28 gennaio 2017

Caso Byoblu. Attaccano il dissenso, non le bufale

L'attacco all'informazione libera e indipendente: forse l'ultimo video di Byoblu.

di Claudio Messora.
[con nota di Pino Cabras]


Stampatevi bene questa data nella testa: 27 gennaio 2017. Il giorno in cui gli effetti della campagna contro le cosiddette "fake news" (ma in realtà con l'obiettivo di colpire l'informazione libera e indipendente), orchestrata da Hillary Clinton, dal Parlamento Europeo, da Laura Boldrini, da Angela Merkel e da tutti quelli che hanno paura che l'informazione libera possa scalzare i loro privilegi e la loro posizione di forza, hanno iniziato a colpire anche in Italia, togliendo la linfa vitale della monetizzazione Adsense, con motivazioni che avrebbero del ridicolo o del tragicomico, se non rappresentassero qualcosa di ben più grave.

Oggi è un giorno pesante, il più pesante per l'informazione libera e indipendente in Italia e nel mondo, da quando ho iniziato a fare questo "mestiere" del blogger, dieci anni fa.

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NOTA DI PINO CABRAS

Fa molto bene Claudio Messora a sottolineare che il vero obiettivo della campagna contro le 'fake news' non erano certo quei cialtroni che infestano il web di notizie false, razziste e irresponsabili per acchiappare clic, e da chissà chi sono mossi.
No, il vero obiettivo politico era ogni forma di dissidenza informativa, ogni voce non inserita in quell'oligopolio che controlla - con apparente pluralismo ma sostanziale totalitarismo - la galassia dei media tradizionali, un mainstream in radicale crisi di credibilità e ormai in modalità panico.
E fa anche bene Messora a non fare tanti giri di parole quando fa i nomi dei maggiori artefici di questa sistematica volontà di censura, che stanno dentro le istituzioni e nelle aziende dominanti  delle telecomunicazioni. Sono nomi che si muovono in un sistema legato mani e piedi al blocco d'interessi di cui Hillary Clinton sarebbe stata il maggiore garante, se non avesse subito il rovescio elettorale. E' un blocco che ha una sua ideologia e che ha ancora molto potere: perciò vuole trasformare l'ideologia in misure concrete, mirate, inesorabili. Così, accanto al lavoro ai fianchi ideologico (in cui si fa aiutare persino da gente che crede di difendere la libertà), fa un lavoro più sporco, inteso a prosciugare le risorse del dissenso.
Oltre alle personalità e istituzioni citate da Messora, è bene ricordare anche la NATO, un'organizzazione sempre più attenta a inserire nelle azioni di guerra anche la "guerra della percezione": ha persino redatto un "Manuale di Comunicazione Strategica", che intende coordinare e sostituire tutti i dispositivi antecedenti che si occupavano di Diplomazia pubblica, di Pubbliche relazioni (Public Affairs), di Pubbliche Relazioni militari, di Operazioni sui sistemi elettronici di comunicazione (Information Operations) e di Operazioni Psicologiche. Sono azioni coordinate ad ampio spettro, portate avanti da strutture dotate di risorse immani e che lavorano ventiquattr'ore su ventiquattro in coordinamento con i grandi amministratori delegati di imprese del calibro di Google.
L'offensiva è dunque in atto e viene da lontano. Un'eminenza grigia molto importante dell'Amministrazione USA uscente, Cass Sunstein, anni fa scrisse un saggio in cui - oltre a teorizzare l'«infiltrazione cognitiva» dei gruppi dissenzienti, da perfezionare spargendo disinformazione, confusione, e calunnie - invitava il legislatore a prendere «misure fiscali» (diceva proprio così) contro i propugnatori delle “teorie cospirazioniste” e per l’assoluto divieto di esprimersi liberamente su quanto sia disapprovato dalle autorità. Ci siamo a suo tempo chiesti dove volesse andare a parare, il prof. Sunstein. Voleva dire che chi dissente paga pegno allo Stato? E come diavolo doveva chiamarsi questa nuova imposta? All'epoca erano misteri e deliri di un professore di Harvard, un costituzionalista che ripudiava i capisaldi della Costituzione scritta americana. Ma nel frattempo quel delirio si è fatto strada e si è fatto sistema di potere. E' bene ricordarlo a quelli che si scandalizzano per Trump senza accorgersi che le ossessioni contro la libertà di espressione hanno colonizzato le istituzioni e i media in cui hanno riposto fiducia, anche a casa Clinton e a casa Obama.
Oggi attaccano Byoblu.com. Ma sarà presto un attacco contro tutti i dissidenti. E' una questione già maledettamente seria.
Anche chi non va d'accordo con Byoblu, con Megachip, con PandoraTV.it e altri ancora, farà bene a sostenerli economicamente e difenderli politicamente. Lo dovrà fare per salvare il pluralismo da un'ondata di "maccartismo 2.0", un'isteria che vuol fare tabula rasa dell'informazione non allineata.

