di Pino Cabras e Simone Santini – da Megachip.
27 marzo 2013
Dopo Cipro: fuggire, o aprire l'Europa come una scatoletta di squali
Esplode
la voglia di fuggire dall’Europa, adesso che i suoi padroni aizzano i
cani della crisi contro i popoli. I proprietari universali hanno fatto
alcuni esperimenti da Shock Economy per vedere se gli azzannati
riuscivano a difendersi. Volevano collaudare - su scala ridotta, ma non
troppo - il modo in cui una società potrebbe essere annichilita da una
burocrazia ottusa e feroce e trovarsi impedita se volesse rovesciare la
politica dominante. La Grecia avrebbe potuto riassorbire la fase acuta della crisi in pochi mesi, e invece le sono state somministrate per anni ricette economiche prive di qualsiasi apparente logica. Mentre si licenziavano centinaia di migliaia di lavoratori, a quelli che conservavano il posto si imponevano stipendi decurtati e orari ben oltre le 40 ore settimanali. E ora siamo giunti al test di Cipro,
non ancora concluso, eppure già adottato dagli eurocrati che gongolano
perché lo vogliono ripetere su larga scala. Pazzi e pericolosi,
sembrerebbe. La tentazione è dunque fuggire, come invoca Debora Billi sul suo blog Crisis: «Fuggite, sciocchi!».
Anche noi, come lei, abbiamo paura della dittatura dello spread: è un
nuovo dispotismo mostruoso, diabolico, impersonale, disperante. Ma
dobbiamo lo stesso chiedercelo: «Fuggire? Dove?»...
L'alternativa
non è tra fuggire o rimanere in uno stato di schiavitù. La scelta, ora,
è tra combattere o rimanere schiavi, laddove la fuga non sarebbe altro
che una delle tante forme del rimanere schiavi.
Esistesse
un'isola, dall'altra parte del mare, o una radura, dall'altra parte
della montagna, in cui regna la libertà, si potrebbe pensare di fuggire
lì per immaginare un'altra vita, un nuovo mondo. Ma questo luogo non
esiste: non c'è, ad esempio, per 60 milioni di italiani. Noi siamo qui,
ora, e possiamo solo combattere o arrenderci.
Fuggire dalla dittatura europea vuol dire (ri)entrare nella dittatura dell'Italia comunque senza sovranità, sotto il comando atlantico. Film già visto? Sì e no. Stavolta sarebbe peggio.
All'epoca della guerra fredda, c’era una sorta di “semi-sovranità”, un gioco sub-dominante in mano a partiti politici che facevano partecipare direttamente al sistema politico milioni di persone.
Non era un pasto facile da divorare, quell’Italia, nemmeno per chi
aveva messo gli stivaloni nel piatto. L'Italia di oggi ha invece una
politica destrutturata, sindacati annientati, corpi sociali intermedi
che agiscono solo a corto raggio. E' pronta per essere spolpata da
multinazionali occidentali, petromonarchi arabi, mega-imprenditori
cinesi, magnati russi, e mafiosi di ogni nazionalità, ordine e grado,
che avranno gioco facile, purché gli sia chiara la vera regola: dove orbitano i soldi. La galassia del denaro deve ruotare ancora e sempre intorno all’asse Wall Street-Londra.
Ora non c’è più simpatia per le distrazioni centrifughe dei paradisi
fiscali. Non è più il tempo nemmeno per quelle zone ambigue e
paramafiose che si ossigenavano in Vaticano o a Cipro.
Sembra
disordine, sembra solo follia, ma non c’è da giurarci. Vediamo
capitalisti in rovina, distruzione, ma non è nulla di nuovo. C'è semmai
un ordine che vorrebbe emergere dal caos "esternalizzando" i costi sui popoli e sulla natura.
Proprio oggi, una sorpresa: nientemeno che il settimanale statunitense Time dice che Karl Marx
queste cose le aveva previste, che era stato proprio profetico. Se lo
dicono anche gli americani, viene voglia di rileggere il libro primo del
«Capitale». Parlava forse di noi, di quel che accade ora? Senti qui che
cosa diceva il buon Marx: «con la produzione capitalistica si forma una potenza del tutto nuova, il “sistema del credito”, che ai suoi primordi si intrufola di soppiatto come modesto ausilio dell'accumulazione
e mediante invisibili fili attira nelle mani di capitalisti individuali
o associati i mezzi monetari disseminati in masse più o meno grandi
sulla superficie della società, ma ben presto diviene un'arma nuova e temibile nella lotta di concorrenza, e infine si trasforma in poderoso meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali».
Ecco il concetto, centralizzazione dei capitali.
