Il nuovo governo
greco, in queste prime settimane di vita, ha potuto fare poco, se non segnalare
all'Europa che un recupero di sovranità non è più un argomento tabù.
Per il resto, il potere della Germania
di oggi è enorme, non bilanciato dai tanti nanerottoli che guidano gli altri
paesi europei. La prima partita in materia di debito fra Germania e Grecia è
stata perciò una goleada per i tedeschi. Contrariamente a quanto appare, tuttavia,
anche questo evento non è da spiegare con un solo schema, quello del padrone
che vince e del servo che perde, anche se sappiamo bene che i rapporti di forza
in Europa sono brutali. Poco più di tre anni fa, anche l’Ungheria di Orbán inziò
il suo nuovo corso con dichiarazioni bellicose nei confronti della Troika, subito
seguite da ripiegamenti umilianti. Il ministro degli esteri ungherese dovette
andare a Bruxelles con il cappello in mano, dopo un’inutile e avvilente
anticamera a Washington, presso la sede del Fondo Monetario Internazionale. Eppure,
l’iniziale rottura del tabù, dopo aver scontato le prime durissime reazioni e
dopo cocenti umiliazioni negoziali, ha consentito all’Ungheria di ridimensionare
il ruolo della finanza, togliersi il cappio, correggere la congiuntura economica, iniziare
ad aprirsi a nuovi scenari geopolitici fuori dalla gabbia atlantista ed
europea. Ovviamente ci sono molte differenze fra Ungheria e Grecia, a partire
dal fatto che l’Ungheria non ha l’euro,
mentre la Grecia sì, con tutti i costi aggiuntivi e immediati che Atene dovrebbe
sopportare per uscirne. Proprio questo fatto spinge una parte dei critici a dire: ecco
perché Tsipras e Varoufakis dovevano subito uscire dall’euro. Ma anche questi
critici devono ammettere che si tratta di una decisione complessa. Se persino Orbán
doveva fare passi indietro anche senza avere questa zavorra, figuriamoci i passi
indietro a cui viene trascinato il governo greco quando le scadenze dei debiti si
misurano a giorni, e quasi tutte
le chiavi del laboratorio greco, come abbiamo già spiegato recentemente, sono
in mano straniera. Il potere che schiaccia i popoli è un mestiere che non
dorme mai, e non può essere sottovalutato. Il senatore americano McCain, quello che semina zizzania in mezzo
mondo e diffonde la guerra civile in nome della democrazia, sta già mettendo la
prua contro Budapest per organizzarvi l’ennesima rivoluzione colorata. A
seconda di come andranno le cose, punterà la prua anche contro Atene. E il
fascino delle economie russa e cinese, a quel punto, potrebbe risultare
irresistibile per la Grecia. Ma non precorriamo troppo i tempi.
In coda a queste considerazioni
potrete cliccare e leggere tre articoli
che offrono interpretazioni critiche molto diverse su come è finita la prima fase del negoziato fra la dittatura
europea a trazione tedesca e la Grecia di Tsipras. Consiglio di leggerli con
mente aperta per vedere le tante facce del prisma della crisi europea, perché
ognuno degli articoli non basta da solo a descrivere tutto il volume di questa
crisi, anche se ognuno di essi ci offre uno sguardo verso la profondità del
dramma greco.
Il primo
articolo è dell’economista francese Alain
Parguez, ed è molto tranchant. Come altri esponenti della Teoria
Monetaria Moderna e altri che si battono per superare l’euro, anche Parguez
ritiene che Syriza sia solo un vicolo cieco.
Il
secondo articolo è di Francesco Maria
Toscano, che legge lo scontro che coinvolge Germania e Grecia in base
all’influenza diretta che esercita su di esso un conflitto più nascosto fra circuiti massonici a livello sovranazionale.
Il
terzo articolo, di Claudio Conti, spiega come le
regole tedesche non piacciano ai greci ma nemmeno alle banche: uno scenario che
apre contraddizioni in seno al potere
europeo. Sono contraddizioni abbastanza grandi da suggerirci che il
campionato non è chiuso con la goleada di questi giorni.
***********
La battaglia per la
nuova indipendenza della Grecia è appena agli inizi. Nulla è scontato. La crisi
è sistemica, ed è lì, nel cuore di un mutamento epocale, che si giocano le scommesse impossibili del caleidoscopio
Tsipras. E anche le scommesse di chiunque - ovunque - voglia spegnere la
dittatura europea.
Un discorso sulla satira che vada oltre Charlie Hebdo ha cercato di
farlo MicroMega nel numero di questo mese. Ci sono interventi di molti
pensatori (e qualche rifiuto d'intervento molto divertente). Ecco il
mio.
Scusate il ritardo nel rispondere a questo
questionario. È dato dalla difficoltà di aggirare il fastidio per il
modo in cui le domande sono state poste, fastidio che vi manifesto
perché da MicroMega non mi aspettavo che l'apertura di un dibattito così
importante fosse fatta con domande retoriche che presumono o
suggeriscono già le risposte. Tanto meno mi aspetto l'esposizione di
posizioni pregiudiziali di tale inconsistenza razionale che si fa fatica
a prenderle come base di partenza per un ragionamento che voglia
davvero dirsi laico. La laicità non si misura sul grado di astio verso
le religioni, ma su quello di vigilanza sui dogmatismi, che in questo
questionario purtroppo abbondano. Ho quindi risposto con la difficoltà
che mi derivava dall'obbligo di essere intellettualmente onesta.
(1) La scritta “je suis Charlie” è comparsa in
moltissime sedi di giornali in tutto il mondo, oltre che nelle
dichiarazioni di personalità di governo, anche qui di tutto il mondo. Ma
quanti di coloro che fanno proprio lo slogan sono davvero disposti a
prendere sul serio il diritto alla irresponsabilità, che Charlie Hebdo
teorizza orgogliosamente nel suo stesso sottotitolo, e dunque il diritto
alla bestemmia di ogni fede religiosa e di ogni sentimento non
religioso ma ritenuto “sacro”? Quanto c’è di retorica e strumentalismo
nel dire “je suis Charlie” e poi non trarne le conseguenze pratiche sul
piano del diritto e dell’etica?
La domanda è retorica. Nessuno può
permettersi di essere così ingenuo da confondere un gesto di solidarietà
compiuto sull'onda dell'emozione o dell'opportunità politica con la
determinazione a difendere la satira in ogni sua manifestazione, diritto
che non è assoluto in alcuna democrazia. La stessa Francia che
manifesta per Charlie e sbatte in carcere Dieudonné ci dimostra due
cose: la prima è che neanche nella patria della laicità è sempre vero
che in satira tutto è lecito; la seconda è che esistono tabù sociali ben
più forti di quello su Dio.
Il punto di partenza di un
ragionamento in merito è il dato che la nostra idea di democrazia si
regge sull'insanabile contraddizione tra il desiderio di anarchia e il
bisogno del controllo: se infatti è vero che le democrazie sono sistemi
fondati sul conflitto, gli unici in cui il dissenso è un valore difeso
dalla legge, è altrettanto vero che il dissenso è per sua natura
antagonista del potere ed è quindi perfettamente logico che il potere
tenda a difendersene anche nelle democrazie, limitandone gli spazi di
espressione per poter agire in regime di rendicontazione pubblica
minima. Finché esiste l'altra, nessuna delle due forze è o può essere
assoluta nel suo esercizio: la loro coesistenza, per quanto
conflittuale, ci protegge dagli assolutismi. Dobbiamo quindi essere
consapevoli che il potere dal canto suo farà di tutto per produrre leggi
che limitino al massimo la libertà di dissenso e che il dissenso farà a
sua volta di tutto per trovare spazi in cui mettere in discussione il
controllo del potere. È la società civile che deve proteggere
l'esistenza di questa dialettica, ma può farlo solo se è educata alla
coscienza comune dei valori collettivi. In Italia questo è vero in
misura molto inferiore a quello che sarebbe necessario. È anzi
prevedibile che la sensibilità pubblica, che spesso si muove sull'onda
dell'emozione e della paura, davanti a fatti di sangue opportunamente
narrati sia disposta a concedere maggiore legittimità alla forza che tra
le due verrà percepita come meno distruttiva e destabilizzante. Allo
stato attuale delle cose è improbabile che la forza favorita sia la
satira.
(2) Numerosi giornali NON hanno ripubblicato le
vignette su Maometto, e molti del resto non le avevano pubblicate, come
non avevano pubblicato quelle, perfino più numerose, contro la religione
cristiana (Charlie non ha risparmiato neppure l’ebraismo). Negli Usa è
questo addirittura l’atteggiamento della maggior parte dei media. Il
giornale danese all’origine delle vignette su Maometto questa volta ha
deciso di “non offendere” la sensibilità dei credenti. Il Financial
Times ha praticamente scritto che con i loro eccessi se l’erano cercata.
Non è già in atto da tempo una auto-censura che, finito il cordoglio
unanime (in apparenza) per i morti di rue Nicolas Appert 10, subirà un’accelerata esponenziale? Non sta vincendo di nuovo la sindrome “non vale la pena morire per Danzica”?
Voglio sperare che la libertà di
espressione comprenda anche quella di non espressione, senza che questo
comporti automaticamente la presunzione di auto-censura. Ciascuna
redazione fa le sue valutazioni, non ultime quelle di rischio umano, e
le decisioni conseguenti non mi sento di giudicarle, perché in realtà
non mi interessa biasimare chi tace; mi importa molto di più che sia
pacifico che chi invece parla non debba pagare con la vita la sua scelta
di esprimersi. Per questo l'unica posizione che considero realmente
stigmatizzabile tra quelle elencate è il victim blaming del Financial
Times.
(3) Il noto storico e saggista di Oxford Timoty
Garton Ash ha lanciato l’idea di una giornata coordinata in cui tutte le
testate d’Europa pubblichino una selezione delle vignette più
significative di Charlie Hebdo (offensive di tutte le religioni). Pensi
che il giornale che dirigi, cui collabori, che regolarmente leggi,
dovrebbe aderire?
Diffido dei battesimi collettivi:
perché giornali che non avrebbero mai pubblicato prima quelle vignette
dovrebbero pubblicarle adesso? Il ragionamento secondo il quale bisogna
ripubblicare le vignette di Charlie Hebdo per segnare distanza dai
terroristi mi ricorda il periodo in cui tutti in Italia dovevano
comprare Gomorra per dimostrare di non essere camorristi. Trasformare le
vignette di Charlie in un marcatore culturale, cioè in un corpo
contundente con bersaglio diverso da quello che volevano colpire,
ottiene come unico risultato il generare ipocrisie della portata della
sfilata di governanti liberticidi con il cartellino Je suis Charlie.
(4) I difensori della libertà di stampa “con
juicio” sostengono che la libertà di critica è assoluta e intangibile ma
non deve essere confusa con il diritto all’insulto. Ma CHI può decidere
la linea di confine tra critica (la più radicale, visto che si
tratterebbe di un diritto assoluto) e offesa? Per chi vive in modo
intenso una fede, assai facilmente suona offesa ai propri sentimenti e
alla fede stessa ciò che al critico di essa suona solo critica. Charlie
Hebdo pubblicò una vignetta con un “trenino” sodomitico tra Dio Padre,
Gesù Cristo e lo Spirito Santo, certamente offensivo per molti credenti
cristiani, ma forse la più straordinaria sintesi critica dell’assurdità
del dogma trinitario. Del resto l’ateo viene “amorevolmente” descritto
da ogni pulpito come persona esistenzialmente “menomata” (questo è il
giudizio più gentile, ovviamente) poiché priva della dimensione del
trascendente, giudizio già in sé altamente offensivo.
