25 aprile 2014

I re dormienti d'Europa

di Barbara Spinelli.


Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera – né sulle proprie marche di confine a Est o nel Mediterraneo, né sull’alleanza con gli Stati Uniti, né sulla democrazia che intendono rappresentare – i governi europei s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti, lo sguardo svogliato, le idee sparpagliate e soprattutto incostanti. Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro.
L’ossessione è fare affari, e dei mercati continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano.
S’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria, dominata da una superpotenza che è in declino e che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda.

Sono anni che gli Europei dormono, ignari di un mondo che attorno a loro muta.
Non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti, pronti a unirsi per dire quello che vogliono fare. A volte alzano la voce per difendere posizioni autonome, ma la voce presto scema, s’insabbia.

Lo si vede in Ucraina: marca di confine incandescente sia per l’Unione, sia per la Russia.
Lo si vede nel negoziato euro-americano che darà vita a un patto economico destinato ad affiancare quello militare: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip).
Lo si vede nella battaglia indolente, e infruttuosa, contro i piani di sorveglianza dell’Agenzia Usa per la sicurezza nazionale (Nsa), disvelati da Edward Snowden nel 2013. Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte.

Le sta fallendo in Ucraina, perché l’Europa non ha ancora ripensato i rapporti con la Russia. Non sa nulla di quel che si muove e bolle in quel mondo enorme e opaco. Non sa valutare le paure e gli interessi moscoviti, né i pericoli della riaccesa volontà di potenza che Putin incarna. Non capisce come mai Putin sia popolare in patria, e anche in tante regioni ex sovietiche che appartengono ormai a altri Stati e includono vaste e declassate comunità russe. Non sapendo parlare con Mosca, gli Europei lasciano che siano gli Stati Uniti, ancora una volta, a fronteggiare il caos inasprendolo. È Washington a promettere garanzie al governo ucraino, a diffidare Mosca da annessioni, ad allarmarla minacciando di spostare il perimetro Nato a est.
L’Europa sta a guardare, persuasa che bastino i piani di austerità proposti da Fondo Monetario e Commissione europea, se Kiev entrerà nella sua orbita. Questo è infatti lo scettro, l’unico che l’Unione sappia oggi impugnare: non una politica estera, ma un ricettario economico liberista misto a formule moraleggianti sul debito, scrive lo storico russo Dmitri Trenin che dirige a Mosca il Carnegie Endowment for International Peace. Quasi che il dramma degli Stati fallimentari, nel mondo, fosse soltanto finanziario.
La risposta politica a tali fallimenti è affidata a Obama, e per forza gli sbagli commessi dagli Europei si ripetono (basti ricordare l’errore madornale di Kohl, quando disse negli anni ‘90 che la Slovenia "meritava l’indipendenza", essendo "etnicamente omogenea").
Depoliticizzata, l’Europa subisce il ritorno anacronistico del duopolio russo-americano. È Washington a decidere se Kiev debba essere il nuovo scudo orientale della Nato, nonostante il popolo ucraino preferisca evidentemente la neutralità. Per quasi mezzo secolo l’avamposto fu la Germania Ovest, poi sostituita dalla Polonia: ora Varsavia spera che al proprio posto s’erga un’Ucraina occidentalizzata d’imperio, frantumabile come lo fu la Jugoslavia.  Mosca chiede che il paese diventi una Federazione, anziché un agglomerato babelico di risentimenti nazionalisti. Strano che non sia l’Europa, con le sue esperienze, a domandarlo.

