29 agosto 2013

Syrialeaks: come dare la colpa ad Assad

di Pino Cabras - da Megachip.
CON AGGIORNAMENTO IN CODA ALL'ARTICOLO

Un titolo netto sul Daily Mail, un quotidiano da due milioni di copie in edicola e da tre milioni di utenti online al giorno: «Piano sostenuto dagli USA per lanciare un attacco con armi chimiche contro la Siria e dare la colpa al regime di Assad».
Il titolo in questione risale al 29 gennaio 2013. L'edizione online del Daily Mail ha pubblicato un'interessante storia - a firma di Louise Boyle - in grado di gettare la giusta luce investigativa sui tragici attacchi col gas verificatisi in Siria sette mesi dopo, ad agosto 2013.
Ogni tanto, la grande stampa riporta qualche fatto importante che suona totalmente diverso dal racconto di fondo, ma quando questo avviene è un fuoco di paglia che viene subito estinto.
Naturalmente, pochi giorni dopo la pubblicazione, l'articolo era già sparito dagli archivi online del giornale, ma per fortuna non è così facile fare sparire l'informazione da internet una volta che vi abbia fatto capolino. Pertanto siamo in grado di riproporvi l'articolo ed esporre qui i tratti salienti.
Lo scrittore Roberto Quaglia parla di «Legge delle Prime Ventiquattrore. Nell'epoca dei mass media informazioni reali e significative vengono occasionalmente riferite al pubblico da giornalisti in buona fede durante le prime ore che seguono un evento. Poi una invisibile catena di comando evidentemente si attiva e le notizie vere, ma scomode, scompaiono in fretta e per sempre dal proscenio dei media. Solo le notizie comode - non importa se vere o se false - rimangono in circolazione. Per capire il mondo diventa quindi particolarmente interessante soffermarsi proprio sulle notizie soppresse.» Anche per il pezzo di Louise Boyle, è così. Fortuna che c'è Webarchive.
Il sottotitolo dell'articolo della Boyle recita così:
«E-mail trapelate da un fornitore della difesa trattano di armi chimiche dicendo che 'l'idea è approvata da Washington'
Parte il racconto:
«Secondo Infowars.com, la e-mail del 25 dicembre è stata inviata dal direttore dell'area di sviluppo degli affari della Britam, David Goulding, al fondatore della società, Philip Doughty.
Vi si legge: "Phil ... Abbiamo una nuova offerta. Si tratta di nuovo della Siria. I Qatarioti propongono un affare interessante e giuro che l'idea è approvata da Washington.
Dovremmo consegnare dell'armamento chimico (CW nell'originale, NdT) a Homs, una g-shell (bomba a gas, Ndt) di origine sovietica proveniente dalla Libia simile a quelle che Assad dovrebbe avere.
Vogliono farci dispiegare il nostro personale ucraino che dovrebbe parlare russo e realizzare una registrazione video.
Francamente, non credo che sia una buona idea, ma le somme proposte sono enormi. Qual è la tua opinione?
Cordiali saluti, David."»
Come interpretare il messaggio? Nell'articolo si riassume così: «L'e-mail sarebbe stata inviata da un alto ufficiale a un appaltatore della Difesa britannica in merito a un attacco chimico "approvato da Washington" in Siria, da poter attribuire al regime di Assad.»
Insomma, il classico casus belli da scatenare con un atto spregevole "sotto falsa bandiera", da attribuire al nemico. Una cosa impensabile per la stampa allineata, ma ben presente ai piani alti della pianificazione bellica. Abbiamo visto ad esempio con quanto candore uno dei frequentatori di questi piani alti, Patrick Lyell Clawson, dichiarava la necessità di un simile pretesto, in quel caso per attaccare l'Iran:
«Francamente, penso che sia molto difficile dare inizio ad una crisi. E faccio molta fatica a vedere come il presidente degli Stati Uniti possa davvero portarci in guerra contro l'Iran. Questo mi porta a concludere che se non si troverà un compromesso, il modo tradizionale con cui l'America entra in guerra sarebbe nel miglior interesse degli Stati Uniti.» Ossia con un casus belli generato da una provocazione. «Stiamo giocando una partita coperta con gli iraniani, e potremmo anche diventare più cattivi nel farlo», concludeva il falco di Washington.
Non sempre il potere si rivela in un modo così sfrontato ed esplicito. Nell'epoca di Wikileaks e di Edward Snowden le rivelazioni passano più spesso attraverso canali elettronici e contro il volere del governo. L'articolo del Daily Mail precisava che «le e-mail sono state diffuse da un hacker malese che ha anche ottenuto i curricula degli alti dirigenti e le copie dei passaporti attraverso un server aziendale non protetto, secondo quanto riferito da Cyber War News.»
E per far capire quanto i ribelli siriani alleati degli USA e del Qatar potessero essere spregiudicati (oltre che ben addestrati) nell'uso di armi chimiche, l'articolo incorporava anche un video nel quale questi provavano gli effetti delle armi chimiche sui conigli. Il video mostra immagini particolarmente crude, attenzione:
È quantomeno curioso, per non dire di peggio, che oggi la grande stampa non ritorni sulla notizia del quotidiano londinese per approfondirla. Invece succede che tutto venga stravolto dai tamburi della propaganda bellica.
Le pagine online del 28 e 29 agosto 2013 di tutti i principali quotidiani italiani, ad esempio, titolano che "la Siria minaccia di colpire l'Europa con le armi chimiche", distorcendo in totale malafede una frase di un politico siriano che diceva tutt'altro. Il viceministro degli Esteri Faisal Maqdad criticava infatti i paesi che hanno aiutato «i terroristi» (ossia i ribelli jihadisti) ad usare le armi chimiche in Siria, ammonendo sul fatto che gli stessi gruppi nemici di Damasco «le useranno presto contro il popolo d'Europa». Tradotto: attenta Europa, ti stai allevando da sola le serpi in seno. La frase era correttamente riportata in mezzo all'articolo. Ma il lettore osservi qual è invece la cornice scelta da la Repubblica e da La Stampa (e tutti gli altri, compreso Il Fatto Quotidiano, fanno lo stesso):


 
La Stampa attribuisce addirittura la frase ad Assad (giusto per fabbricare l'ennesimo Hitler da strapazzare). Proprio Assad, in un'intervista a un giornale russo ignorata dalle redazioni italiane, due giorni prima dichiarava: «A quei politici vorrei spiegare che il terrorismo non è una carta vincente che si possa estrarre e utilizzare in qualsiasi momento si voglia, per poi riporla in tasca come se niente fosse. Il terrorismo, come uno scorpione, può pungerti inaspettatamente in qualsiasi momento. Non si può essere per il terrorismo in Siria e contro di esso in Mali.»
Basta poco per capire che i giornali italiani danno una copertura della crisi siriana totalmente manipolata e inattendibile. In Italia è ormai impensabile che un giornalista mainstream possa produrre un'articolo controcorrente come quello del Daily Mail.
Ancora oggi, quel giornale britannico, pur in mezzo a omissioni e distorsioni, in uno dei suoi più recenti articoli manifesta comunque il sospetto fortissimo che l'attacco chimico non sia opera di chi vorrebbero farci credere i governi.
A Londra i giornali vogliono ancora vendere qualche copia fra chi non si accontenta della propaganda. Da noi i giornali non fanno nemmeno il minimo sindacale per essere comprati. E il lettore si trova in guerra senza nemmeno sapere perché.