Il limite alla libertà di espressione
non può e non deve essere deciso dalle sensibilità religiose, non fosse
altro perché sono tante, diverse e spesso contraddittorie tra loro, ma
nella domanda che avete posto mi pare che il contrappasso della
reciprocità (“Anche dai pulpiti cattolici si offende l'ateismo!”) sia un
ben fragile argomento su cui fondare la libertà di satira, talmente
pretestuoso che vi porta a leggere male anche quello che è chiarissimo,
come il trenino sodomita di Charlie Hebdo, che non è “la più
straordinaria sintesi critica dell'assurdità del dogma trinitario”, ma
una presa per il culo – letteralmente - all'arcivescovo di Parigi e alle
sue posizioni contro le famiglie omogenitoriali. È dunque una vignetta
prettamente politica, dove l'attacco al simbolo religioso non è fine a
sé stesso, ma perfettamente inserito in una cornice di dissenso
all'ingerenza del potere gerarchico ecclesiale nei processi legislativi
francesi. Per la redazione di Charlie Hebdo la questione della laicità
si sostanziava nell'attacco al potere, non nella vendetta – invero poco
appassionante - degli atei contro i fedeli, tantomeno su un presunto
“diritto di bestemmia”. Se per satira intendiamo un contropotere che castigat ridendo mores, intendiamo
un luogo espressivo tutt'altro che irresponsabile. Quella è per me la
sola linea di discernimento possibile: se colpisce un bersaglio fragile,
non è satira. Se fai vignette contro i rom non fai satira, ma
discriminazione. Se disegni contro le donne, i gay o i negri non fai
satira, a meno che tu non stia castigando singole donne potenti, gay
individualmente influenti o neri la cui negritudine comporti una
posizione di dominio.
(5) Se il limite lo stabilisce la politica vuol
dire che sarà mutevole come le mutevoli maggioranze di governo, e
variabile tra paese e paese diacronicamente e sincronicamente. Ma questo
vuol dire che la libertà di espressione non è un principio fondativo, e
dunque non deve essere scritto nelle Costituzioni, che salvaguardano e
garantiscono alcuni diritti sottraendoli alle mutevoli vicende del
consenso elettorale. La coerenza non esigerebbe semmai l’opposto, che
vengano abrogati definitivamente articoli contraddittori con questo
principio, che configurano come persistente il reato di vilipendio nei
confronti di Persone Dottrine Istituzioni e Cariche, poiché ciò che per
Tizio è vilipendio per Caio è critica?
Sono del tutto favorevole
all'abolizione del reato di vilipendio, ma questo non significa che
considero la libertà di espressione un diritto naturale
sovra-costituzionale, concetto speculare (e altrettanto fastidioso) a
quello di “principio non negoziabile” tanto caro al cattolicesimo
ruiniano. Finché siamo in democrazia tutto è negoziabile e dunque le
quote di libertà che una società può sostenere senza giungere a
conflitti autodistruttivi sono variabili nel tempo e risentono di
condizioni culturali, storiche ed economiche che mutano a loro volta. Il
reato di vilipendio alle istituzioni aveva senso quando il presidente
del consiglio era Alcide De Gasperi; al momento è antistorico, perché i
concetti di rispettabilità e onorabilità non hanno più senso in un paese
con un parlamento dove la concentrazione di condannati supera quella
delle zone gestite dalla criminalità organizzata.
(6) La scelta di coerenza rispetto
alla libertà di critica anche se per qualcuno offensiva, oppure la
rinuncia al principio della libertà di critica come consustanziale alle
libertà democratiche (con le antinomie per la democrazia che ne
conseguono), oggi è resa indilazionabile dalla svolta d’epoca della
strage del Charlie Hebdo, ma in realtà è sul tappeto da oltre un quarto
di secolo, certamente dalla fatwa del 1989 di Khomeini contro Rushdie.
All’epoca su MicroMega fu scritto: “l’Occidente si piega”, citando e
stigmatizzando le “dichiarazioni curiali” di Andreotti sugli studenti
islamici in Italia che impongono con la violenza che Versi satanici non
sia esposto nelle vetrine, “è accaduto a Napoli, Padova, Reggio Emilia”,
o l’Osservatore Romano secondo cui “il romanzo è risultato offensivo
per milioni di credenti. La loro coscienza religiosa e la loro
sensibilità offesa esigono il nostro rispetto. Lo stesso attaccamento
alla nostra fede ci chiede di deplorare quanto di irriverente e di
blasfemo è contenuto nel libro”, o Monsignor Rossano, rettore della
Pontificia università lateranense, secondo cui “quando si toccano Gesù,
la Madonna, non si toccano fatti personali, non si può fare quello che
si vuole … viviamo in mezzo a cattolici, ebrei, musulmani, indù … non si
può irridere, non si può offendere la sensibilità religiosa”, fino a
Hans Küng per il quale “non ci si può richiamare semplicemente alla
libertà religiosa … Bisogna prevedere reazioni corrispondenti, quando si
attacca una persona che per centinaia di milioni di uomini e donne è
tuttora viva e per così dire, quella più in alto sotto Dio” (MicroMega
2/89 pp 20-21). Sarebbe stato necessario farlo allora, non è
improcrastinabile oggi porre fine a queste intollerabili pretese
censorie?
E come gli dovremmo metter fine?
Facciamo una legge che multi chi si indigna? Incarceriamo chi chiede
rispetto della propria appartenenza? La domanda è posta come se la
pretesa censoria e la censura effettiva non fossero due cose diverse,
invece lo sono e non va dimenticato. Non mi pare che le richieste di
ritiro del libro di Rushdie si siano mai tradotte in alcun rogo in
occidente, anzi “I versetti satanici” sono entrati in classifica, hanno
continuato a essere venduti nelle librerie, a essere letti nelle
biblioteche e comprati ovunque. La stessa cosa avvenne per “L'ultima
tentazione di Cristo”. A che cosa dunque dovremmo metter fine?
(7) Si sostiene da più parti che se è possibile
criticare/insultare il Profeta e Allah (ma anche Dio padre, Figlio,
Spirito Santo, Madonna, ecc.) allora deve essere possibile insultare
anche gli ebrei in quanto ebrei. La posizione di MicroMega è sempre
stata che criticare/insultare simboli/valori di una fede è un diritto di
opinione, insultare delle persone in quanto appartenenti a una etnia in
quanto etnia è razzismo. Inoltre: anche il diritto a offendere valori
religiosi non può divenire diritto a considerare tutti gli appartenenti a
una religione corresponsabili di atteggiamenti di altri correligionari
(legittima è però la richiesta di chiedere la dissociazione da
atti/dichiarazioni di autorità della rispettiva religione, altrimenti se
ne diventa partecipi). Vi sembrano distinzioni sufficienti e
condivisibili?
Per niente, ma sono questioni distinte.
- È possibile insultare gli ebrei in
quanto ebrei in nome del diritto di satira? Dipende. Il discrimine
rimane quello dato dalla domanda: “per essere considerata lecita a
dispetto della sua offensività, questa satira che potere sta
attaccando?” Quando Forattini al tempo del sequestro Kassam disegnò sul
Corriere la Sardegna a forma di orecchio mozzato sanguinante,
accomunando i sardi senza distinzioni al reato infame della mutilazione
di un bimbo innocente, che potere stava attaccando? I sardi in sé
rappresentavano un potere? Se la risposta è no, Forattini non esprimeva
un'opinione: faceva razzismo e come tale commetteva un reato. Ritengo
quindi che la satira sugli ebrei vada giudicata con lo stesso criterio,
che evidentemente non è così scontato in un occidente dove anche la
minima critica al sionismo e alle condizioni inumane di Gaza finisce per
essere tacciata di antisemitismo persino da insospettabili fonti
progressiste occidentali. Se lo stato ebraico, che si pretende l'unica
democrazia del medio oriente, ha una costituzione che prevede quote di
cittadinanza suddivise su base etnica, la satira su base etnica contro
gli ebrei che vi abitano non è solo lecita, ma urgente, perché è proprio
il marcatore etnico che in quel caso rappresenta un potere oppressivo.
- La pretesa di dissociazione dalle
posizioni dei propri leader religiosi mi sembra priva di senso:
l'appartenenza a una religione non si fonda su comunicati stampa, ma su
dati teologici irreformabili. Le declinazioni storiche della presenza
religiosa sui singoli territori possono anche discostarsi molto da
questi dati (è certamente il caso di molte dichiarazioni di imam
rispetto al Corano), ma questo non significa che ogni singolo fedele
islamico che vive in Europa deve dissociarsi da ogni singolo delirio
contingente di ogni singolo capo di moschea in ogni singolo titolo di
giornale che se ne fa. Nessuno deve essere messo nella condizione di
scusarsi di continuo per le sciocchezze di qualcun altro. Da cattolica
non mi sono mai sentita minimamente responsabile per gli svarioni
personali di Ratzinger o di Wojtyla.
(8) Negli Usa, dove la maggior parte dei media (e
praticamente tutta la politica) nega il diritto a criticare/offendere le
religioni, è invece costituzionale espressione di libertà di pensiero
qualsiasi opinione fascista, nazista, razzista (Ku Klux Klan compreso)
fino a che non passa alla messa in pratica. L’Europa democratica ha
imboccato la strada opposta, l’apologia di fascismo e razzismo è
sanzionata per legge, e ora che tutti i capi di governo europeo sfilano a
Parigi sotto la scritta “je suis Charlie” se ne deduce che ogni
limitazione al diritto di critica/offesa delle religioni si intenda
abrogato. MicroMega ha sempre sostenuto questa duplice posizione. La
ritieni condivisibile? Ancora difendibile? Da rivedere radicalmente dopo
quanto successo?
Ribadisco che la logica della liceità
della satira è nella sua valenza di contropotere. Attaccare una
religione in quanto tale, anche quando non rappresenta alcun potere
oppressivo o lesivo di diritti altrui, è libertà di espressione, ma non è
satira. Credo sia il motivo per cui satira sul buddismo se ne fa ben
poca. Certo che attaccare un'etnia in quanto tale è un attacco alla
dignità della razza umana nella sua interezza, ma attaccare un'etnia che
ne opprime un'altra in ragione della sua maggiore forza economica,
militare o politica è una difesa della dignità umana nella sua
interezza. Credo che la distinzione sia facilmente ravvisabile da
qualunque giudice, se pure gli intellettuali non dovessero arrivarci.
(9) Le religioni non sono tutte eguali, si dice,
il cristianesimo accetta la laicità, l’islam no. In realtà il
cristianesimo è stato costretto a venire a patti con la laicità, obtorto
collo, e ancora non l’accetta pienamente. Il fondamentalismo
alberga nel suo seno in dosi infinitamente minori di quello islamico,
questo è certo. Troppo facilmente si dimentica, però, che sono stati
cristiani militanti quelli che hanno assassinato negli Usa medici e
infermieri che rispettavano la volontà di abortire di alcune donne.
Donne, medici, infermiere che Wojtyla e Ratzinger hanno bollato più
volte come responsabili del “genocidio del nostro tempo”, nazisti
postmoderni, insomma. Le democrazie hanno il diritto di esigere da tutte
le religioni la “interiorizzazione” della laicità? Cioè: che le
religioni chiedano pure ai fedeli di osservare i precetti per la
salvezza eterna ma rispettino rigorosamente il diritto al peccato
(aborto, eutanasia, blasfemia, omosessualità …) di tutti gli altri e mai
pretendano che lo Stato faccia di un precetto religioso una legge?
Non credo che le democrazie abbiano
diritto di chiedere laicità alle religioni: quelle monoteiste in
particolare sono sistemi di pensiero dogmatici fondati su valori non
negoziabili, quindi anti-laiche per loro stessa natura. Al contrario,
l'essenza stessa della democrazia è fondata sulla negoziazione tra
visioni di mondo differenti, visioni che le religioni influenzano in
molti modi, da secoli e con dinamiche variabili a seconda del tempo e
dei poteri con cui si sono confrontate. Una società democratica è
realmente laica quando riesce a confrontarsi con le religioni anche
quando le religioni resistono ai valori democratici, perché le religioni
non sono devozioni private, ma ideologie nel senso pieno del termine,
cioè rispondono a un'idea precisa di umanità e di mondo. Pretendere che
questa idea non si traduca anche in cultura e in politica è risibile e a
sua volta liberticida, perché se ciascuno ha il diritto di tentare di
influenzare lecitamente l'ambiente in cui vive a partire dalle proprie
convinzioni, non si capisce perché questo diritto dovrebbe essere
precluso a chi parte da convinzioni religiose. Questa pretesa esprime
l'idea che le religioni siano sottoculture prive di dignità di
rappresentazione, il che è falso: le religioni sono stakeholders
identici a tutti gli altri, e la pressione politica esercitata dai
portatori di valori numericamente “parziali” - anche quando li
pretendono eticamente universali - si argina solo rafforzando
culturalmente l'area dei valori “comuni”, cioè quelli continuamente
definiti attraverso i processi democratici. La risposta all'assolutismo
(compreso quello che un po' trasuda da questa domanda) è il pluralismo,
che educa tutti a considerarsi relativi.