La seconda prova è il patto commerciale con gli Usa: una trattativa colma di agguati, perché molte conquiste normative dell’Europa rischiano d’esser spazzate via. Non a caso le multinazionali negoziano in segreto, lontano da controlli democratici.
Sono sotto attacco leggi sedimentate, diritti per cui l’Unione s’è battuta per decenni: tra questi il diritto alla salute, la cura dell’ambiente, le multe a imprese inquinanti. I sistemi sanitari saranno aperti al libero mercato, che sulle esigenze sociali farà prevalere il profitto. Emblematico: l’assalto delle grandi case farmaceutiche ai medicinali generici low cost.
Sono in pericolo anche tasse cui l’Europa pare tenere, sia per aumentare il magro bilancio comune sia per frenare operazioni speculative e degrado climatico: la tassa sulle transazioni finanziarie, e sulle emissioni di anidride carbonica. Una controffensiva UE contro il trattato commerciale ancora non c’è. Nell’incontro a Roma con Obama, Renzi ha auspicato l’accelerazione del negoziato senza chiedere alcunché, né per noi né per l’Europa.
Numerose mezze verità circolano sul patto. Alcuni assicurano che quando sarà pienamente in funzione, nel 2027, il reddito degli europei crescerà sensibilmente (545 euro all’anno per una famiglia di quattro persone), con un beneficio di 120 miliardi annui per l’Unione e di 95 per gli Usa. Altri calcoli sono meno ottimisti. L’istituto Prometeia, pur favorevole all’accordo, sostiene che i guadagni non supererebbero lo 0,5% di Pil in caso di liberalizzazione totale. L’istituto austriaco Öfse (Ricerca per lo sviluppo internazionale) prevede addirittura un aumento dei disoccupati nel periodo di transizione, a causa della riorganizzazione dei mercati di lavoro imposta dal Partenariato. Non meno grave: le controversie commerciali si risolverebbero non attraverso giudizi in tribunali ordinari, ma in speciali corti extraterritoriali.
Saranno le multinazionali a trascinare in giudizio governi, aziende, servizi pubblici ritenuti non competitivi, e a esigere compensazioni per i mancati guadagni dovuti a diritti del lavoro troppo vincolanti, a leggi ambientali o costituzionali troppo severe.
Tutto questo in nome della "semplificazione burocratica": parola d’ordine che Renzi predilige, virtuosa e al tempo stesso insidiosa. Nel contesto del Partenariato transatlantico, semplificare vuol dire abbattere le cosiddette "barriere non tariffarie", un termine criptico che indica parametri europei faticosamente elaborati: regole sanitarie a tutela della salute, canoni di sicurezza delle automobili, procedure di approvazione dei farmaci, e molto altro ancora.

Non per ultimo, la terza prova: il caso Snowden, l’informatico dei servizi Usa che portò alla luce un sistema di sorveglianza tentacolare, predisposto dai servizi americani con la scusa di prevenire attentati terroristici. Grazie a Snowden si è saputo che erano intercettati perfino i cellulari di leader europei (tra cui Angela Merkel), non si sa per quali ragioni di sicurezza. I governi dell’Unione hanno protestato, ma ciascuno per conto suo e sempre più flebilmente. In un messaggio al Parlamento europeo, il 7 marzo, Snowden ha ironizzato sulle sovranità presunte dei singoli Stati, spiegando come sia assurdo il compiacimento di governi che immaginano di poter fermare il Datagate senza mobilitare l’Unione intera.
La vicenda Snowden è anche questione di civiltà democratica. L’esistenza di smascheratori di misfatti - non spie ma whistleblower, denunziatori di reati commessi dalla propria organizzazione - potenzia la democrazia. È un bruttissimo segno e paradossale che i giornalisti implicati nel Datagate a fianco di Snowden abbiano ricevuto il Premio Pulitzer (uno schiaffo per Obama), e che lui stesso, il soffiatore di fischietto, abbia trovato riparo non in un’Europa che promette nella sua Carta la "libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera", ma nella Russia di Putin

Fonte: la Repubblica, 23 aprile 2014.
Tratto da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-re-dormienti-deuropa/?printpage=undefined.
Ripreso da: http://megachip.globalist.it/Secure/Detail_News_Display?ID=102248&typeb=0.


22 aprile 2014

Il mondo scopre Piketty, l'economista superstar


di Marc Tracy.