Questa Europa - giustamente esecrata da noi e da Debora Billi, l’Europa
di questo Euro - è stata anche un gigantesco meccanismo di
«centralizzazione dei capitali»: prima si è presentata come un ambiente
vivace per la concorrenza, poi come un sistema che (ancora Marx) causa
la «rovina di molti capitalisti minori, i cui capitali in parte finiscono nelle mani di chi vince, in parte scompaiono»
(assieme alle prospettive di milioni di persone), infine un processo di
centralizzazione che si addensa là dove vuole la politica dominante.
Noi vediamo il nuovo volto terribile della Germania e dell’eurocrazia
che produce governi “tecnici” e governi maggiordomi, con una mezzogiornificazione del Sud Europa, l’area perdente in questa fase della centralizzazione.
Sopra questo processo si avanza però qualcosa di più vasto ancora. Faremo bene ad abituarci quanto prima a discutere della nuova Agenda Atlantica, ossia l’area di libero scambio (con tanto di istituzioni sovranazionali euroamericane) che è già materia di pre-negoziato a Washington e presso l’élite europea.
In una crisi sistemica
montante, non possiamo realisticamente escludere che la "fuga dalla
dittatura" non la faremo noi, ma la stiano progettando loro per noi, per
gettarci in quest'altro bel baratro, per una forma suprema di
centralizzazione dei capitali, l'ultimo giro di giostra dei redditieri.
Intanto fuggiamo dalla dittatura,
dice Billi, e poi si vedrà? No, poi non sarà possibile vedere niente. È
mentre si combatte che si costruisce il "poi", non mentre si fugge.
I
partigiani che hanno scalato la montagna, e che sono morti, che ne
sapevano della "svolta di Salerno" di Togliatti? Poi hanno avuto
cinquanta anni di americani e Democrazia Cristiana. Avevano forse
scalato la montagna e sono morti per avere quello? No, e ciononostante
hanno avuto la possibilità per decenni di lasciare contrappesi e
contropoteri nel sistema. Oggi rischieremmo per paradosso di consegnarci mani e piedi a una Bruxelles più invadente ancora, e più atlantizzata. Un incubo.
No,
Debora, noi non vogliamo fuggire. Vogliamo combattere. E speriamo,
vogliamo, essere con te dalla stessa parte. Parliamo, nientemeno, di una
rivoluzione politica. In grado di immaginare una sfida europea. Una nuova Costituzione europea, perché no? L'importante (non sappiamo se è un fuggire) è che si abbandonino gli attuali trattati in vigore, Lisbona e Maastricht. Chi può farlo? I popoli, se fanno politica e si sentono sovrani.
Uno dei più colossali fraintendimenti del fenomeno Cinque Stelle è stato quello di Wu Ming,
che lo ha visto come una sorta di anestetico dei conflitti, tanto da
metterlo in contrapposizione alla presunta maggiore radicalità di Occupy
Wall Street e Indignados.
Invece
la presenza nelle istituzioni, proprio questo volerci essere, ha fatto
una differenza enorme per il movimento italiano. Al momento esso è
infinitamente più dirompente rispetto alle piazze spente dei movimenti
più radicali di altri Paesi. Se vogliamo immaginare un processo
costituente internazionale che riesca a contrastare l’Agenda Atlantica, dovremo comunque pensarlo molto proiettato dentro le istituzioni.
Anche la Nato e la UE sono da aprire come scatolette, purché si sappia che lì dentro non ci sono esattamente tonni.
Link all'articolo su Megachip: http://www.megachip.info/tematiche/beni-comuni/10025-dopo-cipro-fuggire-o-aprire-leuropa-come-una-scatoletta-di-squali.html.
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24 marzo 2013
Euro e banche: le lezioni del presidente islandese
«Le cose più importanti, e lo dico ai miei amici europei, non sono i mercati finanziari.» Intervista (sopra una nuvola) con Ólafur Ragnar Grímsson, eletto per cinque volte a capo del “laboratorio” islandese.
Björk non era la sola star islandese in tournée in Francia, questa settimana. Il presidente del paese Ólafur Ragnar Grímsson, 69 anni, era in visita ufficiale, con l’aureola dei successi islandesi contro la crisi, nonché del ruolo che ha giocato in questa correzione di rotta spettacolare con cui ha deciso, in due riprese, di consultare il popolo via referendum.
Ha incontrato per 35 minuti François Hollande. Si dice che abbiano
parlato di tre questioni: «La ripresa economica in Islanda e le lezioni
da trarne; la cooperazione economica nell’Artico e l’esperienza
islandese in materia di geotermia - che assicura il 90% del
riscaldamento degli abitanti – e come potrebbe essere sviluppata in
Francia». Il presidente islandese, attualmente al suo quinto mandato,
cammina sopra una piccola nuvola. Quattro anni dopo l’esplosione
delle banche islandesi, il suo Paese è ripartito più forte della
maggior parte degli altri in Europa, e ha appena vinto una battaglia
davanti alla giustizia europea. Lo Stato islandese - ha giudicato la corte dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA) a fine gennaio,
era nel suo diritto quando si è rifiutato di rimborsare i risparmiatori
stranieri che avevano piazzato i propri soldi presso le sue banche
private.