(10) Se si rinuncia anche di un pollice al diritto
alla critica/offesa delle fedi religiose (diritto, non dovere: le
vignette di Charlie possono benissimo non piacere ed essere criticate,
ma il diritto alla loro pubblicazione deve essere difeso assolutamente),
non si concede già la vittoria al terrorismo? In tal modo non si
obbedisce alle loro richieste per “servitù volontaria”, senza che
debbano più usare violenza, basta la minaccia e relativa paura, e non è
questo che si propone chi utilizza il terrore? Le tentazioni a imboccare
questa strada non sono sempre più frequenti e pericolose?
Con tutto il rispetto, non prendo sul serio domande dove è previsto un monosillabo come risposta. :)
Al simposio internazionale Global WARning - tenutosi il 12
dicembre 2014 e organizzato da Pandora TV, Megachip-Democrazia nella
Comunicazione e Alternativa - ha partecipato anche il giornalista Pepe Escobar, il "corrispondente nomade" di Asia Times ed autore di 'Empire of Chaos: The Roving Eye Collection' (Nimble Books, 2014).
Nel Video, di 15'16'',
Escobar spiega come i cosiddetti paesi BRICS stanno allargando i propri accordi commerciali in modo esponenziale e hanno già creato una banca alternativa alla Banca Mondiale. La guerra fredda 2.0 ha lo scopo di impedire la creazione di un’area di mercato Eurasiatica che toglierebbe agli Stati Uniti la propria egemonia economica.
Buona visione!
Intervento Video al simposio internazionale Global WARning del 12 dicembre 2014.
TEHERAN
- Il grande interrogativo della geopolitica globale di oggi è se il
mondo andrà verso un mondo unipolare a tempo indeterminato dominato
dagli Stati Uniti (ciò che con orgoglio – o con arroganza − gli
americani chiamano Full Spectrum Dominance, "dominio
sull'intero spettro") o se invece si muoverà verso un mondo
multipolare in cui coesistono diversi centri di potere.
Dal
punto di vista economico il mondo è già multipolare, essendo la
quota statunitense del prodotto mondiale lordo di appena circa il 18
per cento (dati 2013) e in costante diminuzione. Allora come mai gli
USA sono ancora così dominanti a livello globale? La ragione
non è il suo gigantesco budget militare, dal momento che non si può
realisticamente bombardare tutto il mondo.
Il
primo strumento magico che gli Stati Uniti usano per dominare il
mondo è il loro dollaro. La parola "magico" è qui licenza
non poetica: il dollaro è effettivamente una creatura magica, in
quanto la Federal Reserve può crearlo in quantità illimitate dentro
i computer, e tuttavia il mondo lo considera come qualcosa di
prezioso, pensando comunque ai petrodollari. Il che rende un compito
facile per gli Stati Uniti finanziare con miliardi di dollari le
“rivoluzioni colorate” e altre sovversioni in tutto il globo,
praticamente a costo zero. Questo è un problema grave che ogni mondo
che cerca la multipolarità dovrebbe affrontare.
L'altra
super-arma degli Stati Uniti è il loro dominio folle dei mezzi
d’informazione, qualcosa di molto vicino all’egemonia assoluta,
la cui dimensione è fuori dall'immaginazione della maggior parte
degli analisti.
Hollywood
è la più straordinaria macchina della propaganda mai vista in
questo mondo. Hollywood trasmette in miliardi di cervelli di tutto il
mondo i canoni hollywoodianiper la comprensione della realtà, che
includono − ma non solo − il modo di pensare, di comportarsi, di
vestirsi, cosa mangiare e bere, fino a come esprimere il dissenso.
Sì, Hollywood è perfino in grado di istruirci su come esattamente
esprimere il nostro dissenso verso lo stile di vita americano. Solo
per citare un esempio (ma ce ne sono molti), i dissidenti occidentali
spesso citano il film “Matrix” [1999] per riferirsi a
un’invisibile rete di controllo sulle nostre vite, ma anche Matrix
fa parte della stessa matrice, se posso metterla in chiave
umoristica. Ecco la confezione hollywoodiana del processo di
comprensione che viviamo in un mondo ingannevole: utilizzando
allegorie, simboli e metafore prodotti negli Stati Uniti, facciamo
comunque pienamente parte del loro sistema e quindi contribuiamo a
rendere questo reale.
Gli
Stati Uniti hanno anche il controllo dell’informazione mainstream a
livello mondiale, essendo la CIA infiltrata nella maggior parte dei
più importanti network. Il giornalista tedesco Udo Ulfkotte, che ha
lavorato per la Frankfurter Allgemeine Zeitung, uno dei
principali quotidiani tedeschi, nel suo libro bestseller Gekaufte
Journalisten [“Giornalisti venduti”] ha recentemente
confessato
di essere stato pagato per anni dalla CIA per manipolare le
notizie, e che questo è del tutto normale nei media tedeschi.
Possiamo tranquillamente ritenere che ciò sia molto comune anche in
altri paesi. Questo controllo globale sui mezzi d’informazione
permette agli Stati Uniti di dominare la guerra della percezione in
tale misura da rendergli possibile trasformare facilmente il bianco
in nero agli occhi del pubblico. È incredibile come i media europei
sotto il controllo americano abbiano potuto distorcere i fatti
durante le recenti crisi in Ucraina: la giunta filonazista di Kiev,
salita al potere con un colpo di Stato, è stata capace di bombardare
e uccidere i propri cittadini per mesi, mentre i media occidentali la
raffigurano sempre come la parte buona e Putin è descritto come il
nuovo Hitler senza nessun motivo realmente fondato.
Per
capire fino a che punto il dominio delle informazioni è di per sé
sufficiente a plasmare una realtà effettiva, ricordiamo questa
citazione del 2004 attribuita a Karl Rove, all'epoca consulente
senior di George W. Bush:
«Noi siamo un impero e quando agiamo
creiamo la nostra realtà; così, mentre voi studiate quella realtà
– con tutto l’equilibrio di cui siete capaci – noi agiamo di
nuovo, creando altre nuove realtà che voi potete anche studiare, ed
è così che le cose si gestiscono: noi siamo i protagonisti della
storia... e a voi, a tutti voi, sarà solamente consentito di
studiare ciò che noi facciamo.»
E
se tutto questo non bastasse, la maggior parte delle informazioni che
circolano oggi nel mondo è elaborata da computer con sistemi
operativi americani (Microsoft e Apple), mentre le persone −
compresi coloro che si oppongono agli Stati Uniti − comunicano fra
loro attraverso Facebook, Gmail e altri canali controllati dalla CIA.
È
proprio questo pressoché totale monopolio dell’informazione che fa
la vera differenza. Così, anche se l’importanza economica
americana ha subìto un netto declino negli ultimi decenni, la sua
influenza sul piano dell’informazione è paradossalmente cresciuta. Perciò i paesi che oggi guardano a un vero e proprio mondo
multipolare dovrebbero rivedere le loro priorità e iniziare a
competere seriamente sul campo dell’informazione, piuttosto che
concentrarsi solo su questioni economiche.
Oggi
il potere è solo una questione di percezione, e gli Stati Uniti sono
ancora gli impareggiabili maestri di questo gioco. Non avremo nessun
mondo veramente multipolare fino a quando altri giocatori con
competenze analoghe non entreranno in gioco.
Ci
sono già alcuni casi di servizi di news non allineati con gli Stati
Uniti di qualità eccellente e con l'ambizione di un’audience
globale, fra i quali i più notevoli sono Russia Today e
l’iraniana Press TV, ma questo è ancora poco o niente in
confronto al costante tsunami di informazioni audiovisive
filoamericane che dilaga in tutto il mondo 24 ore su 24. Russia Today
sta progettando di allestire anche canali in francese e tedesco:
questo è un passo in avanti, ma ancora lontano dall'essere
sufficiente.
Gli
USA non sono davvero preoccupati dai paesi che li sorpassano nei
propri interessi, però cominciano a innervosirsi se questi paesi
utilizzano valute diverse dal dollaro per i loro commerci e
letteralmente impazziscono quando sullo scacchiere dell’informazione
appaiono importanti network non allineati. Il che suona abbastanza
strano, dato che la libertà di stampa è un punto centrale della
moderna mitologia americana, ma ogni fonte di informazione non
allineata con gli Stati Uniti mette appunto in pericolo il loro
monopolio della realtà. Questo è il motivo per cui hanno bisogno di
demonizzare i concorrenti e di etichettarli come antiamericani o
peggio. Tuttavia, spesso i giornalisti o gli editori non allineati
sono semplicemente una realtà non americana, non necessariamente
antiamericana; ma agli occhi degli egemonisti americani tutte le
informazioni non-americane sono per definizione antiamericane, dal
momento che la compattezza del loro impero si fonda soprattutto sul
loro monopolio della realtà percepita. Ricordate la citazione di
Karl Rove.
Così,
i paesi non allineati con gli USA che veramente aspirano a un mondo
multipolare non hanno altra scelta se non quella di imparare dal loro
avversario e agire di conseguenza. Al di là della creazione di un
proprio news network all’avanguardia, essi dovrebbero anche
cominciare a fornire un sostegno concreto all’informazione
indipendente nei paesi in cui le notizie sono attualmente controllate
dagli Stati Uniti. Giornalisti indipendenti, scrittori e ricercatori
dei paesi occidentali oggi stanno facendo il loro lavoro solo per
passione civile, spesso non pagati e al costo di pubbliche derisioni,
emarginazione sociale e sacrifici economici. Diffamati nelle loro
patrie e senza nessun aiuto da parte dei paesi che presumibilmente
mirano a sottrarsi al giogo statunitense: questo non è un buon
inizio per la fine della Full Spectrum Dominance degli Stati
Uniti.
Non
c’è e non ci sarà mai un mondo realmente multipolare senza una
gamma veramente multipolare di punti di vista sulla scena. Un impero
postmoderno è più che altro una condizione
mentale: se questa condizione rimarrà unipolare, il mondo resterà
tale.
In occasione del
simposio internazionale Global WARning - tenutosi il 12
dicembre 2014 e organizzato da Pandora TV, Megachip-Democrazia nella
Comunicazione e Alternativa - uno degli interventi più forti è
stato quello di Paul Craig Roberts, intervistato da Piero
Pagliani. Roberts era stato sottosegretario al Tesoro durante la
prima Amministrazione Reagan, e ha poi scritto migliaia di
editoriali, oltre che diversi libri argomentati con una prosa limpida
e precisa, che descrivono l'involuzione imperiale del potere
atlantico.
Il Video, di 17'29'',
riporta la parte più interessante della conversazione, di cui vi
offriamo anche una trascrizione.
Buona visione e buona
lettura!
Intervista a Paul Craig Roberts a cura di Piero Pagliani.
Intervento Video al simposio internazionale Global WARning del 12 dicembre 2014.
D.
Dottor Roberts, grazie per averci concesso questa intervista.
Possiamo incominciare. Come sa ho uno scenario da sottoporle.
All’indomani
della II Guerra Mondiale, gli USA possedevano il 70% delle riserve
auree mondiali e la concentrazione negli Stati Uniti della domanda
effettiva e della capacità produttiva èra senza precedenti nella
storia. Queste condizioni costituivano l’aspetto economico
dell’egemonia statunitense mondiale.
Nell’agosto
del 1971, il presidente Nixon dichiarando l’inconvertibilità del
Dollaro in oro mise fine al sistema monetario stabilito a Bretton
Woods.
Oggi,
la Russia e la China ammassano migliaia di tonnellate di oro fisico e
i BRICS hanno lanciato la Nuova Banca di Sviluppo.
Nel
marzo del 2009, il Governatore della Banca Centrale Cinese ha
proposto di rimpiazzare il Dollaro come valuta dominante e di creare
una valuta di riserva internazionale indipendente da singole nazioni.
Mr.
Roberts, in quale modo questo scenario riesce a descrivere i
cambiamenti attuali negli equilibri geopolitici? In
quale misura un mondo multipolare può riuscire a fare
superare la presente crisi sistemica?
R.
A mio modo di vedere, una valuta internazionale non è più
necessaria. All’indomani della II Guerra Mondiale quando tutte le
altre grandi nazioni industriali avevano economie distrutte e
strutture industriali distrutte solo il Dollaro americano aveva
valore e quindi poteva diventare la moneta mondiale.