Mercoledì sera, nell'ascensore che portava giù all'auditorium da 400 posti presso la City University del New York Graduate Center, un uomo di mezza età che sembrava un economista si vantava così con una coppia di persone di mezza età che sembravano economisti: «io in realtà ho visto per la prima volta Piketty già nel 2001. Un posticino al Village. Suonava "Capitalismo Patrimoniale", versione acustica, e Emmanuel Saez è uscito per il bis».
Sto scherzando, naturalmente. Ma non si può evitare di essere presi alla sprovvista nel vedere quale accoglienza da rockstar abbia ricevuto Thomas Piketty, un economista francese, da quando il suo libro "Il Capitale nel XXI secolo" è stato pubblicato nella sua traduzione in inglese il mese scorso.
Se il mondo dei giornali e riviste di centro-sinistra fosse una stanza, non si potrebbero far oscillare le braccia lì dentro senza urtare una recensione del libro di Piketty (quasi certamente positiva).
Paul Krugman sulla New York Review of Books e nella sua rubrica.
Matthew Yglesias su Vox ("Puoi darmi il ragionamento di Piketty in quattro punti chiave?").
The Nation gli ha dedicato la copertina e quasi 10.000 parole.
Martin Wolf - il Paul Krugman britannico (a meno che Krugman non sia il Martin Wolf americano) - ha appena detto anche lui la sua sulle colonne del Financial Times.
Anche la destra non ha potuto scansarlo del tutto.
Il libro di Piketty si guadagna il suo grandioso titolo con il confluire, tutta in una volta, di un'intera generazione: utilizza risme di dati nuovi di zecca per raccontare la storia più convincente a disposizione sul problema sociale e politico già ora al primo punto dell'ordine del giorno, cioè la disuguaglianza economica.
E così l'evento di ieri sera al CUNY dava la sensazione della tappa clou di una sorta di vorticosa grande tournée del Nord America (Piketty ha 11 tappe in tre città questa settimana)
«Questo sembra essere il posto giusto dove stare!», è quel che l'economista in ascensore effettivamente ha detto ai due economisti in ascensore.
Chase Robinson, presidente ad interim del Graduate Center, analogamente ha detto nel suo discorso di apertura: «mi hanno detto che è il biglietto più figo in città» La sala non era proprio al pieno, anche se è stato dichiarato il tutto esaurito. A giudicare da Twitter, c'è stato un uso estensivo del live-stream, tra cui una gara di bevute interrotta presso gli uffici di The Nation.
Il sottotesto dell'evento avrebbe potuto essere quello di una generazione - i tre interlocutori principali e, direi, la maggior parte del pubblico era composta da Baby Boomers - messa di fronte ai propri errori da parte di un uomo più giovane. Piketty ha solo 42 anni. «Alcuni di noi si sono laureati in un periodo particolare di questa curva, quando le cose sembravano andare benissimo», ha osservato l'economista della Columbia Joseph Stiglitz, «e ciò ci ha dato una visione particolarmente distorta del mondo».
A loro la serata ha fornito una opportunità di riscatto, non solo nella forma del riconoscimento della precedente «visione distorta del mondo», ma anche per proporre i criteri per far sì che il mondo torni indietro al modo in cui pensavano che fosse.
Per i più giovani spettatori, nel frattempo, la serata risultava ancora più importante: se non otteniamo che il mondo torni a quel modo, in tal caso, suggerisce il libro di Piketty, la disuguaglianza dilagante - che è già diventata un fattore fondamentale nella vita americana - potrà solo peggiorare.
Piketty, che appare persino più giovane dei suoi anni, e indossa un abito grigio e una camicia bianca con colletto parzialmente aperto - un look che forse richiama il suo connazionale Bernard-Henri Lévy - ha iniziato con un breve riepilogo. (Piketty parlava inglese con moderato accento. Il libro è stato tradotto da Arthur Goldhammer, che, vi rivelo, è mio cugino.) Ha fatto clic su un paio di diapositive, in stile PowerPoint, tra cui una che conduceva chiunque al suo sito web. Ma era così preso dalla sua storia che alla fine si è reso conto che non era riuscito a scegliere più di una dozzina di slides.
Vedere Piketty raccontare la sua storia fin qui familiare, di persona, ha fatto capire quanto sia importante la narratività della sua narrazione, ossia la sua qualità narrativa. Piketty non sarebbe diventato questo grosso argomento se, usando gli stessi dati e le medesime intuizioni, non avesse modellato un grande filo conduttore, con il suo inizio, la sua metà e il suo finale premonitore.
La storia è questa. In precedenza, grazie al lavoro dell'economista di metà del secolo scorso Simon Kuznets, il consenso diffuso riteneva che la disuguaglianza stesse tendendo a restringersi. Ma utilizzando i dati fiscali di quasi 50 Paesi, e facendolo risalire nel tempo di svariati decenni e, nel caso della Francia, indietro fino al XVIII secolo, Piketty dimostra che Kuznets, che ha sviluppato la sua omonima Curva negli anni cinquanta e sessanta, ha vissuto la sfortunata coincidenza di stare presso l'unico punto nel tempo in cui la disuguaglianza poteva apparire in via di riduzione: subito dopo che due guerre mondiali e una depressione avevano demolito i patrimoni accumulati dai più ricchi del mondo.
In realtà, Piketty dimostra che quel periodo - i circa trent'anni economicamente gloriosi che hanno seguito la Seconda Guerra Mondiale, noti in Francia letteralmente come Les Trente Glorieuses - era anomalo, mentre di fatto, in generale, la disuguaglianza si allarga, perché, dopo le imposte, il tasso di remunerazione del capitale (r)1 supera il tasso di crescita delle economie» (g) di più volte.
Traduzione: i redditi da capitale tendono ad essere più grandi e a crescere a tassi più veloci di quanto facciano i salari, il che significa che chi è già ricco, poiché fa comunque la maggior parte dei propri soldi attraverso investimenti ed eredità, diventa ancora più ricco. Se i graffitari dovessero mai scoprire Piketty, allora l'equazione
r>g
apparirà su tutti i muri delle città.