Rue89: Ha richiamato assieme a François Hollande le lezioni da trarre dalla correzione di rotta islandese. Quali sono?
Ólafur Ragnar Grímsson: Se
fate un paragone con quanto è successo in altri paesi dell’Europa, la
riuscita esperienza islandese si è avverata in modo diverso su due
aspetti fondamentali.
Il primo, consiste nel fatto che noi non abbiamo seguito le politiche ortodosse che da trent’anni in qua si sono imposte in Europa e nel mondo occidentale. Noi abbiamo lasciato che le banche fallissero, non le abbiamo salvate, le abbiamo trattate come le altre imprese.
Abbiamo instaurato dei controlli sui cambi. Abbiamo cercato di
proteggere lo stato previdenziale, rifiutandoci di applicare l’austerità
in modo brutale.
Seconda grande differenza: abbiamo
subito preso coscienza del fatto che questa crisi non era solamente
economica e finanziaria. Era anche una profonda crisi politica,
democratica e perfino giudiziaria. Ci siamo quindi
impegnati in riforme politiche, riforme democratiche, e anche riforme
giudiziarie [un procuratore speciale, dotato di una squadra, è stato
incaricato di investigare sulle responsabilità della crisi, ndr].
Questo ha permesso alla nazione di affrontare la sfida, in modo più
ampio e più globale rispetto alla semplice attuazione di politiche
finanziarie o di bilancio.
L’Islanda ha 320mila abitanti. Queste politiche sono esportabili in paesi più grandi, come la Francia?
Innanzitutto,
esito sempre nel dare raccomandazioni concrete ad altri paesi, perché
ho sentito una caterva di pessime raccomandazioni propinate al mio!
Quel
che posso fare, è semplicemente descrivere ciò che l’Islanda ha fatto,
così ognuno può trarne le sue proprie lezioni. Ma è chiaro che molte
delle scelte che noi abbiamo fatto potrebbero essere fatte in altri
paesi. Per esempio, guardarsi bene da un’austerità troppo rigida.
Quindi avete perseguito una politica di austerità rigidissima...
Senz’altro. Ma uno degli assi delle politiche ortodosse sta nel tagliare aggressivamente le spese sociali. Non è quel che abbiamo fatto. Abbiamo invece protetto i redditi più modesti.
L’
approccio ampio alla crisi – politico e giudiziario – può essere
seguito anche in altri paesi oltre all’Islanda. La misura che è
impossibile applicare in Francia, così come in altri paesi della zona
euro, è evidentemente la svalutazione monetaria.
Per quanto riguarda il non aver salvato le banche, l’Islanda aveva davvero scelta? Sarebbe possibile lasciar affondare le grandi banche europee?
Le
nostre banche erano importanti. Pesavano dieci volte la taglia della
nostra economia. Io non dico che la dimensione non conti, ma se la si
mette in termini di dimensioni, allora chiedetevi: il Portogallo è un
paese grande o piccolo? La Grecia è un paese grande o piccolo?
Se
potessimo fare altra cosa che lasciare che le nostre banche fallissero,
questo è un dibattito ancora aperto. In ogni caso tutto ciò
corrispondeva a una scelta. Quelle banche erano private: perché
mai delle imprese nel settore bancario dovrebbero essere trattate in
modo diverso da altre aziende private di altri settori come le
tecnologie informatiche, internet, le compagnie aeree?
Queste imprese sono indispensabili alle nostre società, eppure lasciamo
che falliscano. Anche le compagnie aeree. Perché mai le banche sono
trattate come dei luoghi santi?
La risposta tradizionale è che il loro fallimento possa trascinarne altri e mettere in ginocchio il sistema finanziario: c’è un rischio “sistemico”.
Sì, questa è l’argomentazione che viene avanzata; eppure badate a cosa è successo in Islanda con il caso Icesave.
Il governo britannico e quello dei Paesi Bassi, sostenuti dall’Unione
Europea, pretendevano che i contribuenti islandesi rimborsassero i
debiti di questa banca privata, anziché lasciare che il liquidatore
fosse il responsabile di tali debiti. A quel punto ho fatto fronte a una
scelta: era il caso di sottoporre la questione a referendum? Un
esercito di esperti e di autorità finanziarie mi dicevano: se voi
autorizzate la gente ad esprimersi, isolerete finanziariamente l’Islanda
per decenni. Uno scenario catastrofico senza fine... Ero davanti a una
scelta fondamentale: da una parte gli interessi della finanza,
dall’altra la volontà democratica del popolo. E io mi son detto: la parte più importante della nostra società – e l’ho detto anche ai nostri amici europei – non sono mica i mercati finanziari. È la democrazia, sono i diritti umani, lo Stato di diritto.
Quando
siamo di fronte a una profonda crisi, sia quella islandese sia quella
europea, perché non ci dovremmo lasciar guidare sulla via da seguire
dall’elemento più importante della nostra società? Ed è quel che ho
fatto. Dunque abbiamo indetto due referendum. Nel primo
trimestre dopo il referendum, l’economia è ripartita. E in seguito la
ripresa è continuata. Ora abbiamo un tasso di crescita annuale del 3%,
uno dei più elevati in Europa. Abbiamo un tasso di disoccupazione del
5%, uno dei tassi più bassi. Tutti gli scenari dell’epoca, di un
fallimento del sistema, si sono rivelati fasulli. Il mese scorso c’è
stato l’epilogo: l’EFTA ci ha dato ragione. Non solo la nostra decisione
era giusta, era democratica, ma era anche giuridicamente fondata. I
miei amici europei dovrebbero riflettere su tutto questo con uno
spirito aperto: come mai erano loro in errore politicamente,
economicamente e giuridicamente? L’interesse di porsi questa questione è
più importante per loro che non per noi, perché continuano, loro, a
lottare contro la crisi applicando a se stessi certi principi e certi
argomenti che usavano contro di noi.
Il servizio che può rendere l’Islanda è dunque quello di essere una sorta di laboratorio, che aiuta i Paesi a rivedere le politiche ortodosse
fin qui da essi seguite. Io non vado certo a dire alla Francia, la
Grecia, la Spagna, il Portogallo o l’Italia: fate così, fate cosà. Ma la
lezione dataci dall’esperienza da questi quattro anni in Islanda è che
gli scenari allarmisti, delineati come delle certezze assolute, erano
fuori bersaglio.
L’Islanda è diventata un modello, una fonte di speranza per una parte dell’opinione pubblica, specie la sinistra anticapitalista. La cosa le fa piacere?
Sarebbe
un errore interpretare la nostra esperienza attraverso una vecchia
chiave di lettura politica. In Islanda i partiti di destra e di sinistra
sono stati unanimi sulla necessità di proteggere il sistema sociale.
Nessuno, né a destra né al centro, ha difeso quelle che voi definireste
come “politiche di destra”.
È la via nordica...
Sì, è la via nordica.
E se osservate cosa è accaduto nei Paesi nordici in questi ultimi 25
anni, hanno tutti conosciuto delle crisi bancarie: Norvegia, Finlandia,
Svezia, Danimarca e infine Islanda, dove sempre abbiamo un momento di
ritardo. La cosa interessante è che tutti i nostri paesi si sono
ripigliati relativamente presto.
Rimpiange di aver incoraggiato lei stesso la crescita della banca negli anni 2000? All’epoca, lei paragonava l’Islanda a una nuova Venezia o Firenze?
Fra
l’ultimo decennio del XX secolo e i primi anni del XXI, si sono
sviluppate imprese farmaceutiche o di ingegneria, tecnologiche, bancarie
e hanno procurato ai giovani islandesi istruiti, per la prima volta
nella nostra storia, la possibilità di lavorare su scala globale senza
dover lasciare il proprio Paese.
Anche
le banche facevano parte di questa evoluzione. Se la cavavano bene. Nel
2006 e nel 2007, abbiamo sentito le prime critiche. Io mi sono chiesto a
quel punto: cosa dicono mai le agenzie di rating? Redigevano per le
banche islandesi un ottimo certificato di salute. Le banche europee e
americane facevano tutte affari con le nostre banche e desideravano
farne sempre di più!
Le
agenzie di rating, le grandi banche, tutti in generale, avevano torto. E
anche io. È stata un’esperienza costosa, che il nostro Paese ha pagato
pesantemente: abbiamo conosciuto una grave crisi, delle sommosse... Ce
ne ricorderemo a lungo. Oggi
il pubblico continua ad ascoltare le agenzie di rating. Bisognerebbe
chieder loro: se vi siete sbagliate così tanto sulle banche islandesi,
perché dovreste avere ragione oggi sul resto?
Quelle che lei definisce “sommosse”, non fanno forse parte del necessario “approccio politico” alla crisi, da lei descritto un instante fa?
Non
la direi in questa maniera. L’Islanda è una delle democrazie più
stabili e sicure al mondo, con una coesione sociale solida. E tuttavia, a
seguito del fallimento finanziario, la polizia ha dovuto difendere
giorno e notte il Parlamento, la Banca Centrale e gli uffici del Primo
Ministro... Se una crisi finanziaria può, in un lasso di tempo
brevissimo, far precipitare un tale paese in una così profonda crisi
politica, sociale e democratica, quali potrebbero essere le sue
conseguenze in paesi che abbiano un’esperienza più corta di stabilità
democratica? Posso dirvi che durante le prime settimane del 2009, al mio
risveglio, il mio cruccio non era quello di sapere se avremmo ritrovato
o meno la strada per la crescita, bensì quello di sapere se non avremmo assistito al crollo della nostra comunità politica stabile, solida e democratica.
Ma
noi abbiamo avuto la fortuna di poter rispondere a tutte le domande dei
manifestanti: il governo è caduto, sono state organizzate delle
elezioni, sono state sollevate dall’incarico le direzioni della Banca
Centrale e dell’autorità di sorveglianza delle banche, abbiamo istituito
una commissione speciale d’inchiesta sulle responsabilità, ecc.
C’è un’idea, diffusa nelle società occidentali, secondo cui i mercati finanziari devono rappresentare la parte sovrana della nostra economia e dovrebbero essere autorizzati a ingrandirsi senza controllo e nella direzione sbagliata, con l’unica responsabilità di fare profitti e svilupparsi... Ebbene, questa visione è pericolosissima.
Quel che ha dimostrato l’Islanda è che quando un tale sistema ha un
incidente, fa derivare tragiche conseguenze politiche e democratiche.
In questo approccio politico, un progetto di nuova Costituzione è stato elaborato da un’assemblea
di cittadini eletti. Sembra che per il Parlamento non sia urgente
votarlo prima delle elezioni del 17 aprile. Pensate che questo progetto
abortirà?
La
Costituzione attuale ha giocato il suo ruolo nella crisi: quello di far
tenere delle elezioni e indire dei referendum... Questo non vuol dire
che sia perfetta, essa può essere migliorata.
Con la crisi, il bisogno di rinnovare il nostro sistema politico ha trovato una sua espressione. Si è dunque attivato un processo di riforma costituzionale assai innovativo: è stata eletta un’assemblea di cittadini, i cittadini sono stati consultati via internet... ma, secondo me, non hanno avuto abbastanza tempo: appena quattro mesi.
Solo dei superuomini avrebbero potuto realizzare un testo perfetto in soli quattro mesi.
In
questi ultimi sei mesi, c’è stato un dibattito in Parlamento, con dei
propositi... il Parlamento adotterà forse certe misure, o forse si
accorderà su un modo di proseguire il processo, o adotterà una riforma
più completa.
Nessuno lo sa.
La svalutazione ha aiutato la ripresa dell’Islanda. L’idea di raggiungere un giorno l’euro è stata scartata per sempre?
La
corona è stata una parte del problema che ha portato alla crisi
finanziaria, ma è stata anche una parte della soluzione: la svalutazione
ha reso i settori dell’esportazione (pesca, energia, tecnologie...) più
competitivi, così come il turismo, certamente.
C’è una cosa di cui non si è ancora preso bene coscienza nei paesi dell’Europa continentale : i Paesi del Nord dell’Europa – Groenlandia, Islanda, Gran Bretagna, Norvegia, Danimarca e Svezia - non hanno adottato l’euro, a parte la Finlandia. Nessuno di questi Paesi si è unito all’euro.
E comparativamente, questi Paesi si sono comportati meglio,
economicamente, durante gli anni successivi alla crisi del 2008, dei
paesi della zona euro, eccetto la Germania.
È
quindi piuttosto difficile sostenere che l’adesione all’euro sia una
condizione indispensabile per il successo economico. Da parte mia, non
vedo nessun nuovo argomento che possa giustificare l’adesione
dell’Islanda all’euro.
Banche addio... oppure i giovani islandesi che abbiano fatto studi superiori vi troveranno un impiego?
Le
banche, che siano in Islanda o all’estero, sono diventate delle imprese
molto tecnologiche, che danno lavoro a numerosi ingegneri, informatici e
matematici. Attraggono talenti da settori innovativi, quali le alte
tecnologie o le tecnologie dell’informazione.
Dopo
la caduta delle banche, questi talenti si sono ritrovati sul mercato
del lavoro. In sei mesi, avevano tutti trovato lavoro … E le imprese
tecnologiche o di design hanno avuto un rapidissimo sviluppo nel corso
degli ultimi tre anni. Centinaia di nuove aziende sono state create.
Sono ben lieto di constatare che le giovani generazioni hanno risposto
alla crisi in modo molto creativo.
Morale della favola: se
volete che la vostra economia sia competitiva nel settore delle
tecnologie innovative, il fatto di avere un grosso settore bancario,
ancorché capace di notevoli prestazioni, è una cattiva notizia.
Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.
Link al presente articolo: http://www.megachip.info/tematiche/kill-pil/10014-euro-e-banche-le-lezioni-del-presidente-islandese.html.
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6 marzo 2013
Hugo Chávez, la leggenda del Liberatore del XXI secolo
di Gennaro Carotenuto - gennarocarotenuto.it.
Hugo Chávez non è stato un dirigente come tanti nella storia della sinistra.
È stato uno di quei dirigenti politici che segnano un’intera epoca storica per il suo paese, il Venezuela, e per la patria grande latinoamericana.
Soprattutto, però, ha incarnato l’ora del riscatto per la sinistra dopo decenni di sconfitte, l’ora delle ragioni della causa popolare dopo la lunga notte neoliberale.
L’America nella quale il giovane Hugo iniziò la sua opera era solo apparentemente pacificata dalla cosiddetta “fine della storia”.
Questa, in America latina, non era stata il trionfo della libertà come nell’Europa dove cadeva il muro di Berlino. Era stata invece imposta nelle camere di tortura, con i desaparecidos del Piano Condor e con la carestia indotta dal Fondo Monetario Internazionale.
Il migliore dei mondi possibili lasciava all’America latina un ruolo subalterno e ai latinoamericani la negazione di diritti umani e civili essenziali.
Carlos Andrés Pérez, da vicepresidente dell’Internazionale socialista in carica, massacrava nel 1989 migliaia di cittadini inermi di Caracas per ottemperare ai voleri dell’FMI. L’America che oggi lascia Hugo Chávez, ad appena 58 anni, è un continente completamente diverso. È un continente in corso di affrancamento da molte delle sue dipendenze storiche e rinfrancato da una crescita costante che, per la prima volta, è stata sistematicamente diretta a ridurre disuguaglianze e garantire diritti.
Non voglio tediare il lettore e citerò solo un paio di dati indispensabili. Nella Venezuela “saudita”, quella considerata una gran democrazia e un modello per l’FMI, ma dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del “dittatore populista” Chávez ne restano meno della metà (27 e 7%). A questo dato affianco la moltiplicazione del 2.300% degli investimenti in ricerca scientifica e il ricordo che, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, è stato costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti.
Oggi che il demonio Chávez è morto, è sotto gli occhi di chiunque abbia l’onestà intellettuale di ammetterlo cosa hanno rappresentato tre lustri di chavismo: pane, tetto e diritti. Gli osservatori onesti, a partire dall’ex-presidente statunitense Jimmy Carter, che gli ha rivolto un toccante messaggio di addio, riconoscono in Chávez il sincero democratico e il militante che si è dedicato fino all’ultimo istante «all’impegno per il miglioramento della vita dei suoi compatrioti». No, Jimmy Carter non è… chavista. Semplicemente è intellettualmente onesto ed è andato a vedere. Tutto il resto, la demonizzazione, la calunnia sfacciata, la rappresentazione caricaturale, è solo squallida disinformazione.
Chávez entra oggi nella storia ed è già leggenda perché ha mantenuto i patti e fatto quello che è l’essenza dell’idea di sinistra: lottare con ogni mezzo per la giustizia sociale, dare voce a chi non ha voce, diritti a chi non ha diritti, raggiungendo straordinari risultati concreti. In questi anni ha cento volte errato perché cento volte ha fatto in un paese terribilmente difficile come il Venezuela.
Ha chiamato il suo cammino “socialismo”, proprio per sfidare il pensiero unico che quel termine demonizzava. Chávez diventa così leggenda perché, in pace e democrazia, ha realizzato quello che è il dovere di qualunque dirigente socialista: prendere la ricchezza dov’è, nel caso del Venezuela nel petrolio, e investirla in beneficio delle classi popolari.
Lo ha fatto al di là della retorica rivoluzionaria, propria di anni caldissimi di lotta politica, da formichina riformista. Utilizzo il termine “riformista” sapendo che a molti, sia apologeti che critici, non piace pensare che Chávez non sia stato altro che un riformista, ma radicale, in grado di raggiungere risultati considerati impossibili sulla base di defaticanti trattative e su politiche basate sulla ricerca del consenso e sulla partecipazione. Chávez è già leggenda perché ha piegato al gioco democratico un’opposizione indotta, in particolare da George Bush e José María Aznar (molto meno da Obama), all’eversione, esplicitatasi nel fallito golpe dell’11 aprile 2002 quando un popolo intero lo riportò a Miraflores e nella susseguente serrata golpista di PDVSA, la compagnia petrolifera nazionalizzata. È il controllo di quest’ultima ad aver garantito la cassaforte di politiche sociali generose.
È questo che la sinistra da operetta europea non ha mai perdonato a Chávez. Per la sinistra europea l’America latina è un remoto ricordo di gioventù, non un continente parte della nostra stessa storia.
È troppo facile archiviare la presunta anomalia chavista, che è quella di un Continente, l’America latina dove destra e sinistra hanno più senso che mai, ed è necessario schierarsi, come un’utopia da chitarrate estive, Intillimani e hasta siempre comandante. È troppo scomodo riconoscerne la prassi politica nelle due battaglie storiche che Hugo Chávez ha incarnato: la lotta di classe, che portò Chávez, il ragazzo di umili origini che per studiare poteva fare solo il militare o il prete, a scegliere di stare dalla parte degli umili, e quella anticoloniale che ha preso forma nel processo d’integrazione del Continente.
Il consenso, la partecipazione al progetto chavista, si misura proprio nella vigenza, nelle classi medie e popolari venezuelane, di un pensiero contro-egemonico rispetto a quello liberale dell’imperio dell’economia sulla politica. I latinoamericani hanno maturato nei decenni scorsi solidi anticorpi in merito.
Chávez ha catalizzato tali anticorpi riportando in auge il ruolo della lotta di classe nella Storia, la continuità della lotta anticoloniale, perché i “dannati della terra” continuano ad esistere e a risiedere nel Sud del mondo e non bastano 10 o 15 anni di governo popolare per sanare i guasti di 500 anni. Lo accusano di aver usato a fini di consenso la polemica contro gli Stati Uniti. C’è del vero, ma non è stato Chávez a tentare sistematicamente di rovesciare il presidente degli Stati Uniti e non è il dito di Chávez ad oscurare la luna di rapporti diseguali e ingiusti tra Nord e Sud del mondo.
Si conceda a chi scrive il ricordo dell’intervista quasi visionaria che Chávez mi concesse a fine 2004 proprio sul tema della Patria grande latinoamericana. Sento ancora la forza del suo abbraccio al momento di salutarci. Con lui c’erano Lula e Néstor Kirchner, anch’egli scomparso neanche sessantenne nel momento di massima lucidità politica, dopo aver liberato l’Argentina dalla morsa dell’FMI e restaurato lo Stato di diritto in grado di processare i violatori di diritti umani. Poi vennero Evo Morales e tutti gli altri dirigenti protagonisti della primavera latinoamericana. A Mar del Plata nel 2005 tutti insieme sconfissero il progetto criminale di George Bush che con l’ALCA voleva trasformare l’intera America latina in una maquiladora al servizio della competizione globale degli USA contro la Cina. Dire “no” agli USA: qualcosa d’impensabile!
Adesso, seppellita la pietra dello scandalo Chávez, tutti sono certi che l’anomalia rientrerà, che Nicolás Maduro non sarà all’altezza, che il partito socialista esploderà per rivalità personali e che la storia riprenderà il proprio corso come se Hugo non fosse mai esistito. Chissà; ma cento volte nell’ultimo decennio i venezuelani e i latinoamericani hanno dimostrato di ragionare con la loro testa. Hanno dimostrato di non voler tornare al modello che hanno vissuto per decenni e che oggi sta divorando il sud dell’Europa.
La forza del Brasile di Dilma come potenza regionale ha superato con successo vari esami di legittimazione. Il processo d’integrazione appare un fatto irreversibile che fa da pilastro all’impedire il ritorno del «Washington consensus». No, una semplice restaurazione non è all’ordine del giorno anche se dovesse cambiare il segno politico del governo venezuelano, cosa improbabile sul breve termine, anche per l’enorme emotività causata dalla scomparsa di un leader così popolare.
Da oggi qualunque governo venezuelano e latinoamericano si dovrà misurare con la leggenda di Chávez, il presidente invitto, quattro volte rieletto dal suo popolo, in grado di sopravvivere a golpe e complotti, che aveva tutti i media contro e che solo il cancro ha sconfitto. Di dirigenti come lui o Néstor Kirchner non ne nascono tanti e il futuro non è segnato. Ma il suo lascito è enorme ed è un patrimonio che resta nelle mani del popolo.
Fonte: http://www.gennarocarotenuto.it/22602-hugo-chavez-la-leggenda-del-liberatore-del-xxi-secolo.
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Hugo Chávez (1954-2013)
Simón
Bolívar, padre della nostra Patria e guida della nostra Rivoluzione,
giurò di non dare riposo alle sue braccia, né dare riposo alla sua
anima, fino a vedere l'America libera. Noi non daremo riposo alle nostre
braccia, né riposo alla nostra anima fino a quando non sarà salva
l'umanità. (Hugo Rafael Chávez Frías, Discorso alla sessione per il 60° anniversario dell'ONU, 15 settembre 2005)
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3 marzo 2013
La NATO economica, soluzione USA alla crisi
di Thierry Meyssan.
da Megachip.
Nel corso del suo discorso annuale sullo stato dell'Unione, il presidente Barack Obama ha annunciato unilateralmente l'apertura di negoziati su un partenariato globale transatlantico per il commercio e gli investimenti con l'Unione europea (12 febbraio). Poche ore dopo, questo scoop veniva confermato da una dichiarazione congiunta del Presidente USA e dei presidenti del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, e della Commissione europea, José Manuel Barroso. Il progetto di Zona di libero scambio transatlantico ha visto ufficialmente la luce a margine dei negoziati per l’Accordo nordamericano per il libero scambio (NAFTA) nel 1992. A seguito di un processo di espansione, Washington voleva estendere questo spazio all'Unione europea. Tuttavia, all’epoca, si sollevarono delle voci negli stessi Stati Uniti, intese a rimandare questo assorbimento, lasciando il tempo affinché l'Organizzazione mondiale del commercio fosse messa i campo e consolidata. Temevano che i due progetti entrassero in collisione anziché rafforzarsi.
La creazione di un mercato transatlantico è solo una parte di un più ampio progetto, che comprende la creazione di un autentico governo sovra-istituzionale con un Consiglio economico transatlantico, un Consiglio politico transatlantico e un’Assemblea parlamentare transatlantica. Questi tre organi sono stati già creati in modo embrionale senza che sia stata data loro alcuna pubblicità.
La loro architettura ricalca un vecchissimo progetto volto a creare un vasto blocco capitalista che unisca tutti gli Stati sotto l'influenza anglo-americana. Possiamo trovarne traccia nelle clausole segrete del Piano Marshall e soprattutto nel trattato dell'Atlantico del Nord (articolo 2). È per questo che si parla indifferentemente di Unione transatlantica o di NATO economica.
Da questo punto di vista, è sintomatico notare che, dal lato statunitense, questo progetto non viene seguito dal Dipartimento del Commercio, ma dal Consiglio di sicurezza nazionale.
Abbiamo un’anteprima di quel che sarà il funzionamento dell'Unione transatlantica se osserviamo il modo in cui sono stati risolti i conflitti sulla condivisione dei dati personali. Gli Europei hanno norme di tutela della privacy molto esigenti, mentre gli statunitensi possono fare qualsiasi cosa in nome della lotta contro il terrorismo. Dopo aver fatto spola, gli Europei si sono sdraiati davanti agli statunitensi che hanno imposto il loro modello a senso unico: hanno copiato i dati europei, mentre gli europei non hanno avuto accesso ai dati stati statunitensi.
In materia di economia, si tratterà di abrogare le tariffe doganali e le barriere non tariffarie, vale a dire le norme locali che rendono impossibili certe importazioni. Washington vuole vendere tranquillamente in Europa i suoi OGM, i suoi polli trattati con il cloro, e i suoi bovini agli ormoni. Vuole usare senza ostacoli i dati riservati di Facebook, Google, ecc.
A questa strategia a lungo termine si aggiunge una tattica a medio termine. Nel 2009-2010, Barack Obama aveva costituito un comitato di consiglieri economici presieduto dalla storica Christina Romer. Questa specialista della Grande Depressione del 1929 aveva sviluppato l'idea che l'unica soluzione alla crisi attuale negli Stati Uniti consista nel provocare un trasferimento dei capitali europei verso Wall Street. A tal fine, Washington ha fatto chiudere la maggior parte dei paradisi fiscali non anglo-sassoni, poi ha giocato con l'euro. Ciononostante, i capitalisti in cerca di stabilità hanno avuto difficoltà a trasferire il loro denaro negli Stati Uniti. La NATO economica renderà la cosa più facile. Gli USA salveranno la loro economia attirando i capitali europei, dunque a spese degli Europei.
Al di là del carattere iniquo di questo progetto e della trappola che rappresenta nell’immediato, la cosa più importante è che gli interessi degli Stati Uniti e dell'Unione europea sono in realtà divergenti. Gli Stati Uniti e il Regno Unito sono potenze marittime che hanno un interesse storico al commercio transatlantico. Era anche il loro obiettivo espresso nella Carta Atlantica durante la seconda guerra mondiale. Al contrario, gli Europei continentali hanno interessi comuni con la Russia, specie in materia di energia.
Continuando a obbedire a Washington come durante la guerra fredda, Bruxelles offre in pasto gli Europei.
Thierry Meyssan
«Sotto i nostri occhi», cronaca di politica internazionale n°29.
Traduzione a cura di Matzu Yagi.
Questa "cronaca settimanale di politica estera" appare simultaneamente in versione araba sul quotidiano "Al-Watan" (Siria), in versione tedesca sulla "Neue Reinische Zeitung", in lingua russa sulla "Komsomolskaja Pravda", in inglese su "Information Clearing House".
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