21 novembre 2013

L'alluvione sarda e i fantocci impiccati



di Pino Cabras.
 

Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d'acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l'elenco di piaghe descritte nel Libro dell'Esodo, gli ha dato la definizione di "piena millenaria". La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d'acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie.
I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l'Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e "prevalente" che sta a monte.
È uno spazio addomesticato, quella pianura ideale, segnato da linee d'asfalto, case, scantinati, capannoni, e mille altri segni di "sviluppo" che la separano dal passato rurale e la proiettano in un mondo magico e progressivo che fa a meno della geologia.
Olbia alla fine della seconda guerra mondiale era un borgo di diecimila abitanti, oggi ne ha sei volte di più. E dove ha fatto il nido tutta questa gente nuova? Lo ha fatto là dove volevano gli speculatori e dove la portava la corrente dell'abusivismo: dove un tempo c'erano stagni e dove scorrevano magri torrenti.
Le "piene millenarie", proprio perché hanno memorie lunghissime, ricordano ogni tanto che dove il fiume è già passato tanti anni fa, prima o poi ci ripassa ancora. In autunno in Sardegna e in altre regioni non sono infrequenti i flash flood. Non possono essere considerati eventi sorprendenti.
Solo che un tempo il torrente gonfiato dalle tempeste autunnali aveva modo di diluirsi in un suolo intatto, o di sfogarsi in canali costruiti a regola d'arte, senza alvei intombinati che lo accelerassero, né ponti che diventassero dighe prima di cedergli il passo.
Olbia è crescuta in fretta, è un piccolo emblema dell'ideologia della crescita libera che ripudia qualsiasi pianificazione. Il PIL veniva prima di tutto, e perciò si doveva dimenticare che una vera città, prima di tante altre cose, è un sistema idraulico artificiale che si sovrappone a un sistema idraulico naturale. Olbia però andava oltre. Non si sovrapponeva alla natura, la sostituiva senza criterio. L'onda del PIL era un flutto di cemento che impermealizzava ettari ed ettari, al galoppo. Poi, ieri, fine corsa. All'acqua della città, incanalata senza regola e non più assorbita, si è aggiunta l'acqua della montagna, e tutto è stato devastato.
Ora la cronaca ha il suo momento di frastuono, di pianti, di governanti che snocciolano compunti i milioni stanziati per l'emergenza: Enrico Letta 20 milioni, Ugo Cappellacci 5 milioni. Dev'essere lo stesso Cappellacci che ha guidato un'amministrazione che ha revocato 1,5 milioni di euro destinati alla difesa del suolo e contro il dissesto idrogeologico. Certo, quei milioni non sarebbero bastati, nemmeno a Olbia, interessata negli ultimi decenni anni da 17 (diciassette) "piani di risanamento". Cioè: prima si lasciava fare, senza permessi, poi si condonava, si "risanava", senza nemmeno completare fogne, argini. Niente di niente. Erano bolli e timbri aggiunti ai fatti compiuti: fatti irrimediabili, ferite non sanabili se non abbattendo tutto. Ma come fai ad abbattere interi quartieri? Risanare, ma per davvero, costa molte volte di più del gesto iniziale, mai fermato, che cambiava natura a quel pezzo di territorio.
Facile strapparsi i capelli adesso. I nomi dei quartieri olbiesi sommersi di oggi c'erano già tutti in un articolo del 2010. Era un trafiletto di cronaca locale sul "rischio alluvione". La prevenzione non fa notizia, non porta voti, non mobilita risorse, non diventa la pagina d'apertura di Repubblica. È solo un misero fondino di un giornale locale che non rompe il silenzio. La gente non sa, e crede perciò di stare nel suo Belpaese di pianura, senza pericoli, senza colline, e senza verità sul clima.
Negli anni in cui la Regione Sardegna fu guidata da Soru (2004-2009) venne approvato un piano paesaggistico fra i più avanzati al mondo, molto chiaro nel considerare il paesaggio un bene pubblico non negoziabile. Dopo, a livello nazionale e regionale, vi è stata una pressione costante per una nuova liberalizzazione edilizia e per abrogare le regole restrittive, in nome dello sviluppo e della crescita, e al diavolo i geologi.
Proprio un geologo, Fausto Pani, sul sito sardiniapost.it, in veste di autore del PAI (Piano stralcio per l'assetto idrogeologico) e del Piano delle fasce fluviali, si toglie oggi qualche detrito dalla scarpa: «solo pochi giorni fa i sindaci interpellati dicevano che nei loro paesi non pioveva così tanto, che il Piano stralcio delle fasce fluviali era tutto sbagliato e bloccava lo sviluppo dei Comuni. Oggi chiederei a quegli stessi amministratori locali se la pensano ancora allo stesso modo».