Oggi
chiaramente ci sono molte zone sviluppate del mondo con valute
legittime e quindi è possibile condurre scambi tra nazioni tramite
le loro proprie valute. Avete l’Euro, avete il Rublo, avete la
valuta cinese, avete la giapponese, la canadese, l’australiana,
ognuna già ora con un grande volume di attività economica sulla
faccia del pianeta che non esisteva nel 1945. E quindi una valuta di
riserva non è veramente più necessaria. Una valuta di riserva
connessa a nazioni assicura a quella nazione un potere, le dà
l’egemonia finanziaria sopra altre nazioni.
Stiamo
osservando come Washington faccia un cattivo uso di questo potere. Un
altro problema è il modo in cui Washington usa la valuta di riserva
per pagare i suoi conti. Se sei la nazione con la valuta di riserva
puoi rilassarti perché puoi pagare i tuoi conti emettendo moneta di
credito. Negli anni recenti ciò che è successo è stato che
Washington ha espanso oltre misura la sua disponibilità monetaria e
il Dollaro ha denominato il debito. Washington inflaziona la sua
valuta come ha fatto anno dopo anno, dopo anno e dopo anno ancora col
Quantitative Easing. Una politica che strettamente parlando, non è
finita. Ciò costringe le altre nazioni a inflazionare le proprie
valute, altrimenti il valore di scambio delle loro valute aumenta e
le esportazioni vengono tagliate, e quindi per proteggere i mercati
di esportazioni tutti devono inflazionare se lo fanno gli Stati
Uniti. Così la conseguenza è che il mondo ora è sommerso da fiat
money, ma la produzione di merci e di servizi non è cresciuta inmodocommensurabile alla crescita
del denaro. Ci aspettiamo una seria inflazione mondiale per molte
ragioni. Molta di questa moneta è sotto chiave nel sistema bancario.
E’ comunque una situazione molto instabile ogni volta che create
più fiat money di quanto non siano prodotti beni e servizi.
Quindi,
io penso che la situazione abbia raggiunto il punto in cui molte
nazioni, parlo di nazioni potenti come la Russia e la Cina, si
rendono conto che il sistema del Dollaro, il sistema di pagamenti
basato sul Dollaro, si sta frantumando, ed è anche il sistema che
può essere usato per imporre sanzioni su nazioni che non seguono le
imposizioni di Washington. Avete sanzioni se vi comportate
indipendentemente da Washington e quindi si possono vedere movimenti
per abbandonare il sistema e ciò certamente avverrà.
D.
Così, in un certo senso, la proposta del governatore cinese della
banca centrale, è una sorta di provocazione politica. Dire: “Abbiamo
bisogno di un Bancor invece che del Dollaro”.
R.
Beh, lei sa che la Cina è il più grande creditore del Tesoro
statunitense. Possiede la partemaggiore
del debito USA. Ha legato la sua valuta al Dollaro per dimostrare che
la sua valuta è buona quanto il Dollaro . E ciò che vediamo è che
la valuta cinese è meglio del Dollaro. Io penso che l’obiezione
della Cina è il modo in cui gli Stati Uniti usano la loro valuta
come un’egemonia finanziaria sopra tutte le altre nazioni. La usa
per minare la sovranità delle altre nazioni. Lo vediamo con le
sanzioni contro la Russia. Questo è il modo per costringere la
Russia a sottomettersi al volere di Washington. Ma stanno ottenendo
il risultato opposto. La Russia sta lasciando il sistema dei
pagamenti basati sul Dollaro.
E
la Russia inoltre, a causa della la stupidità dei governi europei,
sta riorientando il suo commercio dall’Europa all’Oriente. Lo
vediamo oggi con gli sviluppi in campo energetico. Così ciò manderà
in frantumi il sistema di pagamento basato sul dollaro. E finirà.
D.
Questo ci porta alla prossima domanda, Mr. Roberts. A quanto sembra
gli Stati Uniti stanno cercando di mantenere la loro supremazia
mondiale costi quel che costi. Qual è la sua opinione riguardo le
possibilità degli USA di mantenere la loro egemonia nel breve e
medio termine? Quale è, in quest’ottica, il ruolo delle forze
armate, delle istituzioni finanziarie, delle corporations e
dell’agribusiness? Cosa dovrebbero fare le nazioni europee per
ribilanciare questo squilibrio a favore degli USA?
R.
Le nazioni europee sono i grandi facilitatori dell’egemonia di
Washington. Se le nazioni europee fossero davvero sovrane e fossero
in grado di condurre politiche internazionali indipendenti non
sarebbero stati vassalli degli Stati Uniti e questo limiterebbe lo
strapotere degli USA e priverebbe gli Stati Uniti della copertura per
le sue guerre di aggressione.
Cosa
può fare l’Europa? Può disimpegnarsi dalla Nato. Essere un
membro della Nato vuol dire assoggettarsi al controllo di Washington.
La Nato esisteva per proteggersi dall’invasione dell’Europa da
parte dell’Armata Rossa, l’esercito sovietico. Questa minaccia è
bella e spartita da almeno vent’anni. Eppure la Nato continua ad
espandersi e viene usata dagli Stati Uniti per le sue guerre in
Africa e nel Medio Oriente. Cosa ci guadagna l’Europa da tutto ciò?
Niente. E adesso viene trascinata in un confronto militare con la
Russia. Che cosa ne uscirà da tutto ciò? Nulla di buono per
l’Europa. È quindi è necessario che i Paesi europei riacquistino
la loro sovranità. Ma non sono sovrani, Sono colonie. Sono regimi
fantocci. Non hanno politiche estere indipendenti. Sono assoggettate
al volere di Washington. E ciò costituisce una grande facilitazione
per l’egemonia di Washington. Senza ciò gli Stati Uniti sarebbero
solo un altro Paese tra tanti. Magari un Paese molto forte, certo, ma
un Paese tra tanti. Ma quando uno ha tutta l’Europa, il Canada,
l’Australia il Giappone come regimi fantocci e stati vassalli,
diventa strapotente.
Quindi,
ciò che l’Europa può fare? Lasciare la Nato. La Nato non protegge
più l’Europa, ma la mette in pericolo perché la coinvolge nelle
guerre di Washington.
D.
Mr. Roberts. In che modo gli USA riescono ad assoggettare le nazioni
europee? C’è una ragione principale?
R.
Ci sono vari motivi. Un motivo è che dopo la II Guerra Mondiale il
Dollaro è diventato la moneta di riserva, ciò che dà un potere
enorme a questo Paese. Un’altra ragione è stata la lunga Guerra
Fredda con l’Unione Sovietica e la propaganda secondo cui l’Europa
poteva essere invasa dall’Unione Sovietica. Con la conseguente
dipendenza dell’Europa, che dura da decenni, dalla protezione
americana. Se tu dipendi dalla protezione di un altro Paese finisci
per dover seguire le politiche di quel Paese perché dipendi da quel
Paese. E’ il ruolo che assumi col tempo.
Tutto
ciò avrebbe dovuto finire con il collasso dell’Unione Sovietica.
Sfortunatamente il collasso dell’Unione Sovietica ha portato alla
ribalta negli Stati Uniti l’ideologia dei neoconservatori che dice
che la Storia ha scelto gli Stati Uniti per dominare il mondo.
Sarebbe la Nazione Eccezionale, la Nazione Indispensabile e il
collasso del comunismo, del socialismo avrebbe provato che gli Stati
Uniti dovevano esercitare la loro egemonia sul mondo. Questa
ideologia è stata istituzionalizzata nella politica estera e
militare degli Stati Uniti. Abbiamo la dottrina Brzezinski e la
dottrina Wolfowitz.
E
nell’essenziale queste dottrine dicono che gli Stati Uniti devono
prevenire l’ascesa di ogni altro Paese che abbia il potere e le
capacità di bloccare i propositi di Washington nel mondo. E questi
due Stati oggi sono la Russia e la Cina. E quindi questa ideologia è
estremamente pericolosa perché mette il mondo in conflitto con la
Russia e la Cina. E questi sono tra i principali paesi nucleari, e
sono grandi economie ed enormi aree geografiche. E quindi l’ideologia
dell’egemonia americana è una minaccia alla stessa esistenza della
vita sulla terra.
D.
La Germania potrebbe giocare un ruolo importante in questo scenario.
Ma sembra che non stia affatto per giocarlo. Cosa pensa della
Germania?
R.
Temo che la Merkel sia solo un pupazzo di Washington. E’ molto
difficile per un leader europeo alzarsi in piedi e rappresentare il
proprio popolo invece che gli Stati Uniti. Tutti i leader europei
rappresentano gli Stati Uniti e non rappresentano il popolo della
Francia, della Germania o il popolo britannico. Rappresentano gli
Stati Uniti. E certamente sono ben remunerati per questo. E quindi i
leader che mostrano una qualche disposizione a non stare al gioco
sono sempre rovinati . Perciò se la Germania dovrebbe alzarsi in
piedi, dovesse fare qualcosa, immaginatevi se la Germania dovesse
semplicemente lasciare l’UE . Restare non serve agli interessi
della Germania. Perché la Germania verrebbe munta e pagherebbe i
debiti dell’UE. E dell’Ucraina.
O
se la Germania lasciasse la Nato. Perché la Germania dovrebbe stare
nella Nato? La Germania ha grandi collegamenti economici con la
Russia. Ma questi stanno per essere sacrificati per far piacere agli
Americani.
Quindi
la Germania potrebbe fare molto. Potrebbe lasciare la UE, potrebbe
lasciare la Nato. Questo sarebbe la fine dell’egemonia
statunitense.
D.
E’ quindi anche un problema di democrazia. Non c’è perciò più
democrazia nei Paesi occidentali, in un certo senso.
R.
I Paesi occidentali non hanno più, a mio avviso la democrazia,
perché i loro leader non rappresentano il popolo.
Negli
stati Uniti rappresentano ideologie e rappresentano potenti gruppi di
interessi, come ad esempio il complesso militare e di sicurezza, Wall
Street e le grandi banche e l’agribusiness, la lobby israeliana, le
industrie estrattive, petrolio, miniere e l’industria del legno.
Tutti questi sono interessi potentissimi le cui donazioni determinano
chi viene eletto e la gente che trae beneficio da questi contributi
alle campagne elettorali sono alleate alle fonti del denaro. Quindi
tutto il processo viene rimosso dalla rappresentazione del popolo. Il
popolo non fornisce i soldi che eleggono i candidati. E quindi si ha
una situazione in cui l’Europa è solo un vassallo degli Stati
Uniti
Quindi
questi leader non possono nemmeno rappresentare gli interessi del
loro popolo ma devono conformarsi alle politiche degli Stati Uniti.
Perciò si può solamente dire che la democrazia in fin dei conti non
esiste. E’ solo una copertura perché i governi sono incapaci di
rappresentare gli interessi del popolo.
R.
Questo mi ricorda un suo articolo recente. In questo articolo lei ha
denunciato, cito, che dall’Amministrazione Clinton in poi “il
potere di contrappeso dei lavoratori nei confronti del capitale è
svanito”. Questa denuncia significa che dovremmo fare qualcosa per
ribilanciare lavoro e capitale. Cosa dovrebbero fare i lavoratori e
le persone comuni per ribilanciare lo squilibrio nei confronti del
capitale?
R.
E chiaro che non possono fare nulla all’interno di questo sistema.
Ciò che ha distrutto il potere dell’uomo comune negli Stati Uniti
è stato la delocalizzazione all’estero dei posti di lavoro
dell’industria manifatturiera e quando l’industria è stata
delocalizzata all’estero i sindacati sono stati distrutti. E quando
i sindacati sono stati smantellati, la fonte indipendente di
finanziamento del Partito Democratico è stata distrutta e di
conseguenza i Democratici ora devono rivolgersi agli stessi gruppi di
interesse che finanziano i Repubblicani. Devono rivolgersi al
complesso militare-sicurezza, a Wall Street, alle banche e così
entrambi i partiti sono finanziati dalle medesime fonti. Così a
tutti gli effetti c’è un unico partito.
E
quindi all’interno di ciò cosa possono fare i lavoratori
spossessati? Non possono fare veramente nulla all’interno del
sistema. Tutto quello che possono fare è contestare la legittimità
del governo e ribellarsi. E’ l’unica alternativa che hanno. Non
c’è nessuna possibilità di cambiare il sistema dall’interno.
Fin quando protestare vuol dire protestare pacificamente vuol dire
che la gente accetta la struttura e semplicemente cerca di convincere
coloro che hanno il potere che devono cambiare le proprie idee. Ma
questo non avverrà. Non succede mai.
