bombardano obiettivi del PKK in Nord Iraq”. Da noi, neanche un trafiletto, mentre tutti credono di sapere cosa accade a Homs. C'erano e ci sono spazi e disponibilità di Assad che sono stati rigettati sistematicamente e criminalmente, con ingerenze straniere orientate a uccidere nella culla qualsiasi soluzione che non fosse la guerra civile.
Sentiamo qualcuno strillare contro la conclamata violenza anti-curda in atto chiedendo un "Regime change" ad Ankara, magari a costo di un crollo del paese? Sentiamo forse qualcuno che faccia notare la doppiezza di Obama? Il presidente USA contro la Siria di Assad chiede sanzioni in nome dei diritti umani violati, mentre per il Bahrain di Al-Khalifa
- che ha schiacciato le opposizioni con l'«aiuto fraterno»
dell'esercito saudita e con massacri e torture supportati dagli USA – fa
tutti gli onori.
Nella
nebbia della cronaca, domina quasi incontrastata la narrazione dei
media anglosassoni e di quelli controllati dalle petromonarchie del
Golfo. La cronaca sugli eventi siriani non fa eccezione, e propone
schemi falsi e fuorvianti. Uno di questi è che la rivolta siriana
sarebbe nata pacifica e poi costretta ad armarsi per fronteggiare una
repressione indiscriminata.
In realtà i focolai di rivolta armata si sono avuti praticamente da subito, come in Libia del resto.
Il
primo episodio consistente è della prima metà di aprile 2011, quando
una colonna militare dell'esercito viene attaccata con armamento pesante
sull'autostrada verso la città di Banias provocando 9 vittime tra i
soldati, tra cui un alto ufficiale (prima si erano avuti solo agguati
sparuti contro pattuglie della polizia o esercito in diverse località
del paese). A Banias era scoppiata un’insurrezione, forse promossa dai
fedelissimi dell'ex vice-presidente Khaddam (esautorato nel 2005 per una
lotta di potere interna e riparato in Occidente) e che a Banias ha la
sua roccaforte storica.
Ora,
non si attacca una colonna militare con armamento pesante se non si ha
una adeguata preparazione. Sono azioni che non si improvvisano. Va
notato che nei primi tre-quattro mesi di rivolte, si contavano già
nell’ordine delle centinaia i membri delle forze di sicurezza e dell'esercito rimasti uccisi. Da allora sono con ogni probabilità migliaia.
Sulla stampa occidentale e sui canali satellitari del Golfo per mesi si
diceva che fossero stati giustiziati perché si rifiutavano di sparare
sulle manifestazioni. Era un vero e proprio mantra, clonato dalla
litania che aveva distorto allo stesso modo le cronache sui caduti
libici. Quando tale mantra risultò non più credibile, nacque l'Esercito Siriano Libero.
Da quel momento i soldati lealisti erano effettivamente uccisi in
combattimento, ma da parte dei disertori che lottavano contro il regime.
Uno schema collaudato in tutte le guerre degli ultimi decenni.
Fin da subito, comunque, le testimonianze sul posto raccontavano di "bande armate" che fomentavano il caos. Antonella Appiano,
giornalista che si trovava in Siria fin da prima dello scoppio delle
insurrezioni (cioè dall'inizio di marzo), ha raccolto innumerevoli
testimonianze sulla presenza di queste bande. Tale elemento è perfino
scontato tra la popolazione siriana.
Ora, non è escluso che ci possano essere casi di "strategia della tensione", ossia auto-attentati sotto falsa bandiera (false flag) per giustificare la repressione. Giornali di solito prodighi di patenti di cospirazionista per chi sospettava operazioni false flag
per molti attentati accaduti in Occidente (a partire dall’11
settembre), hanno fatto a gara per subodorare complotti interni e
auto-attentati in Siria. In realtà il ragionamento può essere svolto
anche dall'altra parte. È indubbio, in ogni caso, che esistono numerosi
casi di infiltrazioni di uomini armati che sparavano indistintamente
sulle forze di sicurezza e sulle manifestazioni, e, poi, anche sui
civili in modo casuale, con lo scopo evidente di creare caos per il caos. A chi giova questa strategia criminale, già vista in America Latina e in Iraq, straordinariamente efficace nel destrutturare il grado zero della sicurezza che gli stati dovrebbero garantire nel patto di cittadinanza? Chi ha guidato la mano degli squadroni della morte?
Uno
sguardo ravvicinato alle violenze in Siria fa sorgere domande terribili
sulle narrazioni ufficiali di chi oggi dà la caccia ad Assad come ieri a
Gheddafi.
È
in questo clima e in questa situazione sul terreno che avviene la
repressione, la quale non è inventata, ed è certamente di grana grossa,
rodata da prassi ormai cinquantennali. Di nuovo la Appiano è stata
testimone oculare diretta, a luglio scorso, di una manifestazione inerme
nei sobborghi di Damasco su cui la polizia ha sparato contro, e
riferisce, inoltre, di testimonianze da persone, che ritiene affidabili,
che le continuano a parlare di retate di massa e torture. Altri
reporter riferiscono in modo circostanziato esempi analoghi.
Tuttavia,
se fosse anche parzialmente vero che esistono infiltrazioni che
attentano contro lo Stato con l'intento di provocare una guerra civile,
tale repressione e tali metodi, sicuramente anche brutali, possono
essere giustificati? Fino a che limite lo sono e oltre quale limite
diventano violazione dei diritti umani?
Posto
che ci sono molti civili che protestano in modo pacifico, come facciamo
a qualificare come «civili» gli autori di operazioni a tutti gli
effetti militari? I «civili» non portano armi, e pertanto nessuno
dovrebbe attaccarli, nemmeno i ribelli. Ma se il termine «civile» va a
coincidere con «combattente» armato – come quello a bordo della
“tecnica” – che agisce contro un governo sovrano legittimo, allora
nessuno potrà immaginare che un esercito regolare possa capitolare
davanti a questa tassonomia di «civili», ne tolleri senza reagire gli
attentati; e infine ceda a una sicura sconfitta. Nessuno stato lo
farebbe.
Lo
stesso Assad, nei discorsi alla nazione, ha parlato di errori, di
impreparazione delle forze di sicurezza, che, di fronte a situazioni di
caos hanno sparato in maniera indiscriminata. Secondo Assad tali eccessi
sono stati determinati da situazioni contingenti sul terreno e non
dietro ordini specifici. È credibile?
In
realtà dobbiamo spogliarci dall'idea di vedere certi regimi (come
quello siriano, o ancor più quello iraniano) come granitici. Al
contrario. Nelle stanze del potere è un brulicare di interessi
contrapposti, corruttele, difesa di rendite di posizione. Alcuni settori
del regime potrebbero avere interesse a radicalizzare lo scontro
proprio per togliere ad Assad terreno di trattativa e promulgare talune
riforme che possano essere a loro sfavorevoli. Prima di aprire il vaso
di Pandora della guerra, facciamoci molte domande su quali leve
utilizzare per una via d’uscita politica.
Quali
sono, ad esempio, le forze endogene che agiscono? Ci sono elementi
laici e democratici che si ribellano? Certamente ci sono. Ma, se il
regime dovesse cadere, quali saranno le forze fondamentali che
prevarranno? Non è difficile fare previsioni: le stesse che, mutatis mutandis,
hanno finora prevalso in Libia, Tunisia, Egitto. Ovvero gruppi e
partiti di ispirazione religiosa-radicale che hanno i propri immediati e
diretti sponsor nelle aristocrazie dei piranhas del Golfo (Arabia
Saudita e Qatar in testa). Lo scontro vero, fondamentale, di questo
passaggio storico in questa area, è proprio tra sunnismo e sciismo
politico (dove per politico intendiamo non meramente religioso) e quindi
tra i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo alleati con
l'Occidente (Stati Uniti e Israele) e dall'altra parte Iran, Siria,
Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina, alcune componenti in Iraq. Uno
scontro che ha preso l'abbrivio, con caratteristiche diverse nel Nord
Africa e si concluderà presumibilmente in Iran. Con la Turchia che
intanto scommette di riportare tutto in una cornice moderata. Impresa
molto difficile, almeno se osserviamo i tagliagole al potere in Libia, o
i sermoni di certi Ulama sotto il cielo siriano.
Ancora
una volta, prima di volere per forza spiegare a un siriano filo-Assad
dove abita, come in troppi fanno in Occidente, proviamo a immaginare la
sua reazione di fronte alla predica dello sceicco salafita Adnan al-Aruri,
originario di Hama e riparato in Arabia Saudita, dove è diventato una
star della Tv satellitare al-Wisal, dai cui schermi indossa l’elmetto
contro gli sciiti. La predica risale a giugno 2011 e prende di petto il
legame del regime con le minoranze, specie la comunità alauita: «A chi
rimane neutrale non sarà fatto torto alcuno. Chi partecipa alla
Rivoluzione sarà con noi e verrà trattato al pari di ogni altro
cittadino. Chi invece sarà colpevole di un sacrilegio sarà squartato e la sua carne sarà data in pasto ai cani»[1]. Adnan al-Aruri fa retorica, ma altri predicatori usano ben altro che le parole, ancorché incendiarie.
Caliamoci
ancora una volta nella fornace della storia, sentiamoci già fuori
dall’involucro della nostra normalità, e immaginiamo quali pensieri ci
verrebbero, se vedessimo ogni giorno i seguaci di un simile figuro
incendiare il nostro Paese e prometterci credibilmente di dilaniarci per
ingrassare i cani, esattamente come i parenti del vicino profugo che ci
ha raccontato la sua sorte in mano a chi aveva “abbattuto il regime
oppressivo” di Saddam.
Quali
sono le fonti di molti eventi siriani descritti in questi mesi? Sarebbe
molto utile saperlo; per quanto riguarda la situazione di Homs, le
testimonianze di chi è stato sul posto dimostrano ampiamente che lo
scenario è molto più complesso di quanto viene propagandato a suon di
titoloni.
Dovremmo
imputare le responsabilità degli eccessi a qualche "mela marcia"? La
repressione esiste, non è un'invenzione, lo ribadiamo, ma è necessario
vedere la fotografia più panoramica. E in questo quadro Assad non può
essere dipinto quale esclusivamente "brutto e cattivo", ennesima replica
della “reductio ad Hitlerum”. Assad è un elemento di un
sistema composito e, se si segue da vicino la traiettoria che ha tenuto
durante la crisi, si nota distintamente, a nostro avviso, il suo aver
fatto tutto quanto era in suo potere per (ovviamente) salvaguardare il
"suo" sistema di comando, ma anche per evitare una guerra civile.
Non
è un caso che gli oppositori più ragionevoli abbiano più volte chiesto
ai manifestanti di fermarsi per non essere strumentalizzati e per aprire
un tavolo negoziale con il governo. Quando si spara non si tratta. Chi
sparava? Chi fomentava il caos? Probabilmente lo si è fatto da entrambe
le parti, c'erano sia apparati legati al potere che fazioni
dell'opposizione, che rispondono a logiche diverse ma assumono,
fatalmente, le stesse tattiche.
Troppo complicato, ai tempi di un “Mi piace” su Facebook? Proviamo a semplificare, allora.
Premessa:
prima dell'inizio della crisi Assad era generalmente apprezzato dalla
maggioranza del popolo siriano. Chiunque sia stato in Siria ammette
questo fatto; semmai la critica poteva essere la seguente: Assad è
bravo, peccato che il sistema sia così corrotto; Assad ha promesso che
lo riformerà, piano piano, abbiamo fiducia che sia così.
In
presenza di questa pazienza popolare, sulle ali di una situazione
economica sulla via della prosperità, la necessità di presidiare la
difficile sovranità nel panorama arroventato del Vicino Oriente dava la
precedenza alle scelte più conservatrici di Assad, ai suoi colpi di
freno, attenti a non mettere in crisi il suo partito-Stato, il Ba'th.
Quando è scoppiata la crisi, si sono delineati questi protagonisti:
- Dimostranti pacifici
che chiedevano inizialmente solo riforme, di varia ispirazione politica
(laica, religiosa, etnica, socialista, liberale, ecc.) e che hanno
agito in buona fede. Con l'inasprirsi degli scontri hanno assunto
posizioni via via più radicali. Hanno dimostrato di essere una
minoranza: risibile a Damasco e Aleppo, le due città fondamentali, molto
più consistente in altre zone della nazione, magari anche con
rivendicazioni proprie e particolari (caso esemplare Deraa).
Politicamente sono divisi in tre filoni: i comitati di base (vogliono
la caduta del regime ma nessun intervento dall'esterno), i gruppi
dissidenti all'estero (molto più ambigui sugli "aiuti" esterni), gli
oppositori "dialoganti" che temono la guerra civile.
- Ribelli armati.