AGGIORNAMENTO DEL 1° SETTEMBRE 2013:
La giornalista Maria Melania Barone mi segnala gentilmente che la ragione più importante che ha spinto il Daily Mail a ritirare l'articolo sta nella citazione in giudizio per diffamazione presentata da Britam, il contractor della Difesa menzionato nel pezzo di Louise Boyle. Le e-mail in questione, in base alla denuncia, sono state manipolate prima della divulgazione. Il Daily Mail ha pertanto rettificato la sua posizione ritirando l'articolo controverso. 
E' in ogni caso significativo che il sospetto di azioni "false flag" abbia raggiunto la prima pagina del secondo quotidiano britannico già molti mesi fa. La clamorosa bocciatura della mozione presentata dal primo ministro David Cameron alla Camera dei Comuni per l'attacco alla Siria è stata preceduta da un dibattito parlamentare in cui il vero convitato di pietra era proprio la possibilità che l'attacco chimico fosse un pretesto, tutte le volte che i parlamentari ponevano i loro dubbi sul suo vero autore. Ed è in ogni caso clamoroso il fatto che queste inchieste, e il risultato stesso della storica disfatta parlamentare di Cameron, siano stati praticamente ignorati dalla stampa italiana.

28 agosto 2013

Gli occidentali sono pronti a bombardare la Siria?

di Thierry Meyssan.

Fingendo di credere a un attacco chimico del governo siriano contro il proprio popolo, Washington, Londra e Parigi stanno battendo i tamburi di guerra. Dovremmo prendere sul serio queste minacce da parte di Stati che annunciano come imminente, da oltre due anni, la caduta della Siria? Benché non si debba escludere questa opzione, Thierry Meyssan ritiene che sia meno probabile di un intervento organizzato dall'Arabia Saudita. Questa agitazione avrebbe piuttosto lo scopo di testare le reazioni della Russia e dell'Iran.

Cosa frulla per la testa del premio Nobel per la Pace Barack Obama? Domenica 25 agosto, la Casa Bianca ha rilasciato una dichiarazione in cui un anonimo alto funzionario ha affermato che ci sono "pochissimi dubbi" sull'uso da parte della Siria di armi chimiche contro la propria opposizione. Il comunicato aggiunge che l'accordo della Siria per far entrare gli ispettori delle Nazioni Unite nella zona arriva “troppo tardi per essere credibile”.
Sebbene l'uso di armi chimiche nella periferia di Damasco - in data mercoledì 21 agosto 2013 - sia assai probabile, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non ha concluso che sia opera del governo siriano. Riuniti in emergenza su richiesta degli occidentali, gli ambasciatori sono rimasti sorpresi nel vedere il loro collega russo presentar loro delle foto satellitari che mostrano il tiro di due obici alle ore 01:35 del mattino, dalla zona ribelle di Duma verso le zone ribelli colpite dai gas (a Jobar e tra Arbin e Zamalka), in orari coincidenti con i disturbi rilevati. Le foto non ci consentono di sapere se si trattasse di obici chimici, ma lasciano pensare che la "Brigata dell'Islam" che occupa Duma abbia preso ben tre piccioni con una fava: da una parte rimuovere il sostegno dei suoi rivali in seno all'opposizione, d'altra parte accusare la Siria di aver fatto ricorso alle armi chimiche, infine interrompere l'offensiva dell'esercito arabo siriano volta a liberare la capitale .
Ancorché il governo siriano – esattamente come il suo nemico israeliano - non abbia firmato la Convenzione contro le armi chimiche e disponga di ampie scorte, anche i jihadisti ne possiedono, come ha confermato Carla Del Ponte, suscitando la furia del Commissario per i diritti umani. A dicembre, l'Esercito siriano libero aveva diffuso un video che mostrava un laboratorio chimico e minacciava gli alauiti. Questa settimana, il governo ha scoperto parecchi nascondigli di armi chimiche, maschere antigas e antidoti nei sobborghi di Damasco. I prodotti provenivano dall'Arabia Saudita, dal Qatar, dagli Stati Uniti e dai Paesi Bassi. È d'altronde su richiesta del governo siriano, e non degli occidentali, che gli ispettori dell'ONU sono presenti in Siria per due settimane, al fine di indagare sulle accuse di utilizzo. Infine, il 29 maggio 2013, la polizia turca ha arrestato una decina di membri del Fronte Al-Nusra e sequestrato armi chimiche che dovevano essere utilizzate in Siria.
Tuttavia, venerdì il presidente Obama ha riunito il suo Consiglio Nazionale di Sicurezza per esaminare le opzioni di attacco contro la Siria, alla presenza dell'Ambasciatrice Samantha Power, capofila dei falchi liberali. Ha deciso di rafforzare la presenza militare USA nel Mediterraneo, inviando un quarto cacciatorpediniere, caricato con missili da crociera, l'USS Ramage. Si aggiunge all'USS Gravely, l'USS Barry e l'USS Mahan che si è mantenuto nella zona quando doveva rientrare in porto.
Sabato ha chiamato al telefono il primo ministro britannico David Cameron. E domenica ha parlato con il presidente francese François Hollande. I tre uomini hanno convenuto che occorreva intervenire senza specificare come. Sempre domenica, il segretario di Stato John Kerry ha chiamato i suoi omologhi britannico, francese, canadese e russo per dir loro che gli Stati Uniti avevano la convinzione che la Siria avesse attraversato la "linea rossa".
Mentre i primi tre interlocutori lo ascoltavano stando dritti sull'attenti, il russo Sergey Lavrov manifestava tutto il suo stupore sul fatto che Washington si pronunciasse prima della relazione degli ispettori delle Nazioni Unite. Gli ha risposto ammonendolo sulle "conseguenze estremamente gravi" che rappresenta un intervento nella regione.
Lunedì il ministro francese della Difesa, Jean-Yves Le Drian era in Qatar e doveva recarsi negli Emirati per coordinarsi con essi. Mentre il consigliere per la sicurezza nazionale israeliana, il generale Yaakov Amidror, è stato ricevuto alla Casa Bianca. Nel corso di una conversazione telefonica tra il primo ministro britannico David Cameron e il presidente russo Vladimir Putin, quest'ultimo ha sottolineato che non vi era alcuna prova dell'uso di armi chimiche da parte della Siria. Da parte sua, il viceministro cinese degli Affari Esteri, Li Baodong, ha chiamato il suo omologo statunitense, Wendy R. Sherman, per invitare gli Stati Uniti ad esercitare moderazione. Consapevole del rischio di una guerra regionale in cui i cristiani sarebbero le prime vittime, Papa Francesco ha ribadito il suo appello per la pace.

Dovremmo quindi pensare che l'Occidente andrà in guerra senza un mandato del Consiglio di sicurezza, come la NATO fece in Jugoslavia? È poco probabile, perché all'epoca la Russia era in rovina, oggi dovrebbe intervenire dopo aver pronunciato tre veti per proteggere la Siria o rinunciare a qualsiasi azione internazionale. Tuttavia Sergey Lavrov ha saggiamente scartato una terza guerra mondiale. Ha detto che il suo paese non era pronto a entrare in guerra contro chiunque, neanche a proposito della Siria. Potrebbe quindi trattarsi di un intervento indiretto a sostegno della Siria, come ha fatto la Cina durante la guerra del Vietnam.
L'Iran ha fatto quindi sapere, attraverso il suo vice capo di stato maggiore, Massoud Jazayeri, che per lui l'attacco alla Siria sarebbe l'attraversamento della "linea rossa" e che se fosse passata all'azione , la Casa Bianca si troverebbe a sopportare "gravi conseguenze". Certo l'Iran non ha né le risorse della Russia, né le sue alleanze, ma fa sicuramente parte delle prime 10 potenze militari mondiali. Pertanto, attaccare la Siria significa prendersi il rischio di ritorsioni contro Israele e di rivolte in gran parte del mondo arabo, specie in Arabia Saudita. Il recente intervento della forza libanese di Hezbollah e le dichiarazioni del suo segretario generale, Hassan Nasrallah, come pure quelle dell'organizzazione palestinese FPLP-Comando generale, non lasciano adito a dubbi.
Intervistato dalla stampa russa, il presidente siriano Bashar al-Assad, ha dichiarato: "Le dichiarazioni fatte dai politici negli USA e in altri paesi occidentali rappresentano un insulto al buon senso e una mancanza di riguardo nei confronti dell'opinione pubblica dei cittadini di quei paesi. È un'assurdità: in primo luogo, sollevano le accuse, e poi raccolgono le prove. Ed è uno dei più potenti paesi a far questo: gli Stati Uniti. (...) Questo genere di accuse è esclusivamente politico, rispondono alla serie di vittorie registrate dalle forze governative sui terroristi".
In Russia, il Presidente della Commissione Affari Esteri della Duma, il giornalista ed esperto di geopolitica Alexei Pushkov, ha commentato sul suo account Twitter:
"Washington e Londra hanno dichiarato Assad colpevole ben prima delle conclusioni degli ispettori dell'ONU. Non accetteranno altro che un verdetto di colpevolezza. Qualsiasi altro verdetto sarà respinto."
Il principio di una nuova guerra in Siria non quadra bene con i problemi economici degli Stati Uniti e degli europei. Quantunque la vendita di armi sia un modo per fare soldi, distruggere uno stato senza speranza di ritorno sugli investimenti a breve o a medio termine, non potrà che aggravare la situazione.
Secondo un sondaggio Reuters/Ipsos condotto dopo l'attacco del 21 agosto, il 60% degli statunitensi si oppone a un'intervento in Siria contro il 9% che lo sostiene. Se venissero convinti dell'uso di armi chimiche in Siria, rimarrebbero in una misura del 46% ad opporsi comunque alla guerra e diventerebbero il 25% in favore. Lo stesso sondaggio indica che gli statunitensi apprezzano ancora meno la guerra segreta: addirittura l'89% dichiara che non si dovrebbe più armare i ribelli, contro l'11% che li vuole armare ancora. Infine, quattro opzioni sono state presentate ai partecipanti: attacchi aerei (sostenuti dal 12%), la creazione di una no-fly zone (11%), il finanziamento di una forza multinazionale (9%), e un intervento diretto degli Stati Uniti (4%).
In Francia, Le Figaro, edito dal mercante d'armi Dassault, ha posto la questione ai suoi lettori: alla fine della giornata, era il 79,6% ad opporsi alla guerra contro il 20,4% in favore.
Sarà sicuramente difficile per gli occidentali rovesciare l'orientamento della loro opinione pubblica ed entrare in guerra.

Un'altra interpretazione degli avvenimenti è possibile: alcuni video che mostrano le vittime degli attacchi chimici si sono diffusi su internet poche ore prima degli attacchi. Sarà sempre possibile per gli occidentali "scoprire" l'inganno nel tempo e far marcia indietro. Tuttavia il caso delle armi chimiche in Iraq ha dimostrato che gli occidentali potevano mentire alla comunità internazionale e ammetterlo poi senza danno né pena una volta maturato il fatto compiuto.
Le accuse degli jihadisti e dei loro sponsor occidentali sono intervenute non appena l'esercito arabo siriano ha lanciato una grande offensiva, "Scudo di Damasco", per liberare la capitale. Il colpo dei due obici della "Brigata dell'Islam" corrisponde all'inizio dell'offensiva, che si è svolta per 5 giorni e ha provocato perdite significative tra i jihadisti (almeno 1.500 morti e feriti, sui circa 25.000 presenti). Tutta questa agitazione può essere solo una forma di guerra psicologica intesa sia a nascondere questa sconfitta sia a tentare di paralizzare l'offensiva siriana. È sopratutto un modo da parte di Washington di testare la risposta iraniana dopo l'elezione di Sheikh Hassan Rohani alla sua presidenza. Ed è ormai chiaro che questi non intende opporsi alla politica della Guida della Rivoluzione, l'ayatollah Ali Khamenei.

Nondimeno, durante la guerra contro la Libia, avevo sottovalutato la capacità degli Stati Uniti di violare tutte le regole, comprese quelle della NATO. Mentre, basandomi su documenti dell'Alleanza Atlantica, insistevo sulla lunga capacità di resistenza della Jamahiriya di fronte alla sua opposizione armata , ignoravo lo svolgersi di una riunione segreta presso la base NATO di Napoli, dietro le quinte del Consiglio Atlantico. A quel tempo, gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, la Danimarca e la Turchia - oltre a Israele, Qatar e Giordania - pianificavano in segreto l'uso di mezzi dell'Alleanza per bombardare Tripoli [1].
Non fidandosi dei loro alleati, che sapevano contrari a un attacco così costoso in termini di vite umane, non li avevano avvertiti. L'Alleanza Atlantica non era più un'Alleanza nel vero senso della parola, ma una Coalizione ad hoc. In pochi giorni, la presa di Tripoli ha fatto almeno 40mila morti, secondo i rapporti interni della Croce Rossa.
Un dispositivo simile è forse in corso di allestimento: i capi di stato maggiore all'incirca degli stessi Stati, più l'Arabia Saudita e il Canada, si sono riuniti da domenica fino alla sera del 27 agosto ad Amman, sotto la presidenza del comandante del CentCom, il generale Lloyd J. Austin III. Sul tavolo i dettagli di cinque possibili opzioni (forniture di armi ai Contras; bersagli mirati; creazione di una no-fly zone; creazione di zone cuscinetto; invasione terrestre).
La stampa atlantista fa appello alla guerra. Il Times di Londra l'annuncia.
Il presidente Barack Obama potrebbe così seguire il piano di guerra elaborato dal suo predecessore George W. Bush il 15 settembre 2001, che prevedeva, oltre agli attacchi contro l'Afghanistan e l'Iraq, quelli alla Libia e alla Siria, come ha rivelato l'ex comandante della NATO, generale Wesley Clark [2].
Solo che, per la prima volta, il bersaglio dispone di forti alleanze.