Infatti il problema non è solo Olbia. Uno dei comuni più colpiti dall'alluvione è Terralba, nell'oristanese. Ho visto in TV il sindaco di centrosinistra Pietro Paolo Piras con la faccia tesa del tipico sindaco in lotta sincera con il disastro, circondato da uomini della protezione civile. Poche settimane fa proprio Piras partecipava a una manifestazione a Cagliari contro il Piano per le fasce fluviali. Lo considerava troppo rigido. Persino le norme di una giunta post-Soru, teoricamente più morbida con chi vuole sviluppo edilizio, non andavano bene a una parte della gente di Terralba. 
Lo scorso 15 giugno un comitato locale aveva impiccato decine di fantocci per opporsi «con fermezza al piano delle fasce fluviali previsto dalla Regione e ai vincoli idrogeologici che limitano lo sviluppo del territorio.»
Uno dei promotori spiegava: «Devono fare una scelta politica, con questi vincoli ci stanno condannando a morte. Tutte le attività rischiano di scomparire e non ci sarà uno sviluppo futuro per il nostro paese». Alle magnifiche sorti e progressive di Terralba ha però bussato il Rio Mogoro, un torrentello spesso asciutto che per un giorno è diventato l'Orinoco.
Gli impiccatori di fantocci hanno maneggiato in modo molto imprudente i simboli. Parafrasando una vecchia storia, l'ultimo sviluppista è disposto a vendere la corda con la quale verrà impiccato.
Adesso la ricostruzione, nel far girare denaro, farà bene al PIL. È forse cinico dirlo, ma dopo le catastrofi naturali, questo succede in molti casi. E, nel crescere, il PIL dimostrerà ancora una volta di non essere la misura corretta del vero benessere.
Quel pezzo di società civile che rimuove in modo dissennato e cocciuto la vera natura del nostro suolo, quelle classi dirigenti la cui mentalità è intimamente modellata dalla stessa concezione del territorio, si trovano davanti a una scelta. La scelta non è "costruire oppure no": è semmai cosa costruire senza consumare ancora di più il suolo, cosa costruire per salvaguardarlo nella sua integrità, fare manutenzione costante e piccoli interventi sulle infrastrutture che già ci sono, e finirla con le grandi opere e le eterne emergenze. Finirla con il fantoccio della crescita infinita. Magari così ci sarà più lavoro, e meno senno del poi.
 

8 novembre 2013

11/9: LA NUOVA PEARL HARBOR

DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013 , ROMA - Teatro Palladium .

La prima italiana del monumentale film di Massimo Mazzucco "11 settembre - La nuova Pearl Harbor"




6 novembre 2013

Rapporti Ue-Russia ad alto rischio

di Giulietto Chiesa.