Sono apparsi praticamente da subito e non solo come risposta alla
repressione. Anzi, il loro obiettivo era scatenare la repressione e
radicalizzare lo scontro coinvolgendo i manifestanti "democratici". Chi
sono? Dentro c'è di tutto e di più: gruppi legati ad ex uomini forti
epurati come Rifaat Assad, zio di Bashar, il massacratore di Hama del
1982, o l'ex vice-presidente Khaddam, riparato in Occidente, considerato
comunemente un "macellaio" anche dagli oppositori democratici; fazioni
sunnite radicali endogene, che avversano il regime da sempre
(Fratellanza musulmana, salafiti) e che possono avere contatti con stati
esteri (soprattutto le monarchie sunnite del Golfo). Il grosso dei
"manifestanti" ha questo carattere, al loro interno si muovono i gruppi
armati con la stessa ispirazione; veri e propri infiltrati jihadisti,
soprattutto da Iraq, Giordania, Libano, Turchia. Su questo aspetto è da
tenere particolarmente evidente come la maggioranza degli "alqaedisti"
che sono arrivati in Iraq durante l'occupazione americana, venissero
dalla Cirenaica e transitavano proprio attraverso la Siria. Se il regime
ha compiuto un errore strategico è stato quello di chiudere un occhio
su questo transito. In Siria è stato forte il dibattito: che ne facciamo
di questi? Alla fine hanno deciso di non fare nulla. Superfluo dire che
non esiste niente di più torbido di queste armate jihadiste, le cui
strutture sono state attive in Afghanistan negli anni '80, transitando
per Cecenia e Balcani negli anni '90, in Iraq dal 2003, e tornando fuori in Libia e ora in Siria con la “primavera araba”;
- i disertori dell'Esercito Siriano Libero:
difficile dire quanti siano, forse alcune migliaia, probabilmente di
confessione soprattutto sunnita. Non vi fanno parte, al momento,
ufficiali di alto livello (il loro comandante è, ad esempio, un
colonnello e non un generale), sono appoggiati soprattutto dalla
Turchia; non si può escludere l'azioni di forze speciali occidentali (e
anche israeliane) che magari non agiscono direttamente sul terreno ma
coordinano le azioni e le infiltrazioni dai paesi confinanti. Se truppe
speciali entrano in azione in Siria dall'esterno sono probabilmente
arabe, quelle che hanno agito anche in Libia, e libanesi (sunnite e
cristiane falangiste); brigate sunnite irachene, le stesse che cooptò il
generale Petraeus per il surge
in Iraq: Il presidente iracheno Al Maliki le ha sciolte e loro hanno
trovato un altro impiego (secondo voci di intelligence che valgono quel
che valgono si devono a loro gli attentati di Damasco con le autobombe);
- brigate curde siriano-irachene.
I curdi siriani avversano il regime, quelli iracheni, numericamente
molto più consistenti, sono anche molto più organizzati. Le forze armate
curde irachene, tra l'altro, sono addestrate dagli israeliani.
- Forze di sicurezza siriane
(esercito, polizia, servizi segreti). Combattono le insurrezioni e
dovrebbero proteggere i manifestanti pacifici. La prima parte la
svolgono anche in maniera brutale. Se combatti una guerra lo fai con
tutti i mezzi a tua disposizione. Riescono a distinguere tra insorti e
manifestanti? Abbiamo i nostri dubbi (di qui le ammissioni di Assad sui
gravi errori). Ma, vista la situazione sul terreno, è forse missione
impossibile, anche avendo le migliori intenzioni (e loro non crediamo le
abbiano). Ci sono settori "estremi" nella repressione? Come in tutti
gli apparati statali, ci sono quelli con la vocazione del "lavoro
sporco" (e qui siamo nel Vicino Oriente e in un regime che è,
obiettivamente, autoritario). Pare accertata la presenza di elementi
iraniani che supportano le forze di sicurezza. Di certo non sono
angioletti, e in mano non hanno arpe. Anche perché i nemici non
maneggiano clarinetti.
- Shabbiha, le milizie filo-governative.
Possono essere talvolta più realisti del re, per quanto riguarda i
metodi repressivi. Talvolta perché fanatici, talvolta perché proteggono
il loro sistema di potere che può avere anche carattere "mafioso". Non
ci stupiremmo se agissero (anche) con metodologie da "strategia della
tensione". Le manifestazioni "democratiche" sono per loro un pericolo
perché potrebbero offrire ad Assad il "pretesto" per riforme che possono
spazzare vie le loro rendite di posizione, che possono essere mantenute
solo se prende il sopravvento la logica miope dello scontro muro contro
muro.
Anziché
lucidare le grancasse delle condanne, noi che viviamo sicuri nelle
nostre tiepide case, dovremo dunque usare una prudenza estrema, per
difendere la causa della pace, e mettere qualche granello fra gli
ingranaggi della macchina della guerra.
L'Impero
gioca la sua partita esistenziale e lo fa sulla pelle dei popoli con i
mezzi che ha sempre utilizzato e che noi tutti conosciamo bene. Per
l’Occidente il negoziato è impossibile. Intende semplicemente
rovesciare un regime che fa parte di un blocco di cui i poteri
occidentali vogliono liberarsi ad ogni costo.
Un
leader che aveva un potenziale politico riformatore enorme, Bashar
al-Assad, è così trasformato in un “macellaio”, prima di asfaltarlo e
costruirvi sopra – in vista della prossima guerra atomica - una base
militare in più, circondata dalle grassazioni della soldataglia sopra le
“tecniche” lungo le strade di una nazione in sfacelo.
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