Con tutto ciò, la nuova retorica USA contraddice tutti gli sforzi prodotti dall'amministrazione Obama da un anno in qua, durante cui si è applicata per eliminare gli ostacoli allo svolgimento della conferenza di Ginevra 2: dimissioni del generale David Petraeus e dei sostenitori della guerra segreta; non riconferma del mandato di Hillary Clinton e degli ultra-sionisti; rimessa in causa degli oppositori irriducibili a un'alleanza con la Russia, in particolare in ordine alla NATO e allo scudo antimissile.
Contraddice similmente anche gli sforzi di John Brennan volti a provocare scontri in seno all'opposizione armata siriana e ad esigere l'abdicazione dell'emiro del Qatar, nonché a minacciare l'Arabia Saudita.

Da parte siriana, ci si prepara - per quanto si può - ad ogni evenienza, compreso un bombardamento da parte della NATO contro i centri di comando e i ministeri, coordinato con un assalto degli jihadisti contro la capitale. Tuttavia, l'opzione più probabile non è lo scatenamento di una guerra regionale che oltrepasserebbe le potenze occidentali. È semmai un attacco in autunno, sotto la supervisione dell'Arabia Saudita e approvato dai combattenti che essa recluta attualmente. Alla fine, questa operazione potrebbe essere sostenuta dalla Lega araba.

Thierry Meyssan, 27 agosto 2013.
Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.


NOTE:

[1] L'elenco delle decisioni di questa riunione include un lungo elenco degli obiettivi e dei mezzi loro dedicati. Un paragrafo prevedeva di inviare un commando per eliminarmi all'Hotel Radisson, dove mi trovavo. Tuttavia, durante l'attacco, mi trovavo al centro stampa del Rixos Hotel.

[2] Questo piano prevede di distruggere anche il Libano, poi il Sudan e la Somalia, per terminare con l'Iran.
http://www.dailymotion.com/video/xlp2d6_le-plan-us-post-11-9-envahir-7-pays-dont-l-irak-la-lybie-la-syrie-et-l-iran-selon-le-general-us-wesl_news





25 agosto 2013

Il pubblico occidentale spaventato dal generale Al-Sissi

di Thierry Meyssan.
Mentre gli egiziani sostengonono al 95% il colpo di stato militare che ha rovesciato il presidente Morsi, la stampa occidentale strepita contro il ritorno della dittatura e piange i morti civili della repressione. Per Thierry Meyssan, questo atteggiamento deriva dalla castrazione delle popolazioni occidentali che hanno dimenticato le lezioni dei loro antenati e pensano che tutti i conflitti possano trovare delle soluzioni pacifiche.

La stampa negli Stati Uniti e in Europa fa causa comune contro il colpo di stato militare in Egitto e lamenta il migliaio di morti che ne sono seguiti. Risulta evidente per essa che gli egiziani, che hanno rovesciato la dittatura di Hosni Mubarak, sono oggi le vittime di una nuova dittatura e che Mohamed Morsi, eletto "democraticamente", sia l'unico legittimato a esercitare il potere.
Tuttavia, questa visione delle cose è contraddetta dall'unanimità con cui la società egiziana si schiera dietro il suo esercito. 
Abdelfatah Al-Sissi ha annunciato la destituzione del Presidente Morsi alla presenza dei rappresentanti di tutte le sensibilità del paese, compreso il rettore di Al-Azhar e il capo dei salafiti, venuti ad approvarla. Può vantarsi di essere sostenuto nella sua lotta dai rappresentanti del 95% dei suoi compatrioti. 
Per gli egiziani, la legittimità di Mohamed Morsi non si misura nel modo in cui è stato designato alla carica di presidente, con o senza le elezioni, ma con il servizio che ha reso o meno al paese. Ora, i Fratelli hanno per lo più dimostrato che il loro slogan "L'Islam è la soluzione!" mascherava male la loro impreparazione e la loro incompetenza.
Per l'uomo della strada, il turismo si è rarefatto, l'economia è regredita, e la sterlina è precipitata del 20%.
Per le classi medie, Morsi non è mai stato eletto democraticamente. La maggior parte dei seggi elettorali erano stati occupati militarmente dai Fratelli Musulmani e il 65% degli elettori si sono astenuti. Questa farsa è stata coperta dagli osservatori internazionali inviati dagli Stati Uniti e dall'Unione europea che sostenevano la Fratellanza. A novembre, il presidente Morsi ha abrogato la separazione dei poteri, vietando ai tribunali di contestare le sue decisioni. Poi ha sciolto la Corte Suprema e ha revocato il procuratore generale. Ha abrogato la Costituzione e ne ha fatto redigere una nuova da una commissione da lui nominata, prima di fare adottare questa legge fondamentale in un referendum boicottato dal 66% dei votanti.
Per l'esercito, Morsi ha annunciato la sua intenzione di privatizzare il Canale di Suez, simbolo dell'indipendenza economica e politica del paese, e di venderlo ai suoi amici del Qatar. Ha iniziato la vendita dei terreni pubblici nel Sinai a personalità di Hamas affinché trasferissero in Egitto i lavoratori di Gaza e permettessero così a Israele di finirla con la sua "questione palestinese". Soprattutto, ha fatto appello a entrare in guerra contro la Siria, avamposto storico dell'Egitto nel Levante. Così facendo, ha messo in pericolo la sicurezza nazionale, che gli spettava proteggere.
Tuttavia, il problema fondamentale degli occidentali di fronte alla crisi egiziana rimane il rapporto con la violenza. Visto da New York o da Parigi, un esercito che spara proiettili veri contro i manifestanti è tirannico. E la stampa non fa che evidenziare, per aggiungere orrore all'orrore, che molte delle vittime sono donne e bambini.
È una visione castrata delle relazioni umane nella quale una persona sarebbe disposta a dibattere in quanto disarmata. Ma il fanatismo è un comportamento che non ha nulla a che fare con il fatto di essere armati o meno. Gli occidentali hanno già affrontato questo problema 70 anni fa. All'epoca Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill fecero radere al suolo intere città, come Dresda (Germania) e Tokyo (Giappone), la cui popolazione civile era disarmata. Questi due leader non sono considerati malgrado ciò come dei criminali, ma sono celebrati come eroi. Era evidente e indiscutibile che il fanatismo dei tedeschi e dei giapponesi rendeva impossibile qualsiasi soluzione pacifica.
I Fratelli musulmani sono terroristi e devono essere sconfitti? Qualsiasi risposta univoca e globale sarebbe sbagliata, perché ci sono molte tendenze in seno alla Fratellanza internazionale. Tuttavia, il loro bilancio parla da sé: hanno una lunga e oscura storia di golpisti in molti stati arabi. Nel 2011, hanno organizzato l'opposizione a Muammar el-Gheddafi e hanno approfittato del suo rovesciamento da parte della NATO. Continuano la lotta armata per conquistare il potere in Siria. Per quanto riguarda la Fratellanza in Egitto, il presidente Morsi ha riabilitato i killer del suo predecessore Anwar Sadat e li ha rilasciati. Ha inoltre nominato governatore di Luxor il numero due del commando che proprio lì vi aveva massacrato 62 persone, per lo più turisti, nel 1997. Inoltre, durante il semplice appello a dimostrare lanciato dai Fratelli affinché si riportasse in carica il "loro" presidente, essi si sono vendicati bruciando 82 chiese copte.
La repulsione degli occidentali per i governi militari non è condivisa dagli egiziani, l'unico popolo al mondo ad essere stato governato esclusivamente dai militari - con l'eccezione dell'anno di Morsi - per oltre 3000 anni.

Thierry Meyssan, 25 agosto 2013.



Traduzione a cura di Matzu Yagi.

Questa "cronaca settimanale di politica estera" appare simultaneamente in versione araba sul quotidiano "Tichreen" (Siria), in versione tedesca sulla "Neue Reinische Zeitung", in lingua russa sulla "Komsomolskaja Pravda", in inglese su "Information Clearing House", in francese sul "Réseau Voltaire".

13 agosto 2013

11/9. Quella Terza Torre crollata da ricordare

di Giulietto Chiesa.


Ci stiamo avvicinando al 12-mo anniversario degli eventi dell’11 settembre 2001 e il movimento mondiale che chiede verità e giustizia è in piena mobilitazione. E’ stata lanciata una campagna di sensibilizzazione che fa riferimento al sito ReThink911.org. Sono stati raccolti già 225.000$, che consentiranno d’innalzare un cartello pubblicitario alto cinque piani in Times Square. Vi resterà esposto (sempre che Obama non lo vieti) per 28 giorni, dal 2 al 30 settembre. Mi piacerebbe che anche in Italia si potesse fare qualche cosa del genere, ma qui non siamo così bene organizzati.
Io qui do il mio contributo in qualità di membro del Consensus911 Panel, il quale ha continuato a lavorare lungo tutto il 2013 e continuerà a farlo, come sanno coloro che seguono il mio blog.
Qui riprendo alcuni (non tutti, per ragioni di spazio) dei punti salienti che concernono il crollo della terza torre del WTC, quella che viene chiamata WTC-7 e che crollò alle ore 17:20 circa, senza essere stata colpita da nessun aereo.                                    
Se chiedete al primo che vi capita, di età superiore ai 20 anni, quante furono le torri crollate l’11 settembre, avrete quasi sempre la stessa, stranita risposta: due, ovviamente. Due aerei, due torri: dunque furono gli aerei ad abbattere le Twin Towers.
Invece no. Le torri abbattute furono tre. E questo provoca ancora adesso molti mal di testa a chi vuole sostenere la versione ufficiale. Vediamo i dettagli esaminati dal Consensus911 Panel (chi vuole può passarli in rassegna tutti andando sul sito, ora anche in italiano).
Il WTC-7 si trovava a due isolati dalle Twin Towers.  Fu colpito e danneggiato dai detriti della torre nord. Pompieri e polizia fecero sgombrare e comunicarono a molti giornalisti che “presto sarebbe crollato”. Alle 5:20 del pomeriggio l’attico della parte est dell’edificio crolla. Visibilmente con qualche secondo di anticipo rispetto al crollo dell’attico ovest, mentre, in simultanea l’intero edificio comincia a scendere in caduta libera.
Notazione utile. Il “9/11 Commission Report”, la commissione ufficiale che  avrebbe dovuto dare risposta alla miriade di interrogativi rimasti aperti su quello strano attentato, non fa cenno alcuno, nelle sue oltre 500 pagine, al crollo del WTC-7. Come non fosse esistito. Strano nevvero? Invece a noi pare che quel crollo, più e meglio di tante altre questioni, contiene molte chiavi per ri-aprire la storia del 9/11.
Anche il National Institute to Standards and Technologies (NIST), cui fu affidata l’indagine tecnica sui crolli, si occupò solo delle Twin Towers. Strano nevvero? Ci vollero più di sette anni per sapere cosa il NIST pensava del crollo del WTC-7. E si dovette aspettare il novembre 2008 per leggere il “Final NIST Report on the Collapse of World Trade Center Building 7”.
Come vedremo tra poco, anni spesi assai male. Infatti quelli del NIST li impiegarono ad arrampicarsi sugli specchi alla ricerca di uno straccio di risposta. Non lo trovarono. In compenso ne inventarono alcuni, diversi e perfino contrastanti tra loro. E fu una fortuna per loro che l’intero mainstream americano li aiutò a nascondere la verità.
Su quali punti si basa infatti quel rapporto? Quello cruciale è che il WTC-7, in mancanza di un aereo, crollò “soltanto a causa del fuoco dell’incendio”. Il crollo, aggiunsero, non fu in caduta libera bensì in caduta “progressiva”. A sostegno di queste tesi venne prodotta una simulazione al computer. Vedere per credere. Sfortunatamente questa conclusione non quadra per niente con i dati a disposizione. Chi osservi i filmati (che, non a caso, furono resi noti solo a distanza di qualche anno) può accertare che l’East Penthouse crolla per conto proprio qualche secondo prima del resto. Lassù non c’erano danni visibili dei detriti, che erano molto più in basso.  In quegli attimi i filmati mostrano il WTC-7 ancora intatto. Ci sono incendi, ma di piccola entità.
Poi il collasso, che avviene simultaneamente su tutta la lunghezza dell’edificio (circa 100 metri, da est a ovest). I piani – di nuovo osservare bene i filmati – rimangono perfettamente paralleli mentre l’edificio sprofonda in una nuvola di polvere identica a quelle delle Twin Towers. Dunque non si registrano cedimenti settoriali. L’edificio entra in caduta libera tutto intero, senza perdere la sua forma.
Attenzione però a un salto logico del NIST. Il quale, come s’è detto,  conclude che fu il fuoco a far crollare l’edificio e che i detriti che lo colpirono  non furono “determinanti”.  Ma poi, altrove, viene detto che i cedimenti strutturali  che produssero la “progressiva” caduta  furono provocati “anche” dalle distruzioni prodotte dai detriti. La ricostruzione al computer del collasso, prodotta dal NIST, naviga in questa ambiguità, ma non corrisponde in alcun modo agli eventi osservati.
Resta dunque solo il fuoco a spiegare il tutto. Ma nemmeno il fuoco può contraddire le immagini televisive ed è stato ad abundantiam dimostrato che nemmeno un incendio di gigantesche proporzioni (che per altro non ci fu) avrebbe potuto trasformare le travi d’acciaio che sostenevano l’edificio in salcicce pieghevoli. Tutte le analisi scientificamente decenti hanno accertato l’evidente implausibilità dell’ipotesi che un edificio in acciaio entri in caduta libera. Non avviene, non è mai avvenuto, non può avvenire. A meno che non vi siano stati esplosivi per scardinare i supporti e le connessioni tra le travature.
Siamo dunque di fronte a due affermazioni smentite dai fatti (il crollo “progressivo” al posto della “caduta libera”) e  il fuoco come causa del crollo.  Lo stesso capo investigatore del NIST, Shyam Sunder , in contraddittorio pubblico, nell’agosto 2008, poco prima della pubblicazione del rapporto, si lascia sfuggire ammissioni talmente gravi da richiedere il ritiro del filmato che le conteneva (sostituito da una nuova versione del 17 settembre 2010). Ma anche nella seconda versione il NIST è costretto a confermare che ci fu una “accelerazione gravitazionale” (cioè caduta libera) di 2,25 secondi.
La simulazione al computer non dimostra niente. Per sollevarne le sorti sarebbe forse utile che il NIST accettasse gentilmente di  pubblicare i dati dei modelli su cui hanno lavorato i suoi computers. Purtroppo questi dati non sono stati rivelati. E sono passati altri 5 anni.

Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/08/19/una-pistola-fumante-in-piu-sul-crollo-del-world-trade-center/687012/.

Tratto da:


ARTICOLO CORRELATO:
Pino Cabras, Il crollo dell'Edificio 7: morta una teoria ufficiale se ne fa un'altra, 5 settembre 2008.

6 agosto 2013

Il nuovo patto transatlantico (TTIP) e il potere dell'economia

di Gaetano Colonna.


Nonostante siano sotto gli occhi di tutti i risultati del liberismo assoluto che ha dominato l'economia globale nel corso degli ultimi decenni, Stati Uniti ed Unione Europea stanno mettendo a punto il nuovo strumento giuridico che consentirà alle grandi compagnie multinazionali di influire sulle scelte sociali e politiche dei singoli Stati europei, allo scopo di affrontare da posizioni rafforzate la competizione globale per l'egemonia sull'economia-mondo del XXI secolo.
Lo scorso luglio infatti, a Washington, si sono ufficialmente aperte le trattative sulla Transatlantic Trade and Investiment Partnership (TTIP), un'ipotesi di accordo economico globale tra Usa e UE che potrebbe stabilire i principi della riorganizzazione economica dell'Occidente nel pieno di una crisi che sempre più dimostra di essere strutturale e non congiunturale. Unione Europea e Stati Uniti, infatti, rappresentano insieme quasi metà del Prodotto Interno Lordo del pianeta ed un terzo del commercio mondiale: ogni giorno tra le due sponde dell'Atlantico vengono scambiati beni e servizi per 2 miliardi di euro, mentre gli investimenti reciproci toccano quasi i 3.000 miliardi di euro. Si tratta quindi non solo dell'area che ha dato storicamente vita al capitalismo occidentale, ma soprattutto della principale concentrazione economico-finanziaria del capitalismo internazionale odierno.
Il progetto TTIP si è sviluppato nel corso della grande crisi epocale che attraversiamo, a partire dal 2007, ma ha conosciuto un'accelerazione negli ultimi mesi, pur restando sotto traccia nell'attenzione mediatica anche a motivo di una particolare riservatezza sui protagonisti effettivi della sua elaborazione, al punto che l'Unione Europea si è rifiutata fino ad ora di fornire i nomi dei componenti della commissione tecnica mista, costituita nel novembre 2011 per predisporre l'agenda dei lavori e le analisi preliminari (High-Level Working Group on Jobs and Growth), a parte quelli dei due responsabili, lo statunitense Ron Kirk ed il commissario per il commercio della Ue, il belga Karel De Gucht: a nulla sono servite, ad esempio, le richieste di conoscere i nomi degli altri autorevoli membri del gruppo di lavoro da parte di Pascoe Sabido, dell'organizzazione Ask the EU, nonostante la sua organizzazione si sia appellata alle norme comunitarie sul diritto all'informazione.


A chi interessa il TTIP?

Non è tuttavia difficile individuare i promotori di questa iniziativa, al di là dei singoli nomi dei protagonisti: sono le grandi multinazionali che dominano il panorama mondiale dell'economia, riuniti in gruppi di pressione su entrambe le sponde dell'Atlantico che da decenni esercitano una fortissima influenza, mediante tutti gli strumenti del lobbying moderno, sugli organismi regolatori del mercato europeo, siano essi l'Unione Europea o i singoli Stati nazionali. Se per esempio consideriamo il principale dei gruppi statunitensi che operano per indirizzare le trattative del TTIP, la Business Coalition for Transatlantic Trade (BCTT), troviamo che nel consiglio direttivo dell'associazione sono direttamente presenti aziende come Amway, Chrysler, Citi, Dow Chemical, FedEx, Ford, General Electrics, IBM, Intel, Johnson & Johnson, JP Morgan Chase, Lilly, MetLife e UPS, mentre tra le associazioni che aderiscono alla coalizione troviamo Business Roundtable, Coalition of Service Industries, Emergency Committee for American Trade, National Association of Manufacturers, National Foreign Trade Council, Trans-Atlantic Business Council, U.S. Chamber of Commerce, U.S. Council for International Business. Ben si vede che il gotha delle grandi imprese americane internazionalizzate è direttamente impegnato per orientare secondo i propri desiderata i rappresentanti dei governi.
Nonostante questo, solamente le preoccupazioni francesi sugli effetti che il TTIP potrebbe avere sui sussidi alla propria industria audiovisiva hanno fatto notizia per qualche giorno, senza che ovviamente il cittadino europeo potesse mettere bene a fuoco i termini della questione.
Eppure questo accordo potrebbe avere effetti importanti su tutti gli aspetti della vita sociale europea nei prossimi decenni, dato che esso investe tutti i settori economici (prodotti, beni e servizi) per assoggettarli al principio fondamentale dell'abolizione di ogni barriera regolamentativa, tariffaria e non, omogeneizzando le normative e gli standard applicativi, eliminando quanto più possibile strumenti a garanzia del consumatore come possono essere, ad esempio, controlli, etichettature e certificazioni, ritenuti tutti "barriere indirette" al libero scambio. Il tutto in una gamma di business che va dalla chimica-farmaceutica alla sanità, dalle auto all'istruzione, dall'agricoltura ai cosiddetti commons (i beni comuni come l'acqua), agli strumenti bancari e finanziari.
L'esempio più semplice è quello degli organismi geneticamente modificati, la cui introduzione massiva nell'agricoltura europea è stata fino ad oggi rallentata da una serie di regole definite dall'Unione Europea, in conseguenza del massiccio rifiuto dell'opinione pubblica continentale nei confronti di queste tecnologie. Regole e controlli che si sono ispirati al cosiddetto "principio di precauzione", secondo cui in presenza di potenziali rischi per la salute e per l'ambiente, sono necessarie speciali cautele nell'introduzione e commercializzazione di tecnologie e di prodotti.
Le grandi multinazionali dell'agro-industria mondiale stanno combattendo da un decennio contro queste regole che a loro dire costituiscono appunto una barriera commerciale indiretta nei confronti di prodotti che, sempre a loro avviso, sarebbero "sostanzialmente equivalenti" alle sementi non ingegnerizzate. Nel caso in cui il TTIP diventasse operativo, a partire dal 2015, molte di queste regolamentazioni che rendono più difficile la diffusione degli Ogm in agricoltura diverrebbero illegittime e quindi i grandi gruppi della chimica e della genetica agricola (spesso aziende dominanti anche nel settore della salute) non avrebbero più ostacoli nella commercializzazione di massa dei loro prodotti in una delle tre più grandi agricolture mondiali, quella europea appunto.


Le multinazionali condizionano la legge degli Stati

In questo modo, quindi, le grandi imprese economiche compiono un passo decisivo nella storia del loro rapporto con il potere regolatorio degli Stati: acquisiscono cioè la capacità di intervenire direttamente sul piano legale contro leggi e regolamenti che esse ritengono non conformi ai propri interessi di profitto.
Il TTIP infatti renderebbe immediatamente possibile citare in giudizio l'Unione Europea e gli Stati nazionali senza dover affrontare la giurisdizione tradizionale pubblica, come già sta accadendo ad esempio nel NAFTA (North-American Free Trade Agreement), eliminando quindi alla radice una delle tradizionali prerogative degli Stati-nazione moderni, vale a dire quello di esercitare il potere giudiziario sul proprio territorio. Non a caso il fenomeno delle investor-state arbitration, che scavalca le giurisdizioni nazionali, si è già sviluppato a livello globale tanto che, alla fine del 2012, erano aperti 514 contenziosi di questo tipo, con una crescita del 250% rispetto all'anno 2000: 58 di essi sono stati aperti solo nell'ultimo anno, dimostrando che il ricorso a questo strumento giuridico non-statale è di crescente importanza per le grandi multinazionali; ben 329 (vale a dire il 64%), interessano gli Usa o la Ue, mettendo in luce una delle più sottili ma fondamentali motivazioni del TTIP, quella appunto di fornire alle imprese multinazionali uno strumento per eliminare quanto più possibile l'intervento normativo dei poteri pubblici rispetto agli interessi di profitto economici.
Non basta: per quanto infatti si possa e si debba oggi essere critici nei confronti dell'Unione Europea, è un fatto che "il Trattato [di Lisbona del 2009] ha creato l'opportunità per la UE di fare tesoro dell'esperienza degli accordi esistenti in tema di investimenti, colmandone le lacune e sviluppando una nuova generazione di trattati, senza necessità di risolvere contenziosi diretti fra investitori e Stati, introducendo obblighi per gli investitori e definizioni più precise e restrittive in merito ai loro diritti" (1). Questa capacità normativa di livello comunitario rappresentava a livello mondiale un'inversione di tendenza rispetto alla crescente capacità del capitalismo internazionale di interferire nel potere legislativo e giudiziario, proprio grazie a strumenti come gli investor-state arbitration.
Non si tratta di una questione da poco, dato che una delle principali linee di tendenza patologiche dei nostri tempi è proprio il fatto che l'economia debordi in maniera ormai incontrollabile nella sfera politico-giuridica, mettendo a rischio diritti essenziali, in primo luogo quelli che tutelano il lavoro, ma anche in tema di protezione dell'ambiente, della salute, dei beni comuni essenziali come suolo, acqua, aria, dei fattori strategici nello sviluppo dei popoli, come la cultura e l'istruzione - insomma tutte quelle aree che dovrebbero essere sottratte alla pura logica del profitto, dato che investono l'essere umano in quanto entità non puramente materiale.


Geopolitica e geo-economia del TTIP

Non vi è dubbio che storicamente lo sviluppo dell'Unione Europea e dell'egemonia del capitalismo Usa siano strettamente connessi. Nessuno può negare infatti che il processo di unificazione europea è stato originariamente dipendente dai legami economici che gli Usa avevano stabilito nel corso della Seconda Guerra mondiale, prima, e consolidato poi con il Piano Marshall, che ha rappresentato un fondamentale strumento di integrazione delle economie del Nord Atlantico. Il TTIP è in perfetta continuità con questa storia: ben comprensibile dunque che lo si voglia introdurre oggi che quell'asse portante della storia economica del secondo dopoguerra è minacciato dalla crescente potenza economica dei Paesi fino ad oggi rimasti ai margini della struttura trilaterale post-bellica, imperniata sugli Usa, Europa occidentale e Giappone. Brasile, Cina, India e Russia sono i nuovi competitori che possono mettere in difficoltà l'asse nord-atlantico, anche perché i loro sistemi politici hanno natura e storia molto diverse da quelli dell'Unione Europea, le cui fondamenta dovrebbero ancora posare sul trinomio libertà, eguaglianza e fraternità.
Il TTIP è quindi prima di tutto concepito nel quadro di una politica di potenza economica che ben poco ha a che vedere con la liberalizzazione dei flussi commerciali e degli investimento a livello mondiale, e ancor meno con quella crescita del lavoro e dell'occupazione che pure viene indicata dai fautori del TTIP come benefico effetto della sua introduzione. Ben poco infatti contano oggi i presunti 120 miliardi di euro di crescita che dovrebbero derivare dall'accordo, dato che, distribuiti nel'arco di un decennio, incidono per nemmeno mezzo punto percentuale del PIL europeo. La crescita in termini di occupazione e di sviluppo non è quindi l'obiettivo reale di cui tanto parlano i documenti del misterioso High Level Working Group on Jobs and Growth, soprattutto in presenza di una crisi che ha devastato l'economia europea in termini che è ancora difficile quantificare, ma rispetto ai quali il citato beneficio è sicuramente ben poca cosa.
Quello che più conta, ai fini della lotta di potere economico globale, è la definizione di una sorta di "carta dei diritti" giuridici fondamentali delle grandi multinazionali, rispetto a quelli dei cittadini e dei lavoratori. Tale "carta dei diritti" si rende sempre più necessaria per le ragioni che l'economista americano Michael Hudson ha recentemente illustrato in modo estremamente chiaro: siamo entrati nella "Fase 2", quella della "eredità" dell'economia speculativa che da trent'anni ha mosso l'economia mondiale, finanziarizzandola. Mentre prima le grandi forze economiche hanno utilizzato speculativamente la loro forza finanziaria, oggi gli stessi protagonisti della speculazione mondiale sono pronti "a comprare proprietà in contanti, a partire dalle proprietà pignorate che le banche vendono a prezzi stracciati" - mentre i cittadini indebitati impiegano i loro salari per pagare i debiti di mutui, carte di credito e acquisiti a rate, restando loro sì e no un quarto della loro disponibilità economica per acquistare beni e servizi.
"Si va creando una nuova classe neo-feudale che vive di rendita, impaziente di acquistare strade per imporvi pedaggi, di acquisire diritti di gestione dei parcometri (come accaduto a Chicago), di comprare prigioni, scuole ed altre infrastrutture essenziali. L'aspirazione è di introdurre costi finanziari e quindi rendite da pedaggio nei prezzi che vengono richiesti per accedere a servizi pubblici essenziali. I prezzi quindi non salgono perché i costi e i salari aumentano ma a motivo di queste rendite monopolistiche e di altre rendite di posizione. (...) Questo ambiente post-speculazione, in un'austerità incatenata al debito, sta permettendo al settore finanziario di diventare un'oligarchia molto simile ai latifondisti del XIX secolo. Si guadagna non più col prestare moneta, dato che l'economia è oberata dai debiti, ma possedendo direttamente beni da cui ricavare una rendita. Siamo quindi nella fase del "collasso economico" dell'economia della speculazione finanziaria. Affrontare questa eredità e la presa di potere della finanza sarà la battaglia politica fondamentale per il resto del XXI secolo"(2).


