19 aprile 2012

Fiat, PD e noi. Una questione di metodo

di Pino Cabras – da Megachip.


Oggi, mentre le cronache descrivono il crollo verticale delle vendite Fiat, con le redazioni che cadono sorpresissime dal pero, ho in serbo per voi un esercizio facile facile: metto uno dopo l’altro due articoli del 2010, scritti a ridosso del referendum di Pomigliano, quando Otelma Marchionne ci regalava la previsione sbruffona di fare 6 milioni di auto l’anno, se solo i sindacati si fossero tolti dal suo scroto manageriale. Il primo articolo descrive le posizioni del PD. Il secondo è un articolo di Giulietto Chiesa. Potrete apprezzare quanto le posizioni del PD avessero i piedi saldamente appoggiati sulle nuvole e quanto invece l’articolo di Chiesa sia confermato alla virgola col passare degli anni. È una questione di metodo.
Il PD è lo stesso partito che ora ha votato senza battere ciglio l’introduzione in Costituzione del pareggio in bilancio (una norma che uccide tutte le altre), intanto che tiene il sacco a Otelma Monti quando vaneggia di numeri futuri come il tasso di crescita del 2020. Gli inservienti dei poteri forti applaudono al chiaroveggente vampiro. È una questione di metodo, anche questa.
I servi svendono i nostri diritti e intanto si tengono a galla con i milioni di finanziamento pubblico, a dispetto della loro disastrosa e meschina incapacità. Noi per finanziare un’attività politica faticosa e controcorrente usiamo mezzi poverissimi. Ma se saremo in tanti faremo un’organizzazione capace di resistere e scacceremo i servi. Pensateci.

Ecco l’articolo numero 1:

«Non mi pento, tifo ancora per Marchionne»
Chiamparino: vincerà il sì. Ma Bertinotti: lo consideravo un bravo manager, ora no

di Maria Teresa Melicorriere.it, 16 giugno 2010.

«Non sono un pentito, al contrario»: il sindaco di Torino Sergio Chiamparino è un"irriducibile" dell' ala del Pd filo-Marchionne. Neanche la vicenda di Pomigliano d' Arco gli ha fatto cambiare idea: «Non mi pento degli apprezzamenti che gli ho rivolto. Anzi, non capisco come il sindacato non possa cogliere l' occasione che viene offerta: credo che nel referendum il sì all'accordo vincerà e quindi penso che la Fiom dovrà ripensarci». Sin dall'avvento dell' era Marchionne la sinistra, persino quella cosiddetta alternativa, ha subìto il fascino dell' amministratore delegato della Fiat. Fausto Bertinotti ne tesseva le lodi. Lo collocava tra i «borghesi buoni» e non aveva paura di dichiarare apertamente: «Mi piace». Ora però l'ex presidente della Camera ha cambiato idea e capeggia il fronte dei "pentiti": «L'accordo di Pomigliano è un disastro e quello che sta facendo Marchionne è peggio di un ricatto, è un atto di violenza: la Fiat cambia con un colpo di maglio il sistema delle relazioni industriali perché questo accordo verrà esportato in tutta Italia e il contratto nazionale di lavoro verrà sospeso. L' intesa che viene offerta ai lavoratori, costringendoli in uno stato di totale dipendenza dall' impresa, è incostituzionale». Bertinotti è un fiume in piena: «Mi sbalordisco che i leader, i dirigenti e gli intellettuali di centrosinistra si mobilitino contro la legge bavaglio delle intercettazioni e si disinteressino del fatto che questo accordo mette il bavaglio agli operai. Anch' io, non lo nego, ho parlato bene di Marchionne, ma se poi fa cose come queste, con la stessa libertà con cui ho detto che era un bravo manager ora dico che è un personaggio pessimo». Insomma, l' ex presidente della Camera cambia idea e lo rivendica. Nel Pd, invece, eccezion fatta per Cofferati, il fronte pro-Marchionne resta sulle sue posizioni. Tanto che Pierluigi Bersani arriva a compiere una piccola svolta e prende le distanze dalla battaglia dei duri e puri della Fiom. La linea prevalente è quella che aveva dettato il giorno prima il vice segretario Enrico Letta. Il più agguerrito dell' ala filo-Marchionne è Piero Fassino. Lui non ha proprio mutato idea. Spiega l' ex leader dei Ds: «Se Marchionne non avesse fatto tutto quel che ha fatto finora, non ci troveremmo qui a discutere di Fiat perché la Fiat non esisterebbe». Per Fassino non si può prescindere da questo dato. Non solo, secondo l' esponente del Pd, che la «ristrutturazione toccasse ogni singolo stabilimento era ovvio». Quindi un monito alla Fiom: «Sta passando l' ultimo treno per salvare Pomigliano e il sindacato deve rendersene conto: in un passaggio così decisivo nessuno può sottrarsi alle proprie responsabilità». L' ex ministro del Lavoro Cesare Damiano, invece, è un filo-Marchionne "malpancista". Quello che lo preoccupa è la parte dell' accordo che riguarda lo sciopero: «Bisogna cambiarla». Ma anche nella sinistra alternativa c' è chi non riesce proprio ad attaccare Marchionne e a cambiare idea su di lui come ha fatto Bertinotti. E' il caso di Valentino Parlato: «La colpa non è sua. Lui è schiavo di una situazione impostagli dal capitalismo. Non è che Marchionne è cattivo ma è costretto a compiere certi passi». Passi che a Parlato non piacciono, ciò nonostante di criticare l' amministratore delegato della Fiat non se ne parla proprio.


Ed ecco l’articolo numero 2:

Le scimmie del capitalismo impazzito

di Giulietto Chiesa, 30 giugno 2010.

Di Pomigliano dovremo parlare a lungo. Anzi, più che parlarne, su questa trincea dovremo combattere. Perché questo è l’inizio di una svolta epocale, in cui chi comanda cerca di imporre le sue nuove regole alla società intera.
Regole di una nuova guerra di classe.
Regole di un potere che traballa, senza prospettive e destino, ma che per questo diventa feroce e pronto a tutto.

Noi, che stiamo dalla parte di chi subisce la violenza, abbiamo perduto. Se ti costringono, con la pistola alla tempia, a scegliere tra il vivere e il morire, l’esito è scontato.
Ma a Pomigliano l’esito non è stato così scontato.
Se si misura l’enormità del ricatto e dell’offesa inferta ai lavoratori; se si misura il tradimento di quasi tutte le centrali sindacali; se si misura l’assenza, l’insulso balbettamento del PD, quando non i decibel scomposti dei peana innalzati a Marchionne dai maggiordomi torinesi Fassino e Chiamparino; se si misura la praticamente unanime azione del mainstream televisivo e giornalistico a sostegno del padrone e/o del governo: se si misura tutto questo, allora il risultato ottenuto dalla caparbia resistenza della FIOM assume dimensioni straordinarie. Che fanno pensare che la partita non è affatto perduta.
Ecco perché la FIAT non è contenta del risultato e la Confindustria neppure: si aspettavano di stravincere e così non è stato. Già pensavano che sarebbe stata una pacifica (per loro) discesa introdurre dappertutto le norme imposte a Pomigliano, in tutti gli stabilimenti italiani, in tutti i settori.
Tutti i padroni, infatti, potranno dire, cifre alla mano, che in tutte le aziende italiane il costo del lavoro è superiore a quello che c’è nelle loro filiali (o nelle filiali del vicino di panfilo) in Romania o in Cina, o in Polonia, o nelle Filippine, o in Messico. Invece i dati del referendum gaglioffo dicono che non di una pacifica discesa si tratterà e forse, al contrario, di una strada dissestata e in salita.
Certo il sindacato si è presentato allo scontro non solo diviso ma anche disarmato. Non solo perché arrendevole. Soprattutto perché, non avendo elaborato, pensato, immaginato, disegnato un programma di radicale riconversione industriale (l’unico in grado di difendere e rilanciare l’occupazione, ma in altra direzione), non ha potuto contrastare la mortifera atmosfera che promana da un’azienda (la FIAT) e da un settore (quello dell’auto) destinati ad affondare nella crisi. E in tempi rapidi.
Senza una chiara visione del disastro che incombe non si può proporre nessuna alternativa. Senza aver capito che l’automobile non è più un futuro per nessuno, non si può nemmeno gridare a gran voce che la scimmia al comando è definitivamente impazzita. E che le sue promesse – per le quali la maggioranca, costretta, ha comunque votato – sono non soltanto cattive ma anche irrealizzabili. La FIAT non produrrà comunque i sei milioni di vetture che ha detto di voler progettare. E, se li producesse, non li potrebbe vendere. Perché se comprimi il mercato della domanda (come sta avvenendo drammaticamente in tutte le direzioni) la tua offerta non troverà acquirenti.
Quello che si vede è soltanto una cosa: un attacco strategico ai diritti, da usare subito. Per cui a Pomigliano si è votato che cosa? Di rinunciare a diritti, costituzionali e umani, fondamentali, per tenere in vita per qualche mese un quasi cadavere che, quando comincerà a puzzare, verrà seppellito, esattamente come Termini Imerese, con la scusa che il mercato non tira. Amen.
In realtà sta accadendo qualche cosa di molto più importante. Il capitalismo finanziario è senza una linea e una guida, e assomiglia sempre di più a una guerra per bande senza esclusione di colpi. E il capitalismo industriale è di fronte ai limiti dello sviluppo, e non ha più i margini per ripetere quello che ha fatto per quasi un secolo: cioè non può più mantenere un retroterra relativamente privilegiato, relativamente fidato. Il gigantesco surplus che realizzava sulle spalle del mondo povero veniva in parte erogato per tenere relativamente alto il tenore di vita delle classi lavoratrici dei paesi ricchi, soprattutto dei ceti medi.
Certo, questo gli serviva non solo per attenuare il conflitto in casa propria, ma anche per avere un mercato di consumo sostenuto all’interno dai produttori divenuti consumatori.
Oggi non è più possibile. Scesi i margini, nel pieno di una sovraproduzione non assorbibile, apparsi concorrenti non addomesticabili, le classi dirigenti sono costrette a rompere il patto sociale con le classi lavoratrici del miliardo d’oro. Non si può più offrire loro tutti i lussi del consumo di massa. Dopo averli istupiditi per decenni con la pressione consumistica a oltranza, non si sa più se li si potrà costringere a spendere ancora indebitandosi (in America e Gran Bretagna ci sono già riusciti, ma in Europa pare funzioni molto poco). E non si sa, al contrario, se si riuscirà a spiegare loro che non potranno comunque più consumare come prima.
E questo cambio di marcia non si potrà farlo lentamente.
La crisi arriva galoppando. Lentamente significherebbe usare l’arma lunga della seduzione con cui li hai manipolati. Ma non c’è tempo.
Allora bisognerà farlo con il bastone. Per questo Marchionne c’è andato giù duro dopo essere andato a scuola negli USA. Solo che, appunto, queste cose le puoi fare su un pubblico lavoratore che è stato in ginocchio per ottant’anni. Non è detto che funzioni in un paese che ancora non è stato piegato del tutto. Per cui l’operazione “fine dei consumi, fine dei diritti” non ha un esito scontato. Pomigliano è un laboratorio sperimentale per vedere se ce la possono fare.
Ciò che li rende inquieti è il fatto che hanno il fiato corto e non hanno un progetto per il futuro Vanno a tentoni, anche se, avendo il bastone in mano, possono fare molti danni. Certo è che rovineranno. Il problema nostro è che corriamo il rischio di rimanere anche noi sotto le loro macerie.
E c’è un solo modo per evitarlo: innalzare la bandiera della verità, che è la bandiera di una transizione consapevole verso la società che verrà dopo questa, ormai in agonia.
Certo non ci si può aspettare che il sindacato, la FIOM, faccia da solo ciò che è un compito collettivo delle classi lavoratrici e dell’intellettualità italiana. Il problema è che, al momento attuale, il problema della transizione non è ancora entrato nel discorso politico corrente.
Perché questo cominci ad avvenire occorre: a) vedere la profondità e irreversibilità della crisi. Condizione essenziale per cominciare a fronteggiarla nell’interesse dei più deboli, strappando ai più forti il privilegio della proposta; b) liberarci di un’elite politica della sinistra e della democrazia che è ormai piuttosto simile a una cupola complice del potere. Con questi non si può andare da nessuna parte, per la semplice ragione che nemmeno loro sanno dove andare. E certo non interpretano più i sentimenti dei milioni di inquieti.
La “nostra” transizione non la può guidare Marchionne. Se ne ha in mente una, come Pomigliano dimostra, quella non è la nostra. La transizione non può venire da Berlusconi, né da Bersani, né da Epifani. Loro sono gli organi della scimmia al comando dell’aereo che sta precipitando.
La transizione dobbiamo pensarla noi e organizzarci per imporla, con il sostegno della gente.



 

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