Tutti i conti tornano, e sono comprensibili. Chiunque abbia familiarità con l'ascesa dell'industria della finanza - o anche solo con la magia degli interessi composti - capirà perché r supererebbe g. Chiunque può capire in che modo gli Stati Uniti, come Piketty ha riconosciuto, potrebbero temporaneamente rompere lo stampino, trasformando in miliardari delle emerite nullità non attraverso l'accumulazione di capitale, ma tramite salari sbalorditivi per dei "supermanager", sebbene questi supermanager naturalmente continueranno, attraverso i loro eredi, quel che Piketty definisce "capitalismo patrimoniale", e anche se, come ha notato Krugman, uno sguardo al Forbes 400, con i suoi quattro Walton nella top ten, rivela che l'America non è immune dalla ricchezza ereditaria. Chiunque può capire perché il capitale può aver perso terreno in favore dei salari all'incirca nel periodo 1913-1950, e se non ci riuscisse a capirlo, si potrebbe osservare il grafico di Piketty (come quello poco più sotto, che deriva dal suo lavoro) e vedere così il gigantesco cratere che rappresenta la distruzione di capitale che si è verificata durante tale periodo:



Nell'imparare la storia, si può anche capire perché l'opera di Piketty abbia preso piede presso un pubblico più ampio ancora. E si può similmente capire perché gli economisti sarebbero così entusiasti in merito, al di là dei suoi notevoli progressi nell'ambito della professione stessa (che, ci hanno ricordato gli altri economisti, sono prodigiosi): ecco un modo, tanto sofisticato quanto facile da capire, che sa raccontare il passato economico, è in grado di spiegare la nostra crisi attuale e perfino di suggerire ciò che potrebbe riservare il futuro. E che cosa ci riserva il futuro? Beh, in parte perché siamo sperabilmente fuori da delle guerre mondiali, il divario tra r e g continuerà a crescere, a un ritmo sempre più veloce. L'unica cosa che non sappiamo è come possiamo evitare che ciò accada.
A cercare di rispondere a questa domanda finale e cruciale c'erano Stiglitz e Krugman, ciascuno dei quali ha pronunciato un breve intervento dopo che aveva parlato Piketty.
Stiglitz - vincitore del Nobel per l'Economia - ha insistito sul fatto che la politica può correggere i saccheggi che il rapporto r>g presagisce:
«La disuguaglianza non è solo il risultato di forze economiche», ha affermato, «ma gli stessi processi politici sono influenzati dal livello e dalla natura della disuguaglianza». Ha inoltre aggiunto: «non è inevitabile che r sia maggiore di g. È l'effetto delle nostre politiche». Nel citare distintamente la sentenza Citizens United, ha osservato che una maggiore disuguaglianza consolida un maggiore potere in mano ai ricchi, che utilizzeranno tale maggiore potere per raddoppiare in peggio quelle politiche (tassi in ribasso sulle plusvalenze, tasse di successione più basse, ostacoli bassi per il finanziamento stesso delle campagne elettorali), che garantiscono una disuguaglianza ancora più grande, e così via, in un circolo vizioso.
Krugman, in un discorso che in gran parte ricalcava un post sul suo blog pubblicato il precedente mercoledì, ha riconosciuto la forza del libro nel fornire prove empiriche a sostegno delle denunce a lungo formulate dai liberals in merito alle disuguaglianze, oltreché nel raccontare quella storia - «questa analisi non è solo importante, è bella», ha scritto. Nel corso di tutti i loro interventi, Piketty sedeva vicino al podio, raggiante di soddisfazione. Sembrava reduce da un orgasmo. Chi potrebbe biasimarlo?
All'inizio della sua presentazione, Steven Durlauf dell'Università del Wisconsin si è impegnato a recitare il ruolo del "guastafeste" e a portare una "prospettiva da secchione". Non ci ha deluso. In prevalenza ha tirato fuori dei cavilli, senza dubbio importanti nell'ambito della professione, circa l'uso che Piketty fa dei dati. Sono esitante nell'analizzare la sua presentazione, perché era francamente al di sopra della mia portata, ma in ogni caso ritiene in generale che il libro sia valido, importante, brillante, e tutto il resto. Dopo l'evento, ho chiesto a Piketty se fosse preoccupato del fatto che i suoi metodi e le sue conclusioni fossero abbastanza complesse da poter essere usate male da mani inesperte. Ha scosso la testa e ha dichiarato: «Quando l'economia appare troppo complicata, di solito è un brutto segno».
Ci sono stati abbastanza economisti eminenti e ben ferrati di centro e di sinistra - davvero tutti costoro - ad aver dato al libro il loro Sigillo di Approvazione della Brava Massaia per far sì che la maggior parte dei non esperti rimanga soddisfatta. E purtroppo, un impegno in profondità che scrutini da destra il libro di Piketty deve ancora emergere [...].
Pertanto, come chiedeva quel rivoluzionario: che fare?
La soluzione di Piketty al problema r>g è una imposta progressiva globale sulla ricchezza degli individui. Questa è di gran lunga la parte del suo libro che ha ricevuto il maggior numero di critiche: non per la sua saggezza, ma per la sua praticabilità. (Tassare i ricchi in un paese è già abbastanza difficile.)
Piketty minimizza la questione; nel rilevare che le aliquote marginali delle imposte per le fasce più alte raggiunsero i loro picchi storici più elevati negli anni cinquanta, proprio quando la disuguaglianza era comunque al suo punto più basso, ha sostenuto con un sorriso: «La storia della tassazione è piena di sorprese».
È chiaro che occorra inserire alcuni cunei per bloccare i raggi del ciclo ricchezza-potenza che Krugman ha definito «spirale politico-economica di disuguaglianza, in cui una grande ricchezza porta a un grande potere, che viene utilizzato per rinforzare la concentrazione della ricchezza».
Senza citare Piketty, Mark Schmitt ha suggerito che la riforma del finanziamento elettorale sia l'ingresso giusto all'interno del talvolta nebuloso dibattito sulla disuguaglianza. Ciò sembra avere molto senso.
Krugman ha chiuso con una nota insolitamente ottimistica. Teddy Roosevelt, ha osservato, pronunciò il suo famoso discorso sul Progressivismo facendo appello a una tassazione progressiva sul reddito e sulle successioni delle "grandi fortune", già nel 1910, ben prima dei cataclismi che hanno rallentato temporaneamente il fattore r. Perfino le radici del New Deal, ha affermato Krugman, risalgono a decenni prima del 1933. In altre parole, degli americani riflessivi erano in grado di riconoscere il problema delle disuguaglianze e di proporre soluzioni per risolvere tutto da soli, senza l'ausilio di abitudini sociali né tendenze impersonali. Una legge economica come r>g ha il potenziale per essere in ogni bit l'ossimoro che il termine "legge economica" suggerisce. Krugman è sembrato voler sostenere che per tutte le strutture accattivanti e anche "belle" che Piketty descrive, la politica, non l'economia, resti l'arte finale del possibile.



Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.


NOTA:
1. Piketty definisce il "capitale," forse in un senso troppo allargato, essenzialmente come ricchezza derivante da altre cose che non siano salari.


Thomas Piketty su Ricchezza, Reddito, Disuguaglianza
Una delle conferenze in USA di aprile 2014.


15 aprile 2014

Il Partito Ipnocratico di Massa


di Francesco Carraro.

Avviso ai naviganti. Questo è un messaggio per chi è iscritto, a sua insaputa, al Partito Ipnocratico di Massa. Per appurare se hai la tessera, controlla se sei sotto ipnosi senza saperlo. Osserva i sintomi.
Hai intenzione di votare Pd alle prossime elezioni Europee (o uno qualsiasi dei partiti del nuovo arco costituzionale del sonno, Forza Italia e Nuovo Centro Destra compresi)?
Hai preso parte alle primarie democratiche?
Sei iscritto a un club Forza Silvio?
Sei convinto che Renzi sia l’ultima (buona) occasione per l’Italia di uscire dal pantano?
Se hai risposto di sì ad almeno una delle precedenti domande la diagnosi è confermata. Ciò che stai per leggere potrebbe svegliarti per cui prosegui solo se ti consideri pronto. Anzi, leggi lo stesso. Alla fine del pezzo ti riaddormenterò di nuovo e non ricorderai più nulla. Qualcuno ha detto che è meglio illudersi da ignoranti che disperarsi da consapevoli, quindi, forse, dormire è la ricetta giusta.
Ecco un buon vademecum da portarsi in cabina elettorale.
L’Unione Europea è una costruzione intrinsecamente anti democratica. Nessuno dei suoi organi muniti di prerogative sovrane è elettivo. Non la Commissione europea che ha il potere di iniziativa legislativa cioè di proporre le leggi che tu subirai. Non il Consiglio Europeo che definisce orientamenti e priorità generali della Ue. Non il Consiglio dell’Unione Europea che approva le leggi che la Commissione fa e a cui tu obbedisci.
C’è il Parlamento, obietterai, da europeista dormiente quale sei. Certo, ma non ha funzioni legislative e non ha alcun reale potere a parte fungere da foglia di fico, ogni cinque anni, per far credere ai cittadini di contare ancora qualcosa con la farsa delle elezioni.
Ma il lato veramente liberticida di tutta la faccenda è la composizione della Commissione. E’ l’organo più potente, fa le leggi, gestisce il bilancio, vigila sull’applicazione del diritto comunitario, bacchetta gli stati membri se non fanno i compiti per casa, può infliggergli sanzioni e le sue decisioni sono vincolanti (en passant, rappresenta pure l’Europa nel mondo). Tu, europeista addormentato nel bosco, oltre a non sapere che la Commissione non è elettiva (i tuoi leader si sono sempre dimenticati di dirtelo) non sai neppure da quanti membri sia composta questa nomenklatura. Ventotto. Incredibile vero? Meno di trenta persone non elette che fanno e disfano le sorti di trecento milioni di persone.
Non è finita. La Commissione si riunisce una volta alla settimana, le sue riunioni non sono pubbliche e le sue decisioni hanno carattere riservato.
I piccoli chimici che si son dilettati a generare in provetta la Ue ne han fatte anche di peggio.
Tipo concepire un sistema che privava gli stati sovrani di una loro banca con cui fare politiche sociali tramite la spesa pubblica e attribuirne le funzioni a una banca centrale che non può rifornire di denaro gli stati. Geniale, non trovi? E gli stati son diventati succubi dei mercati. Et voilà monsieur lo spread!
Così facendo han violato una caterva di articoli di quella costituzione per la quale i tuoi nonni son morti in montagna. Dal primo (per cui la sovranità appartiene al popolo) al trentottesimo (tutela dei lavoratori) al quarantunesimo (per cui l’attività economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale). Benvenuto nel futuro, dove vigono regole diametralmente opposte: competitività, flessibilità, mercati, in primis, poi, se resta tempo e spazio, politica e democrazia.