Abbiamo
raggiunto un punto in cui i lavoratori sono spinti ai margini. Non
hanno nessuna influenza non hanno nessuna rappresentanza. E tutto
quello che possono fare è contestare la legittimità del sistema e
ribellarsi. Non c’è nient’altro che possano fare.
D.
È una posizione molto forte.
Molto precisa.
R.
Non lo sto proponendo. Sto solo rispondendo alla sua domanda.
D.
Certo, la comprendo.
R.
All’interno del sistema non hanno praticamente nessun potere. E
tutto questo è dovuto alla delocalizzazione dei posti di lavoro.
Perché ciò ha tolto il loro potere economico. Questo era il potere
che controbilanciava il potere dei capitalisti. Senza i sindacati non
c’è un potere controbilanciante.
D.
Lo scenario che dobbiamo affrontare è molto pericoloso. Grazie
ancora per averci concesso questa intervista. Le voglio chiedere se
ha qualcosa da dire all’audience europeo e italiano. Liberamente.
R.
Tutto quello che posso dire è che i Paesi in Europa che hanno una
così lunga storia non devono rinunciare alla loro sovranità, per
Washington. Devono riconquistare la loro sovranità per proteggere il
mondo dall’aggressione di Washington. Perché questa ideologia
dell’egemonia mondiale è molto pericolosa. E’ un’ideologia
molto pericolosa. Potete vedere i morti e le distruzioni nel Medio
Oriente da tredici anni. Puoi vedere l’ingerenza irresponsabile del
governo degli Stati Uniti in Ucraina, le accuse irresponsabili contro
la Russia, contro la Cina, la costruzione di basi militari sulle
frontiere della Russia e in Asia per bloccare l’accesso della Cina
alle risorse. Tutto questo ci porterà alla guerra. Ma La Russia e la
Cina non sono la Libia o l’Iraq.
Quindi
i Paesi europei dovrebbero recuperare la loro sovranità e
ridiventare Paesi indipendenti . Così da costringere gli Stati Uniti
a mollare questa ideologia della supremazia mondiale.
Essa
è pericolosa per gli Americani, è pericolosa per i Russi, per i
Cinesi, per gli Europei. E’ pericolosa per tutti.
I
tratti salienti del 2015 iniziano a delinearsi. Cercherò in futuro
di analizzarli meglio, ma quelli centrali mi sembrano che vertano su
alcuni punti salienti.
Due
parole sul metodo
Come
al solito non uso una sfera di cristallo, ma un po’ di logica
applicata ai fatti. Alcuni sono fatti certi, altri sono il risultato
di incroci di fonti informative di diversa provenienza e di diversa
tendenza. Non ho servizi di intelligence a mia disposizione e quindi
mi devo accontentare. Quelli che invece si accontentano di una sola
fonte, di fatto si accontentano anche di essere ricettori passivi di
servizi di intelligence. Data l’origine promiscua delle mie
informazioni, requisito essenziale è non fare il tifo per una
parte, ma cercare di essere un lettore equilibrato. Ciò non vuol
dire che il mio cuore non stia dalla parte degli aggrediti, degli
umiliati e degli offesi. L’osservatore puramente razionale e
neutrale è una mostruosa finzione al servizio del pensiero
dominante. Essere equilibrato nell’osservazione e nell’analisi
non vuol dire essere indifferente, bensì analizzare con
disincanto il maggior numero possibile di linee di forza in gioco per
poter intervenire a vantaggio degli aggrediti, degli umiliati e degli
offesi.
Non
solo, per l’analisi del comportamento di entità statali e
dei conflitti in corso tra loro non è né lecito né produttivo
suddividere il mondo tra Buoni e Cattivi. Gli scontri geopolitici
avvengono tra sistemi costituiti di potere che agiscono
guidati dal criterio dell’interesse e dell’opportunità e quindi
attraverso tali criteri devono essere interpretati e analizzati. Cosa
che tra l’altro dimostra l’idiozia di insignire del Nobel per la
Pace, che dovrebbe avere un significato etico, tali entità o i loro
rappresentanti, qualunque essi siano.
Durante
le crisi agiscono in primo o secondo piano anche entitàsubstatali, che possono essere classi o raggruppamenti sociali
di altra natura, o più precisamente rispecchianti le molteplici
nature che emergono o riemergono quando un sistema di sicurezze viene
messo in crisi e si aprono vistose crepe nell’ordinamento sociale,
istituzionale e simbolico che fino a quel momento era stato
sovrimposto all’intera società e in diversa misura accettato.
Un’entità
substatale richiede un’analisi duplice, la prima riguardante la sua
origine economica e sociologica (come ad esempio l’emarginazione) e
quella simbolica e mitologica in senso lato (come la costruzione o
ricostruzione di un’identità attraverso l’adesione a fedeltà
ideali concepite come antagoniste dell’ordine emarginante; queste
fedeltà ideali possono essere totalmente differenti e avere origini
e storie situate agli antipodi: si pensi alla lotta di classe
e allo jihadismo); la seconda riguarda il ruolo di queste
entità nell’ambito dei conflitti tra quei sistemi di interessi e
di rappresentazioni del mondo di ordine superiore che sono appunto
gli Stati, quegli scontri cioè che caratterizzano le grandi linee di
forza di ogni crisi sistemica. Tutto sommato questa è la lezione
leniniana.
E’
bene quindi non applicare agli Stati giudizi di carattere morale per
spiegare l’analisi del loro operato. Ovverosia, è da evitare di
dare agli Stati giudizi etici essenzialistici, del tipo “lo Stato X
è intrinsecamente aggressivo” o “lo Stato Y è amante della
pace”.
Rispetto
alle entità statali, la suddivisione da applicare è di altro tipo.
In questo momento storico ritengo che la suddivisione più pertinente
sia:
a)
potenze che tendono alla guerra, attualmente gli Usa e
poi l’Europa, perché non trovano altre soluzioni alle loro
enormi difficoltà.
b)
potenze che vogliono preservare la pace perché la guerra non
gli conviene, come attualmente la Russia e la Cina.
Questo
è quanto e non rivestirò questa differenza con altre qualità,
riguardanti l’etica o le cosiddette “caratteristiche nazionali”,
se non forse negli elogi o nelle invettive, che non sono moti
propriamente razionali. Non perché l’etica non sia importante o
perché non esistano “caratteristiche nazionali”, che ad ogni
modo non dipendono da apparati simbolici particolari o da fenomeni
metafisici come il “destino manifesto”, bensì dalla collocazione
delle nazioni nella storia e nella geografia. Non uso questi criteri
perché produrrebbero rumori di sottofondo in analisi per forza di
cose stringate e che richiedono perciò di arrivare velocemente al
dunque.
Ho
però sbagliato quando scrissi che dalla signora Mogherini nella sua
carica di Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Sicurezza
della UE, mi aspettavo qualche guizzo di dignità e indipendenza.
Così non è stato. La signora Mogherini si sta comportando come un
ripetitore passivo del Minculpop atlantico. La sua richiesta di nuove
sanzioni alla Russia motivate dal nulla ne è l’ennesima
prova.
E
il nulla è proprio il nulla, nel senso più stretto del termine.
Gli
analisti militari indipendenti hanno stabilito che i proiettili che
hanno ucciso i civili a Mariupol sono stati lanciati dalle forze
armate ucraine, UAF, e caduti su Mariupol per errore (d’altra
parte spessissimo la UAF bombarda a casaccio o con vistosi errori).
Quindi non sono state lanciate dalle forze armate della Novorussia,
NAF, che in quel momento non avevano in corso nessuna operazione
militare nella zona di Mariupol (stavano invece combattendo nella
zona di Donetsk).
In
secondo luogo, che le forze armate russe stiano intervenendo nel
Donbass è stato escluso dal Capo di Stato Maggiore ucraino, generale
Viktor Muzhenko. Una dichiarazione che ha irritato tutto il
menzognificio atlantico:
Le
due motivazioni per le sanzioni quindi semplicemente non esistevano.
Può essere che la presa di posizione della UE sia “diplomatica”
e nasconda manovre dietro le quinte.
Ma mentre la UE fa i suoi giochi
diplomatici e non riesce ad esprimere nessuna politica estera
indipendente, ogni ora che passa in Ucraina si muore.
Il re è nudo
ma la coscienza dei dirigenti europei è invece opaca e anche su di
essa pesano le morti non solo dei civili e dei soldati della
Novorussia, ma anche di tutti quei giovani ucraini mandati allo
sbaraglio in missioni disperate, fallite già prima di iniziare.
In
questi giorni ci sono frenetici incontri incrociati, a Monaco, Kiex e
Mosca, tra Kerry, Mogherini, Poroshenko, Hollande, Merkel, Lavrov e
Putin. È successo sempre così quando la junta è stata
sull’orlo di un disastro militare. E, come vedremo subito, oggi la
junta è sull’orlo dell’ennesimo disastro militare.
Da
questi incontri uscirà qualcosa di più di un ennesimo cessate il
fuoco ad hoc? Lo spero ardentemente, ma non ci credo, non riesco a
trovare nessun ragionevole motivo per crederlo. E Dio solo sa quanto
sarei immensamente felice di sbagliarmi.
La
guerra in Europa nel 2015
Partiamo
quindi da qui. Il 2015 sarà l’anno in cui la crisi ucraina
raggiungerà il punto di catastrofe, in senso matematico. Cioè
subirà un cambiamento di forma radicale.
E’
la prima volta che mi dovrò soffermare sui particolari di un
conflitto armato, ma occorre farlo. La guerra è e sarà uno degli
ingredienti centrali dello sviluppo della crisi sistemica.
I
dati parlano chiaro. La NAF, benché in enorme minoranza numerica
(circa 20.000 combattenti e 15-20.000 addetti alle retrovie, alla
sicurezza e alla logistica) è estremamente piùmotivata
e più efficiente della UAF, a parte gravissimi errori come a Peski e
Avdeevki, dovuti probabilmente a scontri interni alla dirigenza della
Novorussia.
Attualmente
a Debaltsevo circa 6.000-8.000 soldati ucraini, presumibilmente quasi
la metà delle forze ucraine oggi effettivamente in grado di
combattere, stanno per essere definitivamente chiusi in una sacca.
Anzi, recentissime notizie danno la sacca ormai chiusa. Una sorta di
piccola Stalingrado che potrebbe essere feroce se gli ucraini non si
arrendono. In tutti i casi una sconfitta pesantissima per la junta
di Kiev.
La
NAF si è mossa molto lentamente, evitando di utilizzare tutta la sua
potente artiglieria perché la città è piena di civili. Civili
russofoni,
quindi considerati sottouomini dalla junta.
Non dimentichiamo che la
Timoshenko dopo il golpe li voleva eliminare tutti con le atomiche:
Oggi
dovrebbe iniziare l’evacuazione. Un’operazione delicatissima,
perché potrebbe essere boicottata dalla UAF assediata, dato che i
civili sono l’unica ragione per cui l’artiglieria della NAF non
si scatena e perché si presta a sanguinose provocazioni false
flag.
Guardando
il conflitto nel suo complesso, osserviamo che la NAF deve comunque
frenarsi nello slancio. C’è un motivo militare: spingendosi in
avanti avrebbe il problema di consolidare e mantenere linee molto
lunghe con pochissimo personale. Ma c’è un motivo ben più
importante, ed è politico. Mosca non desidera affatto che la NAF si
faccia attrarre dalla prospettiva di un’espansione e tiene a freno
i comandanti militari e politici più focosi, suscitando così accuse
a Putin da parte dei nazionalisti russi di “tradire” il Donbass.
Basta informarsi un po’ per sapere che le cose stanno così. A noi,
al contrario, viene raccontato che Mosca sta spronando la NAF alla
conquista dell’Ucraina. Menzogne costruite scientemente e ripetute
da media ignoranti.
Nel
campo ucraino solo i battaglioni di volontari sono motivati; e
l’ideologia che li motiva purtroppo la conosciamo. La UAF è in
seria difficoltà. Tutti gli ultimi attacchi (quelli che hanno rotto
la tregua) sono stati di fatto missioni suicide, spiegabili solo
dalla volontà statunitense di fare dell’Ucraina un punto di crisi
permanente e di permanente divisione tra Europa e Russia.
“Combatteremo la Russia fino all’ultimo ucraino”, non è
più solo lo slogan virtuale di Washington, ma un dato di fatto. A
volte i comandanti ucraini mentono apertamente ai soldati
sull’obiettivo della missione. Come quei poveracci inviati a
riconquistare il Nuovo Terminal dell’aeroporto di Donetsk ai quali
avevano fatto credere fino all’ultimo che dovevano andare a
“recuperare i feriti”. E’ stato un massacro, come si può
capire da un video:
Avvertiamo
che questo video è la versione non censurata delle immagini
solitamente divulgate; non è un bello spettacolo ma nel vederlo si
capisce l’orrore di quella guerra in mezzo all’Europa, a cui noi,
colpevolmente, non prestiamo la minima attenzione.
Un
alto responsabile degli uffici di reclutamento ucraini ha rivelato
che interi villaggi sfuggono alla coscrizione rifugiandosi in Russia,
aggiungendo “si stenta a crederlo, proprio in Russia”.
Solo una persona obnubilata dall’ideologia di guerra può stentare
a crederlo. Un quotidiano ucraino ha scritto che la 4ª
mobilitazione, l’ultima, ha visto l’80 per cento dei
coscritti rifiutarsi di andare a combattere.
Per
contro la Novorussia ha proclamato la mobilitazione generale. Sarà
su base volontaria, tuttavia i responsabili si aspettano un afflusso
di 100mila uomini e potrebbe non essere solo propaganda.
Se
non interverranno altri fatti, cioè un intervento diretto o
indiretto massiccio della Nato o nuovi negoziati di pace, ciò
che si può quindi prevedere è che la NAF nel 2015 conquisti Odessa
e Mariupol, dando così continuità territoriale alla Crimea e
tagliando fuori Kiev dall’accesso al mare. A quel punto si fermerà.
Non andrà ad assediare Kiev, ma attenderà la mediazione
internazionale. Se ci sarà. E si può anche prevedere che Mosca a
quel punto avrà parecchie difficoltà a rifiutare per la seconda
volta la richiesta dei territori controllati dalla NAF di essere
annessi alla Russia.
La
junta di Kiev è nel panico e in questo 2015 rischia di
frantumarsi. Assediato dalla destra ultrà (a Kiev ci sono ripetute
manifestazioni antigovernative dei battaglioni di volontari nazisti
che protestano contro il progetto di loro scioglimento) e prostrato
dal disastro della sua “offensiva invernale”, nessun analista
sano di mente oggi scommette un euro sulla vita dell’oligarca
Poroshenko, primo ministro della junta (se il governo
pre-golpe faceva gli interessi degli oligarchi, il governo dopo-golpe
è direttamente in mano agli oligarchi, un gran passo in
avanti).
Poroshenko
ha capito che l’esistenza sua e quella dell’Ucraina dipendono
dalla pace con la Novorussia (per questo vuole sciogliere i
battaglioni di volontari, che vedono la pace come il fumo negli
occhi, visto che la sola ragione per cui esistono e hanno un ruolo è
la guerra). Oggi la sua propensione al compromesso è spalleggiata
anche dal mondo degli affari, persino dai settori che erano più
oltranzisti. E non a caso Putin gli ha fin da subito teso la mano,
riconoscendo le elezioni di maggio, pur pesantemente viziate
dall’esclusione dei partiti di opposizione e di larghe regioni del
Paese, e non riconoscendo invece ufficialmente le elezioni di
novembre nel Donbass(attirandosi anche
in questo caso feroci critiche dai nazionalisti russi).
Come
è stato detto, Putin preferisce una cattiva pace a una buona
guerra. Una verità che in Occidente è da nascondere, perché il
presidente russo deve essere a tutti i costi demonizzato. Anche nel
suo caso è iniziato l’accostamento a Hitler. Un classico: Hitler-Milosevic, Hitler-Saddam, Hitler-Ahmadinejad, Hitler-Gheddafi,
Hitler-Assad e adesso Hitler-Putin.
Putin
invece sa che un’Ucraina unita e federale sarebbe lo scenario più
vantaggioso per la Russia e un punto di ricucitura con la UE. Lo
sanno bene anche negli Usa. E quindi se il deciso hard-power
statunitense avrà la meglio sull’indeciso soft-power di
Obama le cose si metteranno molto male per Poroshenko, per l’Ucraina
e per l’Europa intera.
Ci
si può immaginare la signora Clinton, che stufa di una politica
estera in confusione, stufa delle micro-fronde e delle
micro-diplomazie sotterranee europee, dice; «Obama,
move over there,
let me work! And
you, European ”leaders”, shut the fuck up! Line
the fuck up! Fuck the Eu!».
Purtroppo
gli ultimi sviluppi mostrano un Obama assediato e costretto, almeno
apparentemente, ad adeguarsi alle richieste dei falchi, cioè aiuti
letali all’Ucraina e sostegno massiccio anche politico al partito
della guerra, ovvero all’ultra destra nazionalista. In questo
scenario Poroshenko sarà visto con crescente sospetto dagli Usa e
sempre più contestato da nazisti e nazistoidi.
Alla
fine, potrebbe essere più utile come vittima sacrificale di un
attacco terroristico false flag, mettiamo al Parlamento di
Kiev. Una sorta di incendio del Reichstag.
Altre
opportune vittime dello stesso attentato, cioè i capi dell’ultra
destra, farebbero scattare una decomposizione tribale dell’Ucraina,
con presa del potere da parte di isterici signori della guerra e con
bande di nazisti alla caccia degli oppositori e specialmente dei
russofoni che sarebbero costretti a formare bande di autodifesa. Il
caos imperiale al suo apogeo. Il massimo a cui possono
attingere gli Usa a meno di dichiarare apertamente guerra alla
Russia. O a meno di una revisione radicale della loro strategia.
Evento ad oggi inconcepibile, e vedremo perché.
Il
caos imperiale nel 2015
La
crisi sistemica genera caos sistemico che decompone le società in
quelle formazioni sociali che lo sviluppo aveva incastrato e
accomodato in un sistema garantito da patti costituzionali. I
nazionalismi etnici e religiosi, tutta la varietà di particolarismi
oggi sotto i nostri occhi, sono un risultato di questa
decomposizione, iniziata in una larga parte del mondo all’inizio
degli anni Novanta, quando le riforme neoliberiste hanno
codificato la crisi sistemica. Ecco perché anche le Costituzioni
devono essere “riformate”. Perché in quella guisa oggi non
servono più.
Laddove
si ha interesse a limitare o tenere sotto controllo la decomposizione
sociale occorre che si instauri uno stato autoritario, che
imponga un nuovo senso comune, che non può più far leva su
uno sviluppo esistente ma dovrà ricorrere alla mitologia di un
nuovo sviluppo legata alla realtà di una situazione di
guerra. Guerra con un nemico interno o esterno. È ciò che sta
succedendo negli Usa e nella UE.
Ma
altrove l’impero del caos cerca di utilizzare per i suoi fini ogni
forma di divisione, sociale, etnica, culturale, religiosa, per far
fallire compagini statali non asservibili. Che altro è il Piano per
il Medioriente del ministro
degli Esteri israeliano, Oded Yinon,
presentato nel 1982? Che
altro voleva dire il “take
out” di Iraq, Siria,
Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran, deciso dal Pentagono fin dal
2001 e rivelato
dal generale Wesley Clark?
A
questi Paesi si è aggiunta da un anno l’infelicissima Ucraina,
centro di snodo dell’Europa geografica e politica.
La
UE non ha nessuna intenzione di pagare la sopravvivenza dell’Ucraina,
e nemmeno gli Usa. L’insidioso Soros ha calcolato che servirebbero
50 miliardi di dollari all’anno. Ma gli alleati della junta
hanno pianificato solo 20 miliardi in tre anni. Aspettiamoci una
migrazione biblica da quel Paese, in parte verso la Russia e in parte
verso la UE. Una migrazione che porterà con sé rancori per il
nostro tradimento e la consapevolezza che li abbiamo usati come carne
da macello contro i Russi. Una migrazione che porterà nella UE anche
un gran numero di persone radicalizzate a destra, piene di rabbia e a
volte addestrate militarmente; una sorta di rientro di jihadisti.
Per
molti osservatori l’Ucraina è ormai uno Stato fallito. Obama è
entrato nell’usuale trip decisionale (armo la junta,
non armo la junta,
armo la junta).
Quella confusione e quella indecisione che gli sono state
rimproverate. L’ultima mossa è stata una rivendicazione della
paternità del regime
change, ammettendo pochi
giorni fa alla CNN che Washington “had
brokered a deal to transition power in Ucraine”.
Vuol dire che armerà veramente la junta
prima della fine dell’inverno, quando è verosimile un’offensiva
della NAF? O sta prendendo tempo nei confronti dei falchi, mentre
pensa che la strategia migliore sia lasciare l’Ucraina nel caos
imperiale, come immensa gatta da pelare per la UE e la Russia? Con il
rischio però che questa gatta da pelare invece che fonte di dissidio
diventi motivo per una riconciliazione tra Bruxelles e Mosca? Ma se
c’è riconciliazione, le probabilità di successo della
Transatlantic Trade and
Investment Partnership
(il Ttip) si riducono al
lumicino. E gli Usa si ritroverebbero potenti ma quasi isolati,
essendo a un punto morto anche le trattative per la parallela
Trans-Pacific
Partnership (Tpp).
Sono
eventualità che Obama non può controllare e che impensieriscono i
falchi.
Ed
è possibile un’escalation in Ucraina e una de-escalation
in Medioriente? C’è da dubitarne.
Putin
per ora non ha sbagliato una mossa. Ha usato le sanzioni per rendere
autonoma la Russia in molti settori e ha stretto un numero
straordinario di accordi economici e finanziari coi sei settimi di
umanità che circondano l’Occidente in crisi (senza contare che
lo stesso interscambio tra Usa e Russia è aumentato del 7% da quando
sono iniziate le sanzioni). È riuscito a non far coinvolgere il suo
Paese nel conflitto e a riprendersi la Crimea senza colpo ferire. Ma
nonostante la sua accortezza e pazienza, la crisi ucraina potrà
finire solo con tre scenari: a) una provocazione diretta contro la
Russia con suo inevitabile coinvolgimento nel conflitto; b)
un’Ucraina a pezzi e al collasso, abbandonata dall’Occidente
e lasciata come problema alla sfera d’influenza della Russia e -
nelle intenzioni, ma non è detto - come causa di perenne discordia
con l’Europa; c) una negoziazione seria tra Russia e UE con
all’ordine del giorno la denazificazione dell’Ucraina, la
sua neutralità e la ricostruzione del Paese.
Per
ora l’unica mossa consentita alla UE dal suo padrino d’oltre
Atlantico è stata l’estensione di sanzioni talmente
imbarazzanti e controproducenti che vengono proclamate a gran voce ma
la cui precisa definizione viene rimandata nella speranza che succeda
qualcosa.
L’Europanel 2015
Le
nuovi sanzioni, se saranno prese, non hanno nessuna possibilità di
danneggiare la Russia. Ma sono un pesante segnale di subordinazione
alla logica della contrapposizione. Segnali che costano morti.
Tuttavia
sembra che la diplomazia della Grecia di Syriza abbia giocato
un ruolo importante nel frenare la UE da decisioni affrettate e
troppo pesanti riguardo Mosca. Io non sono un tifoso tripudiante di
Syriza, ma prendo le distanze da una sinistra italiana che,
dimenticandosi di essere la più incapace d’Europa, si è lanciata
in una sequenza di critiche massimaliste e puriste al nuovo governo
greco, senza nemmeno dargli il tempo di insediarsi e orientarsi nel
potere. Vedo anch’io alcuni segnali preoccupanti ma credo che sia
d’obbligo non affrettarsi nel giudizio.
Secondo
molti puri e duri, il governo greco in due giorni avrebbe dovuto: a)
proclamare il default, b) uscire dall’Euro, c) uscire dalla Nato,
d) opporsi con un veto alle nuove sanzioni contro la Russia.
L’unica
maniera che il nuovo governo greco avrebbe per fare queste cose
dall’oggi al domani senza un contraccolpo catastrofico passa
attraverso una militarizzazione della società, previa sostituzione
di tutte le linee di comando dei militari greci (che hanno espresso i
famigerati “colonnelli” negli anni Sessanta-Settanta) a sostegno
di una mobilitazione di massa continua.
La
nostra sinistra, maestra delle concettualizzazioni pure e dure, ha da
tempo perso di vista la realtà materiale, sperduta così com’è
nel concetto e nei modelli. Si dimentica ad esempio che la Grecia ha
11 milioni di abitanti, non 1.100 milioni. Non ha la bomba atomica ma
un esercito striminzito di meno di 90.000 uomini. Ha meno di 132.000
kmq e non 9 milioni. Dove va con la Dracma un Paese così? Qual è la
potenza politica, militare, economica e finanziaria che starebbe
dietro alla nuova Dracma, che la sosterrebbe in una crisi sistemica
teatro di battaglia di contendenti colossali? Una Dracma non
ereditata dalla storia e quindi inserita in qualche modo nei giochi
finanziari ed economici attuali, ma nata da una rottura con l’Europa,
con la Nato e con gli Stati Uniti?
Non
è lecita la prudenza? Non è lecito sondare il terreno,
cercarsi prima degli alleati sicuri e con la possibilità di
intervenire? È difficile ricordarsi cosa succedeva ai Paesi in odore
di defezione durante la Guerra Fredda? Ci siamo già scordati di
Gladio? Ci siamo già scordati delle bombe in Italia per dieci anni
consecutivi? Ci siamo scordati, per l’appunto, dei Colonnelli
greci? E la guerra allora era fredda mentre oggi è già molto
calda. E la crisi sistemica era agli inizi, non era arrivata ai
livelli di oggi che non lasciano più molto spazio di manovra.
È
vero, ripeto, ci sono indizi preoccupanti su come si muoverà Syriza.
Ma per ora sono solo indizi, non prove. Alla fine dell’anno ci
saranno le elezioni spagnole. Ma già da prima, con la semplice
prospettiva di una vittoria di Podemos, l’Unione Europea
dovrà fare parecchi conti. Senza parlare delle elezioni britanniche
in maggio che potrebbero dare molto fiato alle posizioni cosiddette
“euroscettiche”. E spero che non si obietti l’ovvietà che
l’Ukip non è di sinistra. Il quadro sta cambiando. Potrebbe non
essere un cambiamento sufficiente, ma un cambiamento è in atto.
Non
per nulla la Bce cerca di arrivare a più miti consigli, e vara in
barba a una quasi impotente Germania il quantitative easing
(QE) di Mario Draghi. Ovviamente, come vedremo, non è l’unico
motivo per cui lo fa. E inoltre bisogna vedere i vincoli e le
costrizioni a cui la Germania cercherà di sottoporre la decisione di
Draghi. Ad esempio il QE potrebbe venire incontro alla Grecia.
Sarebbe la cosa più naturale. Ma potrebbe anche essere usato in modo
discriminatorio per ricattare ancora di più Tsipras. Le recentissime
dichiarazioni di Mario Draghi sembrano accreditare
quest’ultima ipotesi. Ma attenzione alle apparenze. Attenzione alle
declamazioni. Attenzione allo spettacolo che avviene sul
palcoscenico, perché è più importante il backstage. Attenzione a
non urlare “al lupo! al lupo!” prima di controllare se il lupo è
alla catena.
Ad
ogni modo c’è chi dice che è tardi per il QE e chi dice
che è insufficiente. La realtà è che comunque vada servirà solo
come lenitivo per guadagnare un attimo di respiro e avrà come
effetto netto finale l’inasprimento della crisi. A meno che non
si riconsideri tutta la costruzione europea e il nostro “modello di
sviluppo” (termine che non amo) fin dalle radici.
La
crisi finanziaria nel 2015
Con
molta probabilità il 2015 sarà infatti anche l’anno della nuova
crisi finanziaria. Non possiamo dire molto sul futuro dell’Europa
se non vediamo più da vicino questo punto.
La
prossima crisi finanziaria sarà peggiore di quelle precedenti per il
semplice motivo che tipicamente nel tentativo di superare una crisi
si creano effetti che vanno a ingigantire esponenzialmente la
crisi successiva, e così via.
È
impressionante constatare sui grafici come dal 2000 il prezzo
dell’oro fisico sia cresciuto nella stessa ragione della sua
crescita dopo il Nixon
shock, cioè dopo
l’inizio della crisi sistemica attuale. Solamente negli ultimi tre
anni si è abbassato grazie alle manovre
sull’oro cartaceo (futures)
tese a sostenere il corso del Dollaro.
Cosa
che - classico effetto inintenzionale - ha consentito alla Cina
e alla Russia di acquistare quantità straordinarie di oro
fisico in vista della prossima crisi finanziaria globale e della
progressiva sostituzione del Dollaro nel commercio mondiale.
Poco
da stupirsi se “Holt unser Gold heim!”, rimpatriamo il
nostro oro, sia da tempo un motto molto popolare in Germania. Non si
sa mai, meglio far ritornare alla base le 2.400 tonnellate d’oro
depositate negli Usa e in altri Paesi, in particolare in Inghilterra
e Francia. Ma i tedeschi quell’oro non lo avranno mai indietro.
Gli Stati Uniti praticamente non hanno più un’oncia di quel
metallo e i pochissimi lingotti che hanno restituito alla Germania
erano probabilmente quelli rubati alla Libia, un furto che è costato
qualche decina di migliaia di morti. Farne sparire le origini è
infatti una delle più plausibili spiegazioni che sono state date
all’inspiegabile fatto che i lingotti sono stati rifusi dalla
Bundesbank. Ad ogni modo, con una media di 78 tonnellate all’anno,
stando alle dichiarazioni della stessa BuBa, la Germania dovrà
attendere 30 anni per rivedere tutto il suo malloppo. Ma tutti sanno
che sarà un’attesa vana. A partire dalla BuBa, che infatti aveva
inizialmente chiesto indietro solo 300 delle 1.500 tonnellate
depositate a New York e si era preoccupata poco del ritmo lentissimo
di rientro, fino a dichiarare che in fin dei conti l’oro tedesco
stava benissimo anche negli Usa. Per poi ricredersi per le pressioni
di un agguerrito comitato e probabilmente per i nuovi calcoli
economici, finanziari e politici che si sono fatti.
Un
analogo problema lo stanno sperimentando Belgio e Olanda, gli unici
in Europa che abbiano iniziato un piano di rimpatrio dell’oro.
L’Italia, che ufficialmente possiede la terza riserva del mondo,
cosa aspetta? Non vuole irritare la Fed o ha stabilito che tanto è
fiato sprecato? Qualcuno si sta chiedendo perché i Paesi europei di
“area tedesca” stiano cercando di rimpatriare il loro oro?
Qualcuno si è chiesto perché Russia e Cina lo accumulino a ritmi
mai visti prima nella storia?
Facciamoci
allora un’altra domanda: il QE di Mario Draghi seguirà la stessa
sorte del QE di ShinzoAbe (o più precisamente del QQE,
perché il Governatore Kuroda-san pretende che sia anche
“qualitative” oltre che quantitative - non per
nulla son giapponesi)?
La
domanda da porsi è se il QE, o QQE, europeo sia, parimenti a quello
asiatico, un tentativo di aumentare l’inflazione nella speranza di
rilanciare l’economia reale. È una domanda importante perché in
Giappone, come si sa, non ha funzionato. Il reddito delle famiglie è
sceso del 6% e il Pil del 7%. In compenso si sono formatebolle speculative più grandi di quelle già rovinose del
“decennio perso” dell’economia nipponica. Un periodo nero,
voglio ricordare, innescato dal Plaza Accord del 1985 che di
fatto è da considerare come il canto del cigno del potere di
lobbying dell’economia reale statunitense prima della
finanziarizzazione selvaggia iniziata alla fine degli anni Ottanta e
consacrata nel 1995 da un accordo opposto chiamato, infatti, Reverse
Plaza Accord (gli accordi del 1985 non erano altro che
l’imposizione forzata da parte degli Usa della rivalutazione dello
Yen - che viene però incensato da qualcuno in quanto esempio di
“moneta indipendente”).
Un
effetto sicuro della Abenomics è stato quello di indebolire
lo Yen senza per altro riuscire a ridurre l’enorme debito pubblico,
240% del Pil. In altre parole il Giappone è come un’enorme Grecia,
col vantaggio formale di avere una moneta e una banca centrale
indipendenti e quello sostanziale di essere la terza economia del
mondo, quindi too big to fail, e, soprattutto, di essere
geopoliticamente strategico per gli Usa.
Ciò
nonostante, più di un analista non esclude un futuro default del
debito sovrano e un collasso dell’economia del Sol Levante.
L’Europa
sta per diventare il Giappone occidentale?
Il
QE europeo è un aiuto agli Usa per bilanciare il famoso tapering
della Fed, che stenta ad essere implementato, dopo trilioni di
dollari stampati e messi in circolazione? Trilioni che non
hanno sortito sull’economia reale un grande effetto, se sono
veri i dati di una caduta a picco dei prezzi dei beni industriali
negli Usa, cosa che farebbe direttamente a pugni col +5% di Pil
sbandierato da Obama.
La
realtà è che questi trilioni, come vedremo, hanno gonfiatonuove bolle speculative.
Analisti
di lungo corso operanti quotidianamente sui mercati, suggeriscono di
sostituire il termine “Teoria monetaria” con “Bubbleology”,
scienza delle bolle monetarie. La loro analisi della crisi
solitamente non va molto indietro al 2008, anno dello scoppio della
bolla immobiliare (d’altronde da noi non si va quasi mai indietro
al 2000, anno dell’Euro), tuttavia sono persone concrete, poco
avvezze alla (inconsistente) teoria ma spaventate dalla (consistente)
pratica. E quindi il suggerimento è molto pertinente.
La
Cina dal canto suo ha deciso di utilizzare lo stesso antidoto
per contrastare l’indebolimento della propria economia. E quindi
non c’è da stupirsi che lo stesso effetto sia stato raggiunto: una
bolla borsistica. Per loro fortuna la bolla è scoppiata
abbastanza alla svelta. Forse perché sono cattivi “comunisti” e
hanno un governo centrale molto occhiuto. Ad ogni modo, dato che
l’Impero di Mezzo ha i migliori “fondamentali” economici del
mondo, la vicenda cinese è una riprova di quanto stiamo dicendo:
quando la crescita della base monetaria e degli strumenti creditizi
diventa non una leva per la crescita dell’economia reale ma il
sostituto di questa crescita, le bolle speculative sono
inevitabili.
La
discesa a picco del prezzo del petrolio ha solo parzialmente
danneggiato l’economia del babau russo, ma avrà invece effetti
molto brutti in Occidente. È fantastico che fino a ieri il prezzo
crescente del petrolio fosse visto come il peggior incubo - tanto che
una delle giustificazioni dell’Euro era che costituiva uno scudo
rispetto alla crescita dei prezzi dell’energia - e oggi ci dicono
invece che è tutto il contrario. Come mai? Schizofrenia?
Il
fatto è che il prezzo alto del barile era un problema per l’economia
reale. Ma il prezzo basso è un grossissimo problema per un’economia
finanziarizzata. Solo per fare un esempio, si prenda il Canada, dove
l’enorme bolla immobiliare (più grande di quella statunitense del
2008, secondo gli esperti) rischia di scoppiare dato che non è più
sostenuta dall’alto prezzo del petrolio. Ed è solo un esempio.
Di
tipo peculiare sono poi le sofferenze per il circuito “mercato
delle armi-mercato del petrolio”, col risultato che uno dei pochi
settori dell’economia reale che ancora tira, quello (orrendo) della
produzione di armamenti, rischia una forte riduzione.
La
situazione in Canada è un esempio di come l’economia
finanziarizzata e quella reale, non solo divergano in misura
geometrica, ma abbiano anche logiche contrastanti.
Per
quale motivo Renzi e Padoan hanno deciso di rendere scalabili le
Banche Popolari? Per quale motivo stanno stravolgendo
la natura e la missione della Cassa Depositi e Prestiti? Perché
hanno deciso di svendere quei pochi istituti finanziari che ancora
avevano legami con l’economia reale e coi cittadini? Perché
vogliono privatizzare quel mondo e quell’altro? C’è un unico
vero motivo, al di là dei side-effect: per fornire alle
fauci insaziabili della finanza un po’ di carne fresca e rimandarne
per qualche tempo il suo collasso. Perché il nostro debito
pubblico aumenta nonostante un’austerity feroce, se non,
essenzialmente, per la trasformazione delle sofferenze finanziarie
private in sofferenze pubbliche?
E
allora ci si domanderà: perché di quell’enorme flusso di soldi
generato finora negli Usa e in Europa, solo miseri rivoli sono
arrivati all’economia reale, e la stessa cosa è destinata a
ripetersi col QE europeo?
Esiste
una risposta sbagliata e una risposta giusta.
La
risposta più semplice è nota ed è divulgata sia a destra sia a
sinistra: è in atto da tempo un complotto dei banchieri
massonico-giudaici. Questa è la risposta sbagliata! I banchieri e i
finanzieri, che siano framassoni o non lo siano, che siano ebrei o
gentili, sono solo agenti (non innocenti) di un fenomeno più
generale e oggettivo.
La
risposta giusta, infatti, è che imprestare soldi a una economia
reale che non produce sufficienti profitti o non ne produce affatto,
equivale a un prestito a fondo perduto. I soldi vanno solo dove se
ne producono altri e in Occidente questo luogo da decenni è la
finanza speculativa. E se il denaro prodotto dal denaro è carta
straccia tanto quello prestato lo si vedrà solo se qualcuno non ne
riconosce più il valore. Chi minaccia di farlo è, ovviamente,
passibile di eliminazione fisica. Lo potranno fare, quando lo
riterranno conveniente, solo in pochi, bene armati: la Cina, la
Russia, forse l’India. Succederà nel 2015? Sarà una catastrofe o
sono ancora possibili sgonfiamenti pilotati delle bolle? Chi ne farà
le spese?
L’impero
nel 2015
Ecco
allora l’importanza centrale dei giochi geopolitici di alleanza e
di conflitto nella crisi sistemica. Gli Usa sanno benissimo che il
bluff finanziario smetterà di reggere quando esso metterà
seriamente a repentaglio lo sviluppo cinese e quello russo, oltre a
quello dei loro alleati di fatto o di diritto. Questo bluff serve a
mantenere l’egemonia planetaria statunitense sul mondo e, di
converso, l’egemonia serve a sostenere il bluff. Per gli Usa è
vitale, a meno di riformare la propria società fin dalle radici.
Cosa che nemmeno il più audace dei candidati alla Casa Bianca
oserebbe mettere nel suo programma: per cose infinitamente più
timide, l’esclusione a priori dalla corsa presidenziale è certa e
l’eliminazione fisica quasi.
Allora
occorre indebolire i competitor. Si suscitano così “primavere”
sulla sponda Sud del Mediterraneo per escludere da quei paesi la
Russia e la Cina e contemporaneamente creare un cordone sanitario
rivolto all’Europa, per scongiurare ipotesi di politiche
indipendenti del Vecchio Continente; e per completare l’opera, dopo
aver capito che un attacco diretto in Medioriente era troppo
rischioso, si è consentito che un esercito di decapitatori,
lapidatori e tagliagole dilagasse nella Mezzaluna Fertile. Poi ci si
rivolge all’Europa e si scatena un golpe nazista a Kiev con tanto
di minaccia di pulizia etnica degli ucraini russofoni, per suscitare
la prevista reazione della Russia, sanzionarla, aprire un fronte
orientale di guerra anche in Europa e stringere così a coorte il
Vecchio Continente, per metà imbelle e per metà comprato.
Ma
gli effetti sono spesso inintenzionali. Russia e Cina cementano
un’alleanza inimmaginabile fino a qualche anno prima, che
riguarda infrastrutture, energia, armamenti, cibo, tecnologia.
L’India tiene i piedi in due staffe e rifiuta di sbilanciarsi
verso gli Usa.
Il
Dollaro, che gli Usa vogliono strenuamente difendere, si trova così
sempre più alla mercé dei grandi competitor, specialmente della
Cina. Se gli Stati Uniti non riescono a imbrigliare l’economia
cinese in una nuova mondializzazione, innanzitutto finanziaria,
l’affondamento del Dollaro può essere solo questione di tempo e di
scelta politica. In sole due mosse: 1) vendita degli immensi asset
finanziari denominati in dollari posseduti dalla Cina, 2) vendita dei
dollari guadagnati con la prima vendita. In pochi minuti, anni di
Quantitative Easing
verrebbero vanificati (si veda quanto
ha scritto in proposito l'ex sottosegretario al Tesoro di Reagan,
Paul Craig Roberts). Questa sarebbe la mossa
finanziaria, quella
cinese. Dal canto suo la Russia potrebbe attuare la mossa
energetica, tagliando gas
e petrolio all’Europa Occidentale.
Sarebbero
mosse rischiosissime, è più che evidente, ma potrebbero essere
obbligate in assenza di negoziazioni serie e globali sul disarmo,
l’economia e la finanza. E quindi, in definitiva, sul Potere.
L’alternativa per Cina e Russia è attendere nella speranza che
Washington non lanci un attacco nucleare. Una speranza e un’attesa
che rischiano seriamente di essere vane, perché tutte le mosse
intermedie degli Stati Uniti hanno mostrato ritorni progressivamente
decrescenti ed effetti inintenzionali disastrosi. E le mosse rimaste
sono poche e verosimilmente non migliori di quelle precedenti.
Come
conseguenza, la forza di attrazione degli Usa e dell’Occidente
scema senza soste, mentre quella del nuovo asse euroasiatico aumenta
allo stesso ritmo.
La
guerra e la pace nel 2015
Dato
questo quadro, si capisce perché l’hard power statunitense
accusi
Obama di avere una strategia confusa e proponga invece un uso
diretto e massiccio della forza militare. Un uso, però,
rischiosissimo, perché di fronte ci sono potenze che a detta di Paul
Craig Roberts, possono singolarmente far polpette degli Usa. Roberts
non afferma ciò per perorare un massiccio riarmo statunitense. Al
contrario, quel che vuole è un ridimensionamento della potenza degli
Usa e la loro accettazione di negoziati globali. Cioè il
riconoscimento che l’epoca dell’egemonia incontrastata degli Usa
sta tramontando. Un processo testimoniato dal fatto che dall’inizio
del millennio gli Stati Uniti sono permanentemente in guerra con
quasi tutto il mondo.
Con
gli Usa presi in mezzo a queste contraddizioni, si capisce perché il
boccino del QE, che anche in Europa non potrà mai essere un QQE, sia
ora passato all'Unione Europea.
Nell’ambito
di questa nuova politica monetaria espansiva è verosimile un
allentamento dell’austerity e l’accomodamento di parte delle
esigenze dei PIIGS, a partire dalla Grecia (a meno di un’impuntatura
da parte della Merkel per far saltare tutto e uscire dall’Euro
dando la colpa agli altri). Anzi, i PIIGS potrebbero diventare i
migliori alleati di questa novella politica Fed-Bce che
soppianterebbe quella della Troika.
Cosa
ciò possa significare per il futuro dell’Euro e della UE non è
facile da capire. Innanzitutto perché nonostante le apparenze sarà
più una scelta politica che non economica. In secondo luogo perché
nel corso del processo potrebbero prendere forza dinamiche più
radicali dovute alla crescente paura per l’aggressiva politica
imperiale e all’insoddisfacente recupero economico e sociale (se la
fonte finanziaria all’origine è più copiosa, il rivolo che
arriverà all’economia reale sarà più grande, ma sarà sempre un
rivolo). Non solo. È da escludere un effetto uniforme nel tempo,
nelle regioni europee e in tutti i settori dell’economia europea.
Gli effetti saranno a macchia di leopardo sia nel tempo che nello
spazio.
Anche
i quattro QE statunitensi hanno generato effetti contrastanti. Ad
esempio dopo i primi due c’è stato un ribasso della Borsa, ma dopo
il terzo e il quarto un rialzo. L’effetto netto comunque è stato
l’indebolimento del Dollaro e l’approfondimento della frattura
del mercato internazionale.
L’annuncio
del QE europeo ha già provocato la nota reazione della Banca
Nazionale Svizzera, una reazione che alla Borsa di Zurigo è costata
100 miliardi di franchi. Certo, l’Euro indebolito sta facendo
tirare un po’ il fiato agli esportatori, ma in un mercato
mondiale diviso in due, quanto lunga sarà questa boccata d’aria?
Certo, se il Ttip verrà firmato i grandissimi esportatori ne avranno
notevoli guadagni, ma per il resto della società si tratterà di
raschiare il fondo del barile a prezzi altissimi in termini di
democrazia, diritti, salute e ambiente.
Tuttavia
il problema centrale rimane l’accumulo mostruoso di capitale
fittizio rispetto alle possibilità dell’economia reale. Un
accumulo che come il famoso tirannosauro di Jurassic Park si
avventa su tutto ciò che si muove nell’economia reale e,
soprattutto, si configura come il più grande problema economico
della nostra epoca.
Ci
sono troppi capitali accumulati per un singolo mondo. Figurarsi
per un mondo diviso in due. E “troppi” significa che questi
capitali rischiano di essere considerati per quel che sono, cioè
carta straccia. Quadrilioni di potere, ovvero di possibilità
di mobilitare risorse, che diventano improvvisamente carta straccia.
Questo è l’incubo. Il loro incubo. Capitali in forte
“esubero” possiamo dire. Milioni di miliardi pronti per essere
macellati. E non è solo un problema occidentale. È un problema
dell’accumulazione di capitale, anche se oggi è principalmente un
problema storico dell’Occidente.
Non
c’è quindi da stupirsi che qualcuno in Occidente pensi che la
guerra sia la sola igiene del mondo. D’altra parte, non ha mica
tutti i torti: senza più il mondo ogni vincolo materiale scompare e
di conseguenza i problemi. L’apogeo dell’economia virtuale.
Che significa e come si è svolta l’oscura uscita di scena di Osama bin Laden? Che fine ha fatto Al-Qa’ida, ed è mai stata come ci hanno raccontato? Chi sta andando al potere in Egitto e altrove, dopo le primavere arabe, e in che modo gli Stati Uniti tentano di controllare la riorganizzazione del potere? Chi sono i cirenaici a sostegno dei quali gli USA e noialtri abbiamo deciso di far guerra a Gheddafi? Eroici difensori della libertà o i complici di turno dell’impero? Che svolgimento avranno i tesissimi rapporti con Iran e Siria? In che modo la crisi dei Paesi europei più deboli è legata alla guerra euro-dollaro? E che cosa stanno tentando di fare gli Stati Uniti, segretamente o meno, per controbilanciare la rapidissima ascesa cinese?
Tante questioni che i nostri media lasciano irrisolte, trovano qui, grazie alla penna acuminata di Giulietto Chiesa e Pino Cabras, una luce nuova. Se non rasserenante, almeno molto chiara: sullo sfondo di una guerra globale per il momento a (relativamente) bassa intensità, il ruolo degli Stati Uniti di Obama – oramai non diverso dai predecessori, e in fondo espressione più correct degli stessi interessi reali – è quello di un impero al declino, gravato dall’immenso debito, dallo svuotamento della democrazia e dalla feroce concorrenza internazionale, che tuttavia dovrà vender cara la pelle. Il più cara possibile: e a pagare potremmo essere tutti noi
Chi cura questo blog
Pino Cabras (1968) è laureato in Scienze Politiche e lavora in una finanziaria d’investimento, per la quale ha curato diversi programmi negli Stati Uniti e in Asia. Ha pubblicato "Balducci e Berlinguer, il principio della speranza" (La Zisa, 1995), "Strategie per una guerra mondiale" (Aìsara, 2008); con Giulietto Chiesa ha pubblicato "Barack Obush (2011), uscito nel 2012 in edizione russa con il titolo «Глобальная матрица» (Global'naja Matrica). E' condirettore del sito www.megachip.info e co-fondatore della webTv PandoraTv.it.
Pino Cabras
Complotti e complottismi
dal libro "Strategie per una guerra mondiale":
Se volete mettere in cattiva luce qualcuno che scrive o parla scostandosi dalla corrente principale delle spiegazioni di certi grandi fatti, bollatelo come ‘teorico della cospirazione’, o ‘complottista’. È uno stigma molto comodo, un potente silenziatore, una densa notte che cala su tutte le vacche e le fa tutte nere... [leggi tutto]
DIETRO GLI ESPERTI MILITARI IN TV, IL PENTAGONO MUOVE I FILI Versione italiana di un'inchiesta di David Barstow comparsa su «The New York Times» il 20 aprile 2008: [LEGGI QUI]
Sul giornalismo
"Periodismo es difundir aquello que alguien no quiere que se sepa, el resto es propaganda".
Giornalismo è diffondere quel che qualcuno non vuole che si sappia, il resto è propaganda.
(Horacio Verbitsky)