Nell’indifferenza generale dei media italiani (un po’ meno di quelli europei, ma è la stessa cosa) si giocherà, a fine mese, a Vilnius, una partita strategica cruciale tra Russia ed Europa. Il suo significato, per quanto brutale, è questo: chi si prende l’Ucraina?
Va detto subito che, in casi come questo, una grande responsabilità è nelle mani dei dirigenti del paese contestato: quella di essere stati più o meno capaci di difendersi, più o meno dignitosi anche nella sconfitta, più o meno consci del ruolo di difensori della propria identità nazionale. Nel caso in questione i leader ucraini hanno dimostrato di essere negli scalini più bassi. E che la sorte assista loro e i loro soggetti.
Ma la responsabilità maggiore sta nei pretendenti al loro dominio. Come andrà a finire a Vilnius è ancora, in piccola parte, da decidere perché non tutte le carte sono ancora scese sul tavolo. Quello che è certo è che i preparativi sono molto avanzati: tutti i documenti dell’”associazione” dell’Ucraina all’Unione Europea sono già pronti per essere firmati. Resta solo da decidere se la signora Julia Timoshenko – la Giovanna D’Arco di Ucraina, come la descrivono gli ammiratori, esagerando non poco le sue qualità spirituali – sarà liberata dalla prigione in cui si trova da due anni (meno della metà della reclusione di 7 che un tribunale ucraino le ha inflitto per “abuso di potere” e altri ammennicoli piuttosto pesanti).
Il fatto è che l’Unione Europea ritiene che il processo sia stato viziato da spirito di vendetta (il presidente Janukovic ha dovuto faticare non poco per avere ragione della potente avversaria, dotata dell’appoggio unanime dell’Occidente). Riuscì a sconfiggerla anche con l’aiuto di Mosca, ma adesso Mosca gli piace meno di Bruxelles, per non dire che non gli piace più del tutto. Resta l’eredità del passato, mentre la galera della Timoshenko non è un gesto davvero galante.
Del resto Janukovic sarebbe pronto, ormai, a consegnare la reclusa in mani tedesche, affinché possa curarsi del male alla schiena che l’affigge. Con la speranza che non ritorni più in patria e non gli dia più fastidio. Peccato che l’”associazione” all’Ue comporti la necessità di chinarsi alle imposizioni di Bruxelles. Di là gli fanno sapere che lui la deve proprio liberare dalla galera e dalle accuse, in modo tale che Julia di tutti i santi possa un giorno toglierlo di nuovo di mezzo e diventare lei presidente di Ucraina.
Vedremo. Io ho l’impressione che si metteranno d’accordo in qualche modo. Janukovic lo vuole, Bruxelles lo vuole. La posta in gioco è lo spostamento di 50 milioni di ex sovietici nel campo occidentale. Non è ancora l’ingresso nella Ue, ma è un passo decisivo. Di ingresso si parlerà più avanti, pensano a Bruxelles e a Francoforte. Forse – come è già avvenuto con le altre tre repubbliche ex sovietiche del Baltico, Estonia, Lettonia e Lituania – prima si aprirà il fascicolo dell’ingresso di Kiev nella Nato. E non è certo una distrazione la decisione di lanciare all’inizio di novembre una esercitazione militare congiunta con la partecipazione della Polonia e delle repubbliche baltiche per – ufficialmente – fronteggiare un’eventuale occupazione di quei territori da parte di una “potenza straniera”. Se non si ipotizza l’intervento di truppe marziane, è l’equivalente di uno schiaffo in faccia a Putin.
In ogni caso saranno dolori. Perché questa strada porta diritto a un collisione con la Russia. In questi giorni moscoviti ho potuto misurare bene la gravità degli effetti che una tale decisione sta avendo sui russi. E’ chiaro che si tratta di un colpo pesantissimo alla strategia di Putin. Che – non è un mistero per nessuno – ha puntato e punta alla ricostruzione di un’area politica omogenea che ha i confini della parte centrale dell’ex Unione Sovietica. La sua – di Putin – unione doganale, tra Russia, Bielorussia e Kazakistan, ha bisogno dell’Ucraina. Senza Ucraina questa unione è irrimediabilmente zoppa. E l’Ucraina se ne va con l’Europa. Accetta le regole europee, in lungo e in largo. E’ perduta. Dopo, tornare indietro non sarà facile, forse impossibile. E’ uno di quei cambi che avranno effetti di lunga durata.