Ora, lo so bene, caro elettore del P.I.M., che sembra una roba da regime, ma così da regime che se te l’avessero detto prima e ad alta voce li avresti appesi a testa in giù da qualche parte.
E infatti lo è, solo che le tue guide te l’han fatta sotto il naso mentre eri distratto a guardare la telenovela ‘Berlusconi contro Occhetto’ e i sequel ‘Berlusconi contro Rutelli’, ‘Berlusconi contro Veltroni’, ‘Berlusconi contro Bersani’.
Poi, quando l’opera al nero è stata completata han rottamato tutti i primattori e le comparse del tragicomico ventennio che abbiamo alle spalle: destra e sinistra, il partito della libertà e la classe dirigente del partito democratico, le province e il senato.
Ora che abbiamo trovato il cadavere (la repubblica democratica e sovrana) non resta che chiedersi se qualcuno è stato corrivo con l’assassino. Purtroppo, caro elettore del P.I.M., la risposta è affermativa.
Avevi un pantheon di eroi che si chiamavano De Gasperi e Togliatti, Dossetti e Nenni, Moro e Berlinguer? Bene, gli epigoni dei tuoi miti di bambino, quell’accozzaglia di acronimi che la storia ha già digerito ed evacuato (pds, ds, fi, ppi, ccd, udc, pdl, pd, ncd) sono stati il cavallo di troia che ti ha portato in casa la Merkel, Barroso e Van Rompuy.
Quindi significa che c’è un disegno? Certo che sì. La sinistra post comunista e la destra post democristiana, sostenitrici accorate (e unificate) dell’ingresso dell’Italia nell’Ue, sono state il grimaldello per consegnare il nostro paese a un futuro tecnocratico, ademocratico, oligarchico (cioè il presente in cui viviamo).
Vuoi la pistola fumante? Vai a rileggere il rapporto redatto nel 1975 da Michel Crouzier, Samuel Huntington e Joi Watanuki per conto della Commissione Trilaterale dove, tra l’altro, si scriveva:

«Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene. (…) Curare la democrazia con ancor più democrazia è come aggiungere benzina al fuoco».

Adesso andiamo a citare alcuni dei padri nobili de sinistra e de destra che preconizzarono il sol dell’avvenire da cui ora ti ritrovi ustionato. Jean Claude Juncker (ex presidente dell’Eurogruppo), il 21 dicembre 1999, a Der Spiegel, sul modus operandi della Commissione Europea:

«Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa é stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno».

Romano Prodi, il 4 dicembre 2001, al Financial Times:
«Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti».
Jacques Attali (uno dei padri fondatori dell’Unione Europea e dei trattati europei), il 24 gennaio 2011, all’università partecipativa:
«Abbiamo minuziosamente “dimenticato” di includere l’articolo per uscire da Maastricht. In primo luogo, tutti coloro, e io ho il privilegio di averne fatto parte, che hanno partecipato alla stesura delle prime bozze del trattato di Maastricht, hanno… o meglio ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne sia impossibile. Abbiamo attentamente “dimenticato” di scrivere l’articolo che permetta di uscirne. Non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un’ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti».
Helmuth Kohl, il 9 aprile 2013, al Telegraph sull’ingresso nell’euro da parte della Germania:
«Sapevo che non avrei mai potuto vincere un referendum in Germania. Avremmo perso il referendum sull’introduzione dell’euro. Questo è abbastanza chiaro. Avrei perso sette a tre. Nel caso dell’euro, sono stato come un dittatore».