Un nuovo organismo sociale per l'Europa

La trasformazione della capacità economico-finanziaria in potenza politica è infatti da sempre uno degli aspetti fondamentali della storia del capitalismo, indispensabile per comprendere la crisi attuale e per risolverla.
Il liberismo di matrice anglo-sassone ha sempre costruito questo potere proprio utilizzando l'arma ideologica della libertà di commercio, dell'eliminazione delle barriere tariffarie e della liberalizzazione del profitto da vincoli e obblighi normativi: dietro queste astratte affermazioni si sono in realtà costruiti imperi economici, concentrazioni di capitali, rendite di posizione e oligarchie finanziarie che oggi sono in grado di condizionare la vita di popoli e continenti interi. TTIP è quindi interesse fondamentale solo per quelle aziende multinazionali che hanno oggi bisogno di influire sulle legislazioni statali per difendere le proprie posizioni monopolistiche - non è certo nell'interesse della stragrande maggioranza delle imprese europee, piccole e medie imprese nelle quali l'imprenditore ed i lavoratori collaborano fianco a fianco per fini economici comuni, anche se non sempre con piena coscienza di questa comunanza di vitali interessi economici e sociali.
Chiarire questo punto è fondamentale per il futuro dell'organizzazione sociale dell'Europa: sono proprio le astratte proclamazioni del liberismo che in realtà impediscono che la vita economica, sottratta al pericolo di un nuovo feudalesimo, sia autonomamente organizzata ed amministrata, dato che accordi come TTIP comportano la prosecuzione e l'estensione della patologica commistione della logica del puro profitto con la ricerca del controllo politico, fattori entrambe alla base della crisi sia dell'economia che della democrazia occidentale odierna.
Solo un'economia autonomamente amministrata da imprenditori, lavoratori e consumatori, organizzati in Consigli dell'Economia autonomi dai partiti, può sottrarre la democrazia ai potentati economico-politici che, essendo i veri creatori di questa come delle precedenti crisi del capitalismo, non saranno mai in grado di risolverle con equità ed efficacia. Fino a quando infatti non si comprenderà che l'economia deve essere ricondotta nell'ambito delle pure esigenze della produzione, circolazione e vendita di beni e servizi, restando distinta dalla componente politico-giuridica, per un verso, e culturale-spirituale delle società, dall'altro; e che, di conseguenza, i diritti del lavoro e la creazione della moneta non debbono essere confusi nell'economia, in quanto né il lavoro né la moneta sono merci; fino a quando tutto questo non sarà compreso e tradotto organizzativamente in pratica - il capitalismo occidentale recherà sempre con sé conflitti sociali e guerre fra i popoli. In presenza di un potere economico in grado di dominare quello politico-giuridico, la democrazia non può che rappresentare una finzione dietro la quale si muovono in assoluta libertà gruppi di interessi e poteri occulti.
Il TTIP, i cui colloqui riprenderanno il prossimo ottobre, comporta, da questo punto di vista, un grande pericolo per il futuro assetto dell'Unione Europea, che, già indebolita all'interno da una crisi devastante, si troverà ancor più trascinata nella pedissequa imitazione del capitalismo anglo-sassone, sistema che non è mai stato compatibile con il fondamentale impulso a libertà, eguaglianza e fraternità che da oltre due secoli ispira, nel bene e nel male, la storia di tutta l'Europa.


1) "A transatlantic corporate bill of rights", Corporate Europe Observatory and Transnational Institute, 19 luglio 2013.
http://www.opendemocracy.net/ournhs/corporate-europe-observatory-transnational-institute/transatlantic-corporate-bill-of-rights
2) Michael Hudson, "From the bubble economy to debt deflation and privatization", Real-world Economics Review, issue no. 64, 2 July 2013, pp. 21-22.
http://www.paecon.net/PAEReview/issue64/Hudson64.pdf




Fonte: http://www.clarissa.it/editoriale_n1900/L-accordo-economico-transatlantico-TTIP-e-il-potere-dell-economia

Pubblicato anche su Megachip.




1 agosto 2013

Nuove accuse di Snowden: NSA spiava tutte le chat del mondo

da Globalist.


Spiare in tempo reale le e-mail, le ricerche sul web e tutte le altre azioni compiute su internet dagli utenti. È questo l'obiettivo del nuovo programma di spionaggio delle comunicazioni su internet chiamato "XKeyscore" e usato dall'agenzia americana NSA, rivelato al "Guardian" dalla talpa dello scandalo Datagate Edward Snowden.

Secondo i documenti in possesso al giornale britannico, XKeyscore va a pescare dati, senza chiederne l'autorizzazione, su 500 server sparsi in tutto il mondo, dalla Russia al Venezuela ed è considerato come uno degli stumenti più potenti a disposizione della Nsa: permette ad esempio di risalire a una persona a partire da una semplice ricerca effettuata su internet. È il più grande e potente sistema al mondo di spionaggio informatico.

I file rivelati fanno luce su una delle affermazioni più controverse di Snowden, pubblicata dal "Guardian" il 10 giugno: "Seduto alla mia scrivania", ha detto Snowden, potrei "intercettare chiunque, voi giornalisti o il vostro commercialista, un giudice federale o anche il presidente, basta avere una mail personale".

Intercettare questi dati per gli analisti è molto semplice: estraggono enormi quantità di informazioni dai database semplicemente compilando una richiesta online fornendo solo una vaga giustificazione per la ricerca. La richiesta non è esaminata preventivamente da un tribunale o dal personale della NSA prima di essere elaborato. La ricerca consente di delineare un profilo completo della storia web dell'utente dalla prima volta che si è affacciato su Internet.

Gli analisti possono anche utilizzare altri sistemi dell'NSA per ottenere intercettazioni "in tempo reale" delle attività internet di un qualsiasi utente del web.

Edward Snowden ora rischia di irritare la Russia, a cui ha chiesto asilo. La talpa dell'NSAgate, indifferente alle richieste di Vladimir Putin di smetterla di danneggiare gli USA, continua a rivelare dettagli sullo scandalo delle intercettazioni tramite Glenn Greenwald, il megafono di Snowden sul "Guardian".

In un documento del 2012 si leggono i vari campi di informazioni che possono essere cercati: "ogni indirizzo e-mail visto in una sessione sia dal nome utente che dal dominio", "ogni numero di telefono visto in una sessione" e le attività degli utenti, come "la webmail e la chat, inclusi nome utente, lista contatti".

Alla sorveglianza di Xkeyscore non si sottraggono neanche i siti di social network, come Facebook e Twitter, oltre ai già noti motori di ricerca come Google e Yahoo! ed i sistemi di posta.
L'attività Xkeyscore, secondo un rapporto interno del 2007, stimava che negli archivi della NSA erano all'epoca conservati 850 miliardi di dati telefonici e 150 miliardi di attività web, cui ogni giorno si aggiungevano 1-2 miliardi di altri dati.

William Binney, un ex matematico della NSA, ha riferito che lo scorso anno l'agenzia ha "raccolto qualcosa come 20.000 miliardi di contatti dei cittadini USA, limitatamente telefonate e mail, senza quindi prendere in considerazione il resto delle attività web. E tutto ciò limitandosi ai dati raccolti negli USA.

Fonte: http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=47399&typeb=0.