Se ne va l’Ucraina e si porta dietro la Crimea russa, che Krusciov regalò agli ucraini quando si pensava che l’Urss sarebbe stata eterna. E la Russia avrà soltanto il porto del Mar Nero di Novorossijsk. Niente più Sebastopoli, con tutta la sua gloria. E qui la faccenda non riguarda solo Putin, riguarda la gran parte dei Russi. Non c’è famiglia che non abbia legami dall’altra parte. Mezza Ucraina parla russo. La Grande Guerra Patriottica è stata una tragedia e una vittoria comune. La Russia, inclusa quella ortodossa, è nata qui. Ed è come strappare il cuore alla Russia dirle che non ha più diritto al suo cuore, anche se questo sentimentalismo non sfiora neppure il cuore degli ucraini che preferiscono l’occidente.
Questo è un dato che va compreso. Per la quasi totalità degli europei occidentali la conquista dell’Ucraina non significa niente (infatti nessuno ne ha discusso). Al massimo, per quei pochi che se ne occupano, ha un significato economico e politico: aumenta la forza dell’Unione, o il suo prestigio. Anche se costerà non poco togliersi questa soddisfazione. Non c’è una storia comune e sentita. Dunque, per misurare le reazioni di Mosca è indispensabile cogliere questa differenza, storica e psicologica. Chi ignora questi “dettagli”, o finge di non vederli, o è troppo ignorante, o è un disonesto che gioca sporco. Ecco: l’Europa gioca sporco.
I russi insistono nel dire, all’unanimità, che la decisione di Vilnius sarà una catastrofe per gli ucraini. I numeri danno loro ragione. La Russia è il primo destinatario delle esportazioni ucraine, ed è anche il loro primo partner commerciale in assoluto. Dove andranno adesso le esportazioni ucraine? L’Europa non è un mercato facile per le derrate alimentari, né per la tecnologia ucraina, che è sorella gemella di quella russa ex sovietica. Il mercato russo è invece fiorente e pieno di soldi. Ovvio che Mosca innalzerà barriere, che costeranno di più all’Ucraina che alla Russia.
E c’è l’enorme questione dei gasdotti. Il gas passa in gran parte attraverso il territorio dell’Ucraina, e quel passaggio la Russia l’ha sempre pagato a caro prezzo, consentendo agli ucraini di prelevare, senza pagarle, quote non indifferenti di energia. E quello che era concordato veniva pagato a prezzi inferiori a quelli del mercato: un modo costoso per rimanere in contatto con il proprio cuore e con il proprio prestigio di grande potenza, se si vuole. In più l’Ucraina deve circa 4 miliardi di dollari di gas, che non ha pagato. Ovvio che Putin chiederà il conto. E chi pagherà? L’Europa pagherà, si presume, perché la faccenda è prima di tutto politica e poi economica. Ma resta pur sempre il problema: e dopo? Quali tariffe, quali ricatti reciproci. Le tv russe mostrano i nuovi gasdotti che dovrebbero aggirare l’Ucraina, ma ci vorrà del tempo prima che siano pronti. Prepariamoci a un inverno freddo, ecco la prima cosa che mi viene in mente.
Ma la cosa più importante è che questa mossa da Guerra Fredda non lascerà intatti i rapporti tra Russia ed Europa. Una strada come quella che si sta scegliendo modificherà tutte le precedenti “percezioni” della sicurezza europea. L’Europa (e la Nato) entrano in profondità nel ventre della Russia. Se pensiamo che questa cosa sia indifferente per i russi, allora ci sbagliamo. Altro che un sistema europeo comune di sicurezza collettiva! Qui stiamo cercando di imporre alla Russia di cedere la propria sicurezza all’Occidente. La Russia risponderà. L’Europa sta commettendo il più grave errore da quando è nata.


Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/06/rapporti-ue-russia-ad-alto-rischio/766521/.
Ripreso anche da: megachip.globalist.it.


2 novembre 2013

Datagate: ipocrisia europea ed egemonia USA

di Gaetano Colonna - clarissa.it.


Nella storia dei rapporti transatlantici vi sono state numerose pagine percorse da un sottile umorismo, ma nessuna è pari a quanto si sta leggendo e ascoltando in questi giorni sullo "scandalo" Datagate.
Chiunque abbia una pur vaga idea di come l'intelligence rappresenti storicamente una delle basi portanti della potenza delle grandi Nazioni imperialiste dell'Occidente europeo, fin dal Settecento, per la cui strategia navalista era imprescindibile la costante acquisizione di informazioni tattiche e strategiche su scala planetaria, non può che considerare estremamente ipocrita l'apparente scandalizzarsi delle classi dirigenti europee, dalla Germania, alla Francia, all'Italia.
Nel giugno 1948, proprio quando aveva appena avuto inizio la Guerra Fredda, con l'accordo UKUSA, USA, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda, i cosiddetti "Five Eyes", mettevano a punto quella vasta rete planetaria di attività spionistiche l'ultima manifestazione della quale sarebbe stata quella rete Echelon di cui si ebbe notizia negli anni Novanta: anche in questo caso si sprecarono articoli sui giornali, inchieste dell'Unione Europea e più o meno tiepide contrizioni da parte di qualche alto ufficiale americano, senza per altro che si sia mai andati a fondo sul da farsi - nonostante fosse già allora risultato evidente il poderoso ruolo della NSA nell'organizzare e gestire lo spionaggio elettronico con una onnipervasività planetaria totale. Quella avrebbe dovuta essere l'occasione ultima per affrontare tempestivamente tutte le implicazioni politiche dell'evidente capacità americana di "intercettare il mondo".
Il 3 dicembre 1952, il North Atlantic Council, versante politico della NATO, decise la costituzione di un meccanismo permanente di scambio e condivisione di intelligence fra i Paesi occidentali aderanti alla NATO, noto come AC/46, il cui raggio di attività si estendeva anche a non meglio precisate "minacce non-militari", la cui estendibilità alle tecniche di contro-insurrezione e contro-rivoluzione risulta oggi del tutto ovvia. 
Non possiamo infatti oggi dubitare del fatto che le celebri reti Stay-Behind, in Italia note come "Gladio", fossero ricomprese nelle competenze dell'AC/46, allo scopo di garantire dapprima la presenza di strutture di resistenza anti-comunista in caso di conflitto con l'Urss e, in una seconda fase, il supporto alle più oscure operazioni delle diverse "strategie della tensione", realizzate non solo in Italia, ma anche, come minimo, in Germania Occidentale, Francia e Belgio nel corso degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
Dopo la fine dell'Unione Sovietica e l'ingresso dei Paesi Est europei vuoi nella NATO vuoi nella UE, si è poi assistito al rafforzamento di uno speciale rapporto, sovente mediante protocolli di accordo diretto, fra gli Usa e Paesi Baltici, Polonia, Ungheria, Romania e Bulgaria, anche in materia di spionaggio, come hanno dimostrato vicende quali le extraordinary renditions, che hanno utilizzato punti d'appoggio in alcuni almeno di quei Paesi, di nuova accessione alla rete occidentale di intelligence governata dagli Usa.
Dal 1971, ma a nostro avviso da ben prima, si era inoltre costituito il segretissimo Club di Berna, organismo informale che riuniva con costante periodicità i capi dei servizi segreti e delle polizie occidentali: un club le cui impostazioni strategiche hanno probabilmente svolto un ruolo di tutto rilievo per l'Italia, dato che alcune delle principali operazioni destabilizzanti confluite nella strategia della tensione italiana, come quella dei cosiddetti "manifesti cinesi", hanno comprovatamente avuto impulso dalle direttive dettate in Europa da quell'organismo.
Nel 1977, dietro impulso dello Stato di Israele, a seguito delle imprese terroristiche che lo avevano avuto come obiettivo negli anni Settanta, si dava vita al cosiddetto "Kilowatt Group", un accordo assai poco noto, cui partecipano ben 24 Stati, tra i quali numerosi appartenenti all'Unione Europea, oltre a Canada, Norvegia, Svezia, USA, Israele stesso e Sudafrica.
In conseguenza della globalizzazione economico-finanziaria degli anni Novanta, della caduta del sistema comunista sovietico e dell'accrescersi delle difficoltà economico-finanziarie dei sistemi occidentali, nel 1995 prendeva vita l'Egmont Group of Financial Intelligence Units, che, nel giugno 2002, riuniva la bellezza di 69 agenzie specializzate nella raccolta e nell'analisi di informazioni economico-finanziarie.
Facendo seguito agli eventi dell'11 settembre 2001, poi, l'Unione Europea ha dato la propria immediata disponibilità a stabilire relazioni permanenti in campo di intelligence ed anti-terrorismo con le corrispondenti strutture Usa, cosa che portò il 14 marzo del 2003 alla firma di un inedito accordo fra Unione Europea e NATO relativo proprio allo scambio di informazioni sulla sicurezza, considerato dagli studiosi "prerequisito per lo scambio di intelligence fra le due organizzazioni".
Nel 2003, come se non bastasse quanto già emerso con il caso Echelon, la NSA tornava ancora alla ribalta della cronaca grazie alle rivelazioni di una funzionaria del Government Communications Headquarters (GCHQ), organizzazione britannica "gemellata" con la NSA, che rendeva pubblico un memorandum di quest'ultima organizzazione nel quale si dava dettagliato conto delle attività di spionaggio elettronico sistematicamente svolte dall'agenzia Usa ai danni dei membri del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite.
Tutto ciò senza minimamente tenere conto delle centinaia di accordi bilaterali diretti fra gli Usa, Gran Bretagna, Israele, le maggiori potenze spionistiche oggi, e un gran numero di Paesi europei ed extra-europei. Ragione quest'ultima per cui non desta certo alcuna sopresa la notizia di questi giorni, ripresa da Le Monde, Der Spiegel e altri giornali europei, sull'esistenza di un programma di raccolta e condivisione di informazioni, denominato in codice Lustre, che avrebbe coinvolto la Francia; cosi come di analoghi programmi di spionaggio israeliani che conterebbero sull'attiva partecipazione di USA, Regno Unito, Svezia e Italia, secondo notizie della Suddeutsche Zeitung.
Del resto è passata assai presto nel dimenticatoio in Italia una delle poche significative performance del governo Monti, il decreto del 24 gennaio 2013 grazie al quale le nostre agenzie di intelligence, notoriamente assai poco indipendenti da quelle statunitensi ed israeliane, avrebbero completo accesso a un'enorme mole di dati e informazioni di natura riservata: numerose aziende italiane, tra le quali Telecom e Poste Italiane, avrebbero dato immediata disponibilità, stipulando convenzioni coperte da segreto, a fornire alle nostre agenzie di intelligence questi dati, secondo notizie di stampa mai smentite.
Scrivevano nel giugno scorso i giornalisti di Repubblica che hanno svolto questa inchiesta, per spiegare l'importanza dell'apporto di aziende del genere alle reti di sorveglianza occidentali:
"Telecom Italia Sparkle possiede un'infrastruttura fisica strategica: la complessa rete di dorsali in fibra ottica lunga 55.000 km in Europa, 7.000 km nel Mediterraneo, 30.000 km in Sud America, continente collegato con un cavo sottomarino nell'Atlantico di 15.000 km. (...) Ancor più importante è Poste Italiane. Rappresenta un unicum nel panorama nazionale: essendo contemporaneamente agenzia di recapiti, banca, operatore telefonico e assicurativo, ha nella sua pancia la più completa banca dati nazionale. (...) E tra i suoi partner ci sono i servizi segreti americani. Nel 2009 la società guidata dall'ad Massimo Sarmi ha costituito a Roma la European Electronic Crime Task Force, un organismo per il contrasto dei crimini informatici a cui partecipano la Polizia di Stato e lo United State Secret Service, l'agenzia governativa deputata alla sicurezza del presidente degli Stati Uniti. A giugno del 2010, poi, è nato il Global Cyber Security Center, istituto voluto da Poste e creato insieme alla Booz Allen Hamilton, l'azienda dove lavorava Edward Snowden, la spia del datagate".
Ma il lavoro sui cosiddetti "big data", i grandi ammassi di informazione ricavabili grazie alle reti elettroniche ed ai social network, assume un'ampiezza tale da coinvolgere persino gli ambiti culturali, come già era avvenuto durante la guerra fredda, quando la Cia fu in grado di mobilitare, spesso senza che ne fossero consapevoli, le maggiori istituzioni culturali occidentali
Lo scorso febbraio, senza che i media vi abbiano prestato l'attenzione che meritava, è comparsa la notizia secondo cui l'Office of the Director of National Intelligence statunitense, la massima autorità nello spionaggio Usa, avrebbe finanziato e coordinato ben 13 università statunitensi, europee e israeliane in un progetto di raccolta di informazioni tramite social network rivolta a sviluppare una maggiore capacità di analizzare dati per prevedere i futuri sviluppi sociali a livello globale. 
Nel progetto sono coinvolti centri specializzati come il Center for Collective Intelligence del MIT, e come lo Intelligence Advanced Research Projects Activity (IARPA), "incubatore governativo per la ricerca nell'intelligence", che si concentra sulla possibilità di "valutare le notizie con maggiore accuratezza e farlo più rapidamente grazie alla capacità di combinare diverse tipologie di dati".
Come si vede, la questione di fondo è che, nel corso di oltre settant'anni, la potenza egemone dell'Occidente ha costruito con abilità e costanza una rete di vincoli, in materia di intelligence così come di politica estera e militare, trasversale a orientamenti politici e partitici, a istituzioni e settori, tale da costituire ormai una sorta di "Stato permanente" entro i singoli Stati nazionali europei
Per questo è ipocrita affrontare la questione del Datagate senza porre la questione di fondo, vale a dire di come si possa attuare una sovranità politica europea capace di svincolarsi dagli orientamenti globali degli Stati Uniti.