Ecco, caro elettore del Partito Ipnocratico di Massa, chi sono i paladini cui darai, tra poco, il tuo voto.

Ora che lo sai, rilassati, inspira, espira, inspira, espira, inspira, espira.
Tutto ciò che hai letto è solo un brutto sogno.
Conta da ventuno a zero, piano piano. Ninna nanna ninna oh, questo Mostro a chi lo do? Leggi i manifesti del Pd, ascolta un sermone di Renzi, sparati un monito di Napolitano. Fatto. Ora puoi tornare a dormire.


Francesco Carraro www.avvocatocarraro.it


9 aprile 2014

Siria: Linea Rossa e Linea dei Ratti


di Pino Cabras. 


Sulle pagine de la Repubblica del 9 aprile 2014 si può leggere la traduzione di una clamorosa inchiesta del grande giornalista investigativo Seymour Hersh, appena pubblicata dalla London Review of Books. I lettori della grande corazzata di De Benedetti potranno leggere soltanto oggi quel che i lettori del nostro piccolo motoscafo pirata hanno potuto leggere già nel 2013 in decine di articoli: l'attacco chimico dello scorso agosto nell’area siriana della Ghouta, alle porte di Damasco, fu un complotto ordito per dare il pretesto a un intervento in Siria degli USA e di altri paesi NATO. Il governo siriano non aveva affatto causato quella strage.
Il premio Pulitzer rivela quello che già sapevamo: si orchestrava un casus belli per bombardare pesantemente la Siria. Al centro di tutto c’era (e c’è tuttora, ritengo) un orribile traffico di armi, di azioni stragiste, di corridoi terroristici («la Linea dei ratti»), un area ambigua di mestatori che non conoscono fin dove arrivano le leve che li manovrano, un ambiente in cui matura l’inganno che vuole attribuire la strage chimica ad Assad, per dire che lui ha attraversato «la Linea rossa» e va punito. La leva più vicina che guida i fili dei burattini è la Turchia di Erdoğan, il cui governo nel giro di pochi anni è passato dallo slogan “zero problemi con i vicini” all’essere il buco nero della destabilizzazione dell’area. Il suo strumento di governo sono i complotti “sotto falsa bandiera”, così come lo inchiodano alcune recenti intercettazioni.
Vi proponiamo i link a molti degli articoli che hanno offerto già tempo fa ai nostri lettori il privilegio di capire cosa stava accadendo davvero in Siria. Per questi articoli ci criticavano, ci davano dei “complottisti”, ci irridevano nei commenti per inserirci a forza nella cornice di quelli che abbaiano al «gombloddo1!1!» (e i detrattori si sentivano tanto come quelli a cui non la si dà mica a bere). Fanno lo stesso anche oggi che raccontiamo la crisi ucraina con punti di vista che stridono con la narrazione dominante.
Avevamo ragione noi.
Seymour Hersh qualche mese fa aveva espresso alcune idee estreme su come risistemare il giornalismo: chiudere le redazioni dei principali canali televisivi mainstream, cacciare il 90% dei redattori editoriali e tornare al lavoro fondamentale dei giornalisti che, diceva, è quello di essere un outsider.
Aveva ragione lui.

          Armi chimiche in Siria: un nuovo caso Tonchino?














Mica furbo, 'sto Putin. La Putinomics è fessa



Pubblichiamo una riflessione irriverente e demolitoria sulle scelte economiche del presidente russo Vladimir Putin formulata da Mike Norman, investitore ed economista di scuola MMT (Modern Money Theory). Ai suoi occhi, di più folle rispetto alla politica monetaria ed energetica russa c'è solo la politica energetica degli Stati Uniti, che sull'onda delle nuove tecnologie estrattive (e ambientalmente distruttive) ridiventano esportatori di gas.  Ci riserviamo una nota di commento in coda all'articolo. Intanto, buona lettura.
__________________

di Mike Norman*.


Putin è così furbo come tutti pensano? Quel che sta facendo dimostra di NO!

Gli esperti e i media stanno concedendo ogni sorta di accreditamento a Putin per il fatto che ha fregato l’Occidente e si sta facendo beffe degli “avvertimenti” mentre avanza verso l’Ucraina senza il minimo segnale di esitazione.

Ma non stanno dando troppo credito a Putin? Questo tipo è davvero così astuto?

Primo, sappiamo che ha comprato oro come un pazzo due anni fa quando l’oro era vicino ai massimi di prezzo. La Russia è già uno dei più grandi produttori d’oro al mondo (se non il PIÙ grande), e pertanto perché mai sta facendo incetta d’oro? Da ciò che si sente raccontare, Putin credeva che il programma di acquisto asset finanziari della FED avrebbe indebolito il dollaro, così questo è il motivo dei suoi acquisti d’oro. In altre parole, stava operando sul mercato sulla base della stessa analisi errata di molti altri idioti.

Fesso.

Il prossimo punto è questo: se vuoi dimostrare quanto sei forte e vuoi dare mostra della tua indipendenza dall’Occidente perché agganci la tua valuta al dollaro? Il rublo è (blandamente) agganciato al dollaro (e anche all’euro). Oggi la banca centrale Russa ha aumentato i tassi di interesse per difendere questo ancoraggio. Fesso!

Tu sei Putin, tu ritieni che la Russia sia una grande potenza e che non possa essere comandata a bacchetta e che possa fare ciò che vuole. E di conseguenza tu “àncori” la tua valuta al dollaro? Seriamente???? Voglio dire… andiamo, Vlad.

Infine, il giovanotto crede di dover vendere il suo petrolio e gas per ottenere “entrate” dall’Occidente. La Russia ha un enorme, enorme, ENORME, vantaggio energetico sugli altri paesi. L’energia a buon prezzo è un valore inestimabile di questi tempi. Perché la esporti? È come la mossa idiota degli USA che esportano il proprio gas naturale, che sta solo conducendo a un aumento dei prezzi interni e a un’erosione di quel vantaggio iniziale. Fesso, fesso, fesso.

Se questo tizio volesse per davvero il potere, se capisse un pochino di economia, o avesse qualcuno nel suo team che capisse un poco di economia, lascerebbe fluttuare liberamente il rublo, bloccherebbe l’ancoraggio del rublo al dollaro, all’euro o a qualsiasi cosa e direbbe “vaffanculo” all’Occidente quando si presenta a richiedere esportazioni di petrolio. L’Occidente sarebbe in ginocchio in un battibaleno.

Per fortuna non lo capisce, il che significa che lascia sé stesso in balìa dei “guardiani” dei mercati finanziari e dei propri pensieri negativi.
La mia previsione: le truppe della Russia saranno fuori dall’Ucraina più rapidamente di quanto tempo impiegarono ad abbandonare la Georgia.



*Mike Norman,  è un investitore ed economista MMT

Traduzione a cura di ReteMMT.it.


NOTA di Pino Cabras per Megachip.

I ragionamenti di Mike Norman, sebbene sia un economista preziosamente eccentrico rispetto alle correnti dominanti dei sacerdoti dell'austerity criminale, sono comunque ragionamenti da economista:  in lui prevale lo stupore e quasi lo scandalo (nel suo caso sprezzante e divertito), quando assiste all'intimo e contraddittorio intreccio tra economia e politica.
In certi casi però siamo di fronte a una strategia di potere, non a un modello economico sbagliato. Ai piani alti del potere si prendono decisioni politiche, con strategie che possono raggiungere il risultato voluto a scapito dell'efficienza economicamente più razionale: quando si dice 'costi quel che costi'. Altrimenti non ci sarebbero le guerre, con i loro sacrifici umani e materiali di massa.
A chi cerca una soluzione al disastro non basta contrapporre contromisure tecniche (pur necessarie), di fatto considerando quelle decisioni politiche degli errori di economia politica. Esportare energia a prezzi in cui prevale l'effetto politico sarà economicamente idiota, ma serve a determinati disegni. Gli USA con il fracking e lo shale gas sembrano disposti a infliggere una devastazione ambientale senza precedenti al proprio paese e ai propri vassalli, il tutto per vincere una scommessa che potrà giocarsi solo nei pochissimi anni in cui quelle risorse saranno realmente disponibili, come pedine fondamentali da giocare nella scacchiera della nuova guerra fredda. Obiettivo? Mettere KO la Russia prima che la sua energia di lungo periodo la renda inespugnabile da un'America di nuovo a corto di risorse.
La Russia a sua volta giocherà con altre pedine in una scacchiera che rimane comune.
Lo scenario in cui l’Occidente «sarebbe in ginocchio in un battibaleno», come dice Norman, si chiama Apocalisse. Neanche a Putin conviene. A nessuno conviene. Ciò detto, qualsiasi riforma monetaria, in Russia come ovunque, farà bene a dare un ruolo alla MMT e a qualsiasi fioritura di pensiero economico razionale. La questione si pone ormai come un tema di sopravvivenza per centinaia di milioni di individui, intere nazioni e classi sociali che rischiano di essere travolte dal moltiplicarsi degli shock e degli esperimenti finanziari delle élites.