25 gennaio 2017

La Moneta Fiscale: una terza via tra austerità e uscita dall'euro


di Stefano Sylos Labini.



Premessa
Le regole su cui si fonda l’euro impediscono di attuare politiche economiche espansive per rilanciare la nostra economia. Per questo dobbiamo uscire dalla trappola che ci sta facendo affondare. Però, il nostro Paese in una fase di crisi così pesante farebbe bene ad evitare uno scontro frontale con l’Europa come potrebbe accadere se si decidesse di uscire dall’euro in modo unilaterale. Il percorso di uscita potrebbe avere effetti molto negativi sia nella fase che lo precede sia nel periodo immediatamente successivo.
Con una moneta complementare all’euro si potrebbero evitare contraccolpi che sarebbero nefasti su quella parte di popolazione che già oggi si trova in grande difficoltà. Nel tempo la moneta complementare potrebbe perfino sostituire l’euro creando le condizioni per un’uscita “morbida” dalla moneta unica qualora ciò si ritenesse utile o necessario. Ma potrebbe anche costituire uno schema permanente all’interno dell’euro, adottabile dall’Italia e da altri Paesi dell’Eurozona in crisi, per assorbire la disoccupazione, risanare i bilanci pubblici e gestire in modo civile gli imponenti flussi migratori che si stanno riversando sul continente europeo.

1. La moneta complementare all’euro: i Certificati di Credito Fiscale
I Certificati di Credito Fiscale (CCF[1] sono titoli che danno il diritto ad ottenere sconti fiscali futuri (nel nostro progetto dopo due anni dall’emissione) e non hanno nulla a che fare con la famosa supply-side theory di Arthur Laffer che si basa su massicci tagli alle tasse alle classi benestanti. L’aggancio alle tasse è un modo per assicurare un controvalore monetario certo ai CCF la cui funzione fondamentale è quella di aumentare immediatamente la capacità di spesa dell’economia e quindi la domanda pubblica e privata, la produzione, l’occupazione e gli investimenti delle imprese. La riduzione delle tasse invece è un fenomeno che avviene dopo due anni dall’emissione.
I CCF non sono debito in quanto non sussiste alcun impegno, da parte della pubblica amministrazione, a rimborsarli in euro. Incidono sul gettito fiscale futuro, ma questo effetto viene più che compensato dalla ripresa dell’economia che sarà innescato dall’espansione fiscale oppure, se la ripresa fosse insufficiente, dalle clausole di salvaguardia predisposte per evitare l’aumento del deficit e del debito pubblico.

2. Il piano A della convertibilità dei CCF
Nel progetto della moneta fiscale abbiamo proposto la libera convertibilità dei CCF in euro sui mercati finanziari. Se prendiamo ad esempio un titolo come il CTZ a due anni, prevediamo che il tasso di sconto sarà piuttosto contenuto (non superiore al 5% annuo) e tenderà ad azzerarsi via via che si avvicina la data di scadenza ossia la possibilità di utilizzare i CCF per ottenere gli sconti fiscali. Però, sarebbe prudente predisporre un market maker o “compratore di ultima istanza” che dovrebbe intervenire se lo sconto aumentasse oltre certi limiti e cioè se i CCF dovessero svalutarsi in modo eccessivo rispetto all’euro. Solo Banca d’Italia e Cassa Depositi e Prestiti hanno capacità di intervento sebbene non dispongano di risorse illimitate. Infine, nell’opzione della convertibilità è vitale che ci sia un accordo con il sistema bancario che si deve impegnare per garantire il successo dell’operazione convertendo tutti i CCF che vengono portati allo sconto (le banche potranno ottenere un guadagno dalle commissioni). Una volta effettuata la conversione, i pagamenti vengono effettuati in euro che rimane la moneta utilizzata negli scambi di merci e servizi.

3. Il piano  B dell’inconvertibilità dei CCF
All’estremo opposto, i CCF potrebbero essere non convertibili in euro in modo da funzionare come una vera moneta complementare poiché i pagamenti sarebbero effettuati direttamente con i titoli fiscali.
Nel corso dei nostri contatti con la Ragioneria Generale dello Stato (RGS), ci è stato espresso il dubbio che, mentre è certo che i CCF all’atto dell’emissione non concorrano ad aumentare il deficit pubblico annuo, potrebbero invece dover essere ricompresi nello stock di debito pubblico nel caso in cui vengano acquistati e restino nel possesso di istituti di credito. Da quanto abbiamo capito, il dubbio nasce dal fatto che gli istituti di credito devono registrare il possesso dei CCF all’attivo del proprio bilancio. L’Istat, ricevendo le relative comunicazioni, deve a questo punto prendere atto dell’esistenza di questi titoli e quindi registrare il corrispondente impegno del settore pubblico come componente del debito.

Questo tema non ci è risultato chiaro e non ci sono stati forniti precisi riferimenti normativi o regolamentativi. Ci appare illogico che uno stesso titolo sia o non sia debito in funzione di chi lo detiene (una banca o un altro soggetto), dal momento che la natura del titolo è esattamente la stessa. Inoltre, la previsione cui fa richiamo la RGS sembra contravvenire alle regole europee stabilite in materia. [2]

Per questi motivi abbiamo ipotizzato uno schema in base al quale l’utilizzo dei CCF non avvenga per il tramite della conversione in euro mediante cessione sul mercato finanziario, ma funzionino direttamente come mezzo di pagamento per effettuare acquisti di merci e servizi. Ciò anche alla luce del fatto che le fasce sociali disagiate e i lavoratori a basso reddito potrebbero trovare poco pratico e/o poco conforme alle loro abitudini effettuare una vendita di CCF contro euro passando per meccanismi di mercato finanziario. Si potrebbe pertanto prevedere che tali soggetti ricevano CCF sotto forma di accrediti su una carta elettronica ad essi intestata e che possano spendere tali disponibilità direttamente. In sostanza i CCF funzionerebbero come “buoni spesa” e permetterebbero di evitare l’uso del contante.

Affinché ciò sia possibile, si dovrebbe realizzare un sistema di accordi con una serie di operatori commerciali e imprenditoriali che svolgono attività di vendita di beni e servizi al pubblico su vasta scala, che si possono rendere disponibili ad accettare CCF come forma di pagamento in cambio dei beni e servizi venduti. Tra questi operatori potrebbero annoverarsi: soggetti della grande distribuzione organizzata; società di erogazione di acqua, gas ed elettricità; catene di distribuzione di carburanti; compagnie assicurative attive (tra le altre cose) nella vendita di polizze RC auto obbligatorie; strutture pubbliche o convenzionate che forniscono servizi sanitari; ecc.

Tutti i soggetti sopraindicati hanno flussi rilevanti e continui di pagamenti verso la pubblica amministrazione, non solo a titolo di imposte dirette ma anche e soprattutto di IVA, nonché di imposte e contributi versati in conseguenza dei rapporti di lavoro dipendente (anche come sostituto d’imposta per conto del loro personale). Tali soggetti avrebbero pertanto la certezza di utilizzare i CCF acquisiti per conseguire sconti fiscali futuri, anche senza passare attraverso la loro conversione sul mercato finanziario.

Naturalmente, l’accettazione da parte di tali operatori di uno strumento utilizzabile come sconto fiscale soltanto a due anni dall’emissione, e caratterizzato da un grado di liquidità inferiore rispetto alla moneta legale, richiederebbe che si remunerasse con un tasso d’interesse positivo chi lo accettasse in pagamento contro beni e servizi. [3]

Si potrebbe quindi prevedere che i CCF utilizzati via carta elettronica maturino un tasso d’interesse, corrispondente al tasso di attualizzazione finanziaria in caso di cessione, per far sì che l’opzione “pagamento in euro” o “pagamento in CCF” sia neutrale e quindi indifferentemente accettata dall’operatore commerciale che avrebbe la possibilità di espandere le proprie vendite.

Dunque, l’opzione dell’inconvertibilità se da un lato rende lo strumento meno liquido provocando problemi di accettazione, dall’altro lato:
1. ci mette al riparo dal rischio di una svalutazione eccessiva dei titoli fiscali nei confronti dell’euro [4];
2, evita di chiamare in causa le banche che potrebbero essere attaccate dall’Europa;
3. scongiura la possibilità di pagare in nero assicurando che tutta la moneta fiscale sia destinata alla spesa di beni e servizi;
4. garantisce che la manovra abbia il maggiore impatto possibile all’interno del territorio nazionale poiché saranno solo le imprese che pagano le tasse nel nostro Paese ad accettare i CCF come mezzo di pagamento. In tal modo, si viene a ridurre la spinta verso le importazioni che inevitabilmente l’espansione della domanda interna porta con se. Inoltre, la possibilità di fare pagamenti in CCF permette di liberare euro che possono essere utilizzati per altri scopi (importazioni, riequilibrio di bilancio, pagamento dei debiti).

In conclusione, l’opzione dell’inconvertibilità richiede la costituzione di un circuito commerciale in cui le imprese che aderiscono si impegnano ad accettare CCF come mezzo di pagamento in luogo degli euro. Ma se funziona il Sardex [5] perché non potrebbero funzionare i CCF che hanno dietro lo Stato ?



NOTE



[1] Cfr. S. Sylos Labini, Fuori dall’austerity con la moneta fiscale, «Left», 7 ottobre 2016.

[2] Il Sistema Eurostat SEC 2010, reso esecutivo con il Regolamento n. 549 / 2013 (cfr. in particolare i paragrafi 5.05 e 5.06) configura senza ambiguità i CCF come credito tributario “non pagabile” in quanto non soggetto a essere rimborsato in cash. Questo strumento, ancorché se ne debbano valutare gli effetti nei documenti di programmazione in termini di “minori entrate” previste, non può in alcun modo essere qualificato come “spesa” né come “debito” nella contabilità pubblica e nei documenti consuntivi di finanza pubblica. Si veda al riguardo anche la Eurostat Guidance Note del 29 agosto 2014.

[3] Si osservi, pertanto, che qualunque sia il canale di utilizzo dei CCF (con o senza conversione sul mercato finanziario), nella misura in cui essi a) impongono un differimento all’esercizio del diritto che incorporano (sconto fiscale) e b) hanno liquidità inferiore a quello della moneta legale, la loro accettazione richiede necessariamente l’applicazione di un tasso d’interesse (implicito o esplicito).

[4] Un’eventualità del genere potrebbe verificarsi se l’emissione della moneta fiscale venisse considerata dai mercati finanziari come un passo verso l’uscita dall’euro oppure potrebbe avere luogo nella prima fase della manovra dove è probabile che prevalgano i venditori (persone/imprese che vogliono euro e cedono CCF) sui compratori. Ciò determinerebbe una crescita indesiderata dello sconto e quindi una perdita di valore dei CCF nei confronti dell’euro depotenziando la manovra espansiva.