da Libreidee.
Quelle che abbiamo attorno sono le macerie di una guerra. Lo afferma senza giri di parole il centro studi di Confindustria descrivendo questa crisi,
ovvero la più drammatica recessione della nostra storia, dopo il
secondo conflitto mondiale.
A partire dal propagarsi nel mondo degli
effetti reali della crisi iniziata con i “sub-prime”, lo sfacelo dell’economia è paragonabile a una guerra per i danni e le macerie che ha lasciato dietro di sé. In pochi anni sono svaniti quasi due milioni di posti di lavoro.
E la drammatica morsa creditizia, operata dal sistema bancario,
continuerà ancora a lungo, almeno fino al 2015 nello scenario più
negativo.
«Otto anni di vacche magre, anzi, scheletriche», annota
Eugenio Orso. La catastrofica recessione neocapitalistica sta dando
segni di luce in fondo al tunnel? Attenti: se la “guerra”
è finita, «il dopoguerra potrà essere altrettanto negativo e
socialmente drammatico». Parlano le cifre: oltre 7 milioni di senza lavoro e quasi 5 milioni di poveri.
Il tutto, scrive Orso in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è condito da un crollo dei consumi delle famiglie che possiamo definire epocale: è la fine della
tanto deprecata società dei consumi?
Siamo appesi a un filo: le
ostilità potrebbero riprendere improvvisamente, «a causa di un ennesimo
shock orchestrato dalla grande finanza
internazionalizzata».
In quel caso, «la situazione potrà precipitare
ulteriormente». Del resto, la debolezza strutturale del sistema-Italia,
dal punto di vista sociale e occupazionale, si manterrà anche il
prossimo anno. E il Pil, «se crescerà, crescerà di un’inezia, meno
dell’uno per cento», per la precisione lo 0,7% secondo la Confindustria,
che rivede a ribasso precedenti proiezioni.
«La peggiore ipotesi, nel
dopoguerra e a partire dall’anno nuovo, è che il rispetto degli
“impegni” presi in sede europea implichi la rinuncia forzata a un punto
di Pil, con conseguenze negative sul temutissimo spread e ricadute ancor
più negative sulla società».
Se anche la “guerra” fosse veramente finita, aggiunge Orso, se ne deduce che – in ogni caso – l’Italia è un paese sconfitto: «Abbiamo perso la guerra e soltanto ora ce ne siamo accorti».
Potenza manifatturiera in Europa e nel mondo, l’Italia «è forse il grande sconfitto in Europa»,
anche se «non certo l’unico, perché l’area europeo-mediterranea esce
complessivamente sconvolta dal conflitto, che pare continui in Grecia».
Lo spettacolo è desolante: «Le macerie visibili, le distruzioni del
tessuto produttivo, i segni dei continui “bombardamenti”
neocapitalistici ed europoidi ci sono tutti», continua Orso.
«Lungo le
direttrici del Veneto e nei distretti industriali del nord», si
moltiplicano «gli edifici industriali e i capannoni chiusi intorno ai
quali già cresce un po’ di vegetazione, abbandonati all’incuria perché
nessuno può riattivarli».
Analoga disperazione nelle strade e nelle
case: «Il proliferare continuo del numero dei poveri veri, dei
mendicanti, di coloro che dormono nelle stazioni, sempre più sporche e
prive di manutenzione, ugualmente lo dimostra. Case senza riscaldamento
(e senza luce) sempre più numerose, perché la cosiddetta “economia della bolletta” ammazza le famiglie monoreddito». E attorno, «edifici pubblici e privati senza manutenzione, che fra qualche anno cadranno in pezzi».
Ma non è tutto. «Le macerie morali, invisibili quanto le ferite che
offendono lo spirito, sono forse le più difficili da rimuovere e le più
insidiose».
Secondo Orso, «per l’Italia ci sarà un lungo dopoguerra,
interrotto forse una ripresa improvvisa del conflitto, con un ultimo
“bombardamento” finanziario ordinato delle aristocrazie globali del
danaro e della finanza».
Ma attenzione: «Non è prevista alcuna ricostruzione».
Questo gli
analisti del centro studi di Confindustria non lo scrivono, ma lo
lasciano intendere quando, con aridi numeri, cercano di prevedere i
possibili scenari del dopoguerra.
«Non ci sarà ricostruzione, come
avvenne dopo la seconda guerra
mondiale, dal 1947 agli anni cinquanta. Perché, a differenza di allora,
la spietata “global class” finanziaria, perfettamente organica al
neocapitalismo e senza problemi di coscienza, non prevede per il paese
alcun “Piano Marshall”». Ovvero: «Le risorse del paese si saccheggiano,
le sue strutture produttive si smantellano, la popolazione si spreme
fino all’inverosimile, e poi si passa ad altro, ad altri “mercati”, ad
altre “bolle”, lasciando dietro di sé solo macerie. Materiali e morali».
Fonte: http://www.libreidee.org/2013/12/litalia-ha-perso-la-guerra-la-ricostruzione-non-ci-sara/.
28 dicembre 2013
22 dicembre 2013
Breve elogio del complottismo
di Alfio Neri.
Oggi è di moda l’accusa di “complottismo”. D’altra parte come possiamo pensare che chi stia al potere non dica il vero? Visto che viviamo nel regno della libertà e della trasparenza, come possiamo criticare le nostre fonti informative? Come possiamo pensare che qualcosa di essenziale non ci sia stato detto? In tempi di mobilitazione strategica lo stesso fatto di pensare criticamente è di per sé eversivo. Il culmine della nostra libertà personale sembra sia accettare che i mezzi di comunicazione ci liberino dal fardello della critica.
Nel marzo del 2010, Bashar al-Assad, il futuro tiranno siriano, fu decorato ufficialmente da Napolitano, il nostro Presidente della Repubblica.
Per la precisione il figlio di suo padre, che all’epoca era buono, meritava il nostro elogio ed ebbe effettivamente la più alta decorazione del nostro paese. L’evento fu realmente memorabile. Assad entrava ufficialmente nel palco dei nostri migliori alleati, assieme al beneamato colonnello Gheddafi.
Il presidente siriano venne dunque insignito col più importante titolo onorifico italiano, quello di “Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran cordone al merito della Repubblica italiana”. Il titolo sanciva l’inizio di un’alleanza talmente “profonda” che sarebbe finita, di lì a pochi mesi, con l’accusa di essere a capo di uno ‘Stato canaglia’.
Pochi anni prima, nel 2007, il comandante supremo delle forze Nato in Europa dal 1997 al 2000, generale Wesley Clark, aveva letteralmente sbigottito il suo uditorio in un incontro pubblico a San Francisco. Rendeva di pubblico dominio un breafing avuto poco dopo l’11 settembre 2001. Sosteneva di essere stato messo al corrente dal vice-presidente Cheney e dal ministro della Difesa Rumsfeld dell’intenzione dell‘amministrazione di scatenare una serie di guerre contro Siria, Iraq, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran.
L’obiettivo era trasformare il “volto” del Medio Oriente prima di essere costretti ad accettare la sfida strategica della prossima superpotenza emergente. Il generale Clark sosteneva che, per costoro, l’esercito americano doveva servire per scatenare guerre e per far cadere governi e non per rafforzare la pace e la stabilità. La sua opinione era che un gruppo di persone avesse preso il controllo del paese con un colpo di Stato politico. Si trattava di inventarsi nemici per destabilizzare intere aree geografiche e dare così vita a nuovi scenari geopolitici. La strategia americana era sostanzialmente quella di produrre caos: seminare vento per raccogliere tempesta.
Il punto chiave non è la menzogna in quanto tale. Altre volte nella storia l’alleato è diventato il nemico, l’aggressore ha vestito i panni della vittima e la menzogna ha assunto le parvenze della verità. Le bugie sono sempre esistite, ma oggi sembrano molto più credibili che in passato. Adesso, se una campagna informativa è svolta con un’adeguata potenza di fuoco, qualsiasi cosa può essere creduta vera.
Da sempre ci vengono fornite informazioni “sicure” che non possiamo verificare; però ora lo stesso fatto di porsi in modo critico appare come un elemento di lesa maestà. In tempi teologici l’uso critico della ragione si chiamava “eresia”; oggi, invece, l’accusa è quella di “complottismo”. In un mondo in cui le cose apparentemente sembrano andare bene, chi afferma il contrario può essere solo un malato, un debole di spirito, un paranoico. Come si può criticare la bontà e la lungimiranza dell’Impero del bene?
Il libro di Paolo Sensini, Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente (Mimesis, Milano 2013, pp. 322, € 24), è un rigoroso tentativo di andare oltre la mostruosa cortina del “politicamente corretto”. L’apparato di note del testo è assolutamente notevole e le chiavi di lettura che il testo permette sono molto variegate.
Ciò che balza subito agli occhi è il gigantesco lavoro di scavo fatto dall’autore fra i documenti a disposizione. La quantità di dati circolanti è effettivamente molto ampia nelle pubblicazioni in lingua inglese e francese (meno in italiano). La cosa è molto interessante perché anche all’interno del mainstream si trovano autentiche perle che illuminano parecchi degli eventi recenti. Troviamo le dichiarazioni pubbliche del generale Clark sulla politica estera di Bush riportate poche righe sopra (cfr. p. 122); quelle del generale Fabio Mini, che afferma che la politica estera statunitense nel Mediterraneo è asservita agli interessi israeliani (cfr. p. 107); troviamo chiarimenti relativi all’inquietante rapporto fra sunniti e wahhabiti – per inciso, senza il petrolio e l’aiuto statunitense, i wahhabiti sarebbero solo una setta semiereticale di beduini analfabeti che si è impadronita con la forza della Mecca (cfr. pp. 266-273); e troviamo anche molte ragioni del perché una parte dei siriani stia ancora sostenendo, malgrado tutto, Assad.
Fra tutti i documenti risalta di gran lunga la dichiarazione, sicuramente fatta a braccio, di Karl Rove, l’anima nera dell’entourage di Bush che, in un attimo di vera autenticità esistenziale, dice chiaramente: “Ora noi siamo un Impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi state giudiziosamente analizzando quella realtà, noi agiremo di nuovo e ne creeremo un’altra e poi un’altra ancora che voi potrete studiare. È così che andranno le cose. Noi facciamo la storia e a voi, a tutti voi, non resterà altro da fare che studiare ciò che facciamo” (p. 163). I vertici americani sanno dunque di “scrivere la storia” e non si curano affatto della verità, della giustizia e anche degli eventuali danni collaterali.
Sull’argomento vi sono un’infinità di problemi aperti: dalla quantità enorme di stranezze dell’11 settembre 2001, all’influenza della lobby israeliana nelle politiche mediorientali degli Stati Uniti. La cosa interessante è che esiste, e Sensini se ne da conto, un’ampia documentazione. In tale contesto, più che l’informazione puntuale, manca la capacità di formulare i quesiti giusti e di seguire le piste più interessanti.
Per esempio, perché nessuno si chiede come sia possibile che l’Arabia Saudita, un paese che non permette il voto e la guida alle donne, sia riuscito a diventare, assieme a Israele, nazione che pratica l’apartheid, il difensore della democrazia e dei diritti umani nel mondo arabo?
Come è stato possibile che le petromonarchie più integraliste, come gli Stati sunniti del Golfo Persico, abbiano come peggior nemico l’Iran, un altro petrostato integralista mussulmano, e non Israele, il loro declamato nemico assoluto?
I petrostati sciiti e sunniti non dovrebbero essere, come da teologia islamica, alleati per respingere l’influenza di americani e israeliani?
Perché a sua volta Israele, apparentemente uno Stato moderno, l’“unica democrazia del Medio Oriente”, è alleato di queste monarchie medievali?
E ancora: perché Assad, che certamente non è un santo, ha sempre avuto dalla sua una parte della popolazione siriana?
Perché in tanti anni non è stata raggiunta nell’area neppure una limitata forma di quieto vivere?
Che senso storico ha il tentativo, iniziato un decennio fa dal precedente presidente degli Stati Uniti, di cambiare il volto del Medio Oriente?
Le tesi del libro sono molte e non vorrei togliere al lettore il piacere della lettura. Tuttavia, fra tutti i capitoli, segnalo il gustoso I “precedenti storici dell’11 settembre” nella politica estera statunitense. Si tratta di un capitolo delizioso per brevità e concisione.
In queste pagine l’autore mostra alcune costellazioni di eventi che hanno spinto più volte gli Stati Uniti ad agire per “autodifesa”. La trama elementare è quella di un “nemico traditore” che agisce nell’ombra per pugnalare alle spalle l’ingenuo ma coraggioso campione della democrazia; un canovaccio che si ripropone più volte nella storia americana con poche e lievi varianti.
La prima guerra provocata da un nemico traditore, fu quella contro la Spagna del 1898. Essa venne dichiarata dopo l’esplosione dell’USS Maine, una nave da guerra alla fonda nel porto dell’Avana. La colpa dell’esplosione fu attribuita d’ufficio agli spagnoli, venne impedita ogni perizia sulle cause del disastro; poco dopo il Maine fu affondato in alto mare, appena in tempo per iniziare una guerra che la Spagna non aveva alcun interesse a fare (cfr. pp. 201-204).
Un altro caso molto noto fu quello del Lusitania, un transatlantico civile britannico pieno di materiale bellico (fra l’altro esplosivi ad alto potenziale che esplodono a contatto con l’acqua), che viaggiava a pieno carico di passeggeri in zone dove si sapeva battevano sommergibili tedeschi (cfr. pp. 204-211).
Pearl Harbour è un altro esempio paradigmatico. Nel dicembre 1941, la marina americana venne attaccata apparentemente di sorpresa dalla flotta giapponese nelle Hawaii. All’epoca i servizi segreti statunitensi avevano decrittato il cifrario segreto giapponese e seppero con anticipo dell’imminente attacco. Il Presidente Roosevelt aveva bisogno di una scusa per entrare in guerra senza problemi. Alla fine della giornata gli unici veramente sorpresi dal bombardamento furono i marinai americani usati come carne da macello (cfr. pp. 211-218).
Anche gli incidenti del Golfo del Tonchino dell’agosto 1964, quelli che provocarono l’intervento in forze degli Stati Uniti in Vietnam, erano una bugia. La vicenda finì talmente male, con l’inglorioso ritiro americano di dieci anni dopo, che gli stessi diretti responsabili politici statunitensi furono costretti ad ammettere pubblicamente la loro colossale frode (cfr. pp. 218-220).
Per brevità tralascio tutta la propaganda che diede inizio alla prima e seconda guerra irachena, come la penosa vicenda delle fotografie dei cormorani incatramati, o la serie di false dichiarazioni fatte al Congresso da testimoni compiacenti istruiti per l’occasione dai servizi segreti statunitensi.
Quello che a me interessa è fare notare che gli Stati Uniti sono un paese come gli altri. Il Destino Manifesto non impedisce a questo paese di fare tutte quelle brutte figure che sono così consuete nei paesi in cui abitano i comuni mortali. Certo loro producono telegiornali per tutto il mondo e questo migliora la loro immagine. Per esempio nei pacchetti informativi è implicito chi sia il buono e chi sia il cattivo, così com’è ovvio che loro, che sono buoni, stiano aiutando i buoni. Vorrei solo far notare che anch’io, pur avendo ritenuto certa l’esistenza di Babbo Natale, dopo qualche anno ho smesso di crederci.
Fonte: http://www.carmillaonline.com/2013/12/21/breve-elogio-del-complottismo/.
Ripubblicato da: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=93839&typeb=0&Breve-elogio-del-complottismo.
Oggi è di moda l’accusa di “complottismo”. D’altra parte come possiamo pensare che chi stia al potere non dica il vero? Visto che viviamo nel regno della libertà e della trasparenza, come possiamo criticare le nostre fonti informative? Come possiamo pensare che qualcosa di essenziale non ci sia stato detto? In tempi di mobilitazione strategica lo stesso fatto di pensare criticamente è di per sé eversivo. Il culmine della nostra libertà personale sembra sia accettare che i mezzi di comunicazione ci liberino dal fardello della critica.
Nel marzo del 2010, Bashar al-Assad, il futuro tiranno siriano, fu decorato ufficialmente da Napolitano, il nostro Presidente della Repubblica.
Per la precisione il figlio di suo padre, che all’epoca era buono, meritava il nostro elogio ed ebbe effettivamente la più alta decorazione del nostro paese. L’evento fu realmente memorabile. Assad entrava ufficialmente nel palco dei nostri migliori alleati, assieme al beneamato colonnello Gheddafi.
Il presidente siriano venne dunque insignito col più importante titolo onorifico italiano, quello di “Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran cordone al merito della Repubblica italiana”. Il titolo sanciva l’inizio di un’alleanza talmente “profonda” che sarebbe finita, di lì a pochi mesi, con l’accusa di essere a capo di uno ‘Stato canaglia’.
Pochi anni prima, nel 2007, il comandante supremo delle forze Nato in Europa dal 1997 al 2000, generale Wesley Clark, aveva letteralmente sbigottito il suo uditorio in un incontro pubblico a San Francisco. Rendeva di pubblico dominio un breafing avuto poco dopo l’11 settembre 2001. Sosteneva di essere stato messo al corrente dal vice-presidente Cheney e dal ministro della Difesa Rumsfeld dell’intenzione dell‘amministrazione di scatenare una serie di guerre contro Siria, Iraq, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran.
L’obiettivo era trasformare il “volto” del Medio Oriente prima di essere costretti ad accettare la sfida strategica della prossima superpotenza emergente. Il generale Clark sosteneva che, per costoro, l’esercito americano doveva servire per scatenare guerre e per far cadere governi e non per rafforzare la pace e la stabilità. La sua opinione era che un gruppo di persone avesse preso il controllo del paese con un colpo di Stato politico. Si trattava di inventarsi nemici per destabilizzare intere aree geografiche e dare così vita a nuovi scenari geopolitici. La strategia americana era sostanzialmente quella di produrre caos: seminare vento per raccogliere tempesta.
Il punto chiave non è la menzogna in quanto tale. Altre volte nella storia l’alleato è diventato il nemico, l’aggressore ha vestito i panni della vittima e la menzogna ha assunto le parvenze della verità. Le bugie sono sempre esistite, ma oggi sembrano molto più credibili che in passato. Adesso, se una campagna informativa è svolta con un’adeguata potenza di fuoco, qualsiasi cosa può essere creduta vera.
Da sempre ci vengono fornite informazioni “sicure” che non possiamo verificare; però ora lo stesso fatto di porsi in modo critico appare come un elemento di lesa maestà. In tempi teologici l’uso critico della ragione si chiamava “eresia”; oggi, invece, l’accusa è quella di “complottismo”. In un mondo in cui le cose apparentemente sembrano andare bene, chi afferma il contrario può essere solo un malato, un debole di spirito, un paranoico. Come si può criticare la bontà e la lungimiranza dell’Impero del bene?
Il libro di Paolo Sensini, Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente (Mimesis, Milano 2013, pp. 322, € 24), è un rigoroso tentativo di andare oltre la mostruosa cortina del “politicamente corretto”. L’apparato di note del testo è assolutamente notevole e le chiavi di lettura che il testo permette sono molto variegate.
Ciò che balza subito agli occhi è il gigantesco lavoro di scavo fatto dall’autore fra i documenti a disposizione. La quantità di dati circolanti è effettivamente molto ampia nelle pubblicazioni in lingua inglese e francese (meno in italiano). La cosa è molto interessante perché anche all’interno del mainstream si trovano autentiche perle che illuminano parecchi degli eventi recenti. Troviamo le dichiarazioni pubbliche del generale Clark sulla politica estera di Bush riportate poche righe sopra (cfr. p. 122); quelle del generale Fabio Mini, che afferma che la politica estera statunitense nel Mediterraneo è asservita agli interessi israeliani (cfr. p. 107); troviamo chiarimenti relativi all’inquietante rapporto fra sunniti e wahhabiti – per inciso, senza il petrolio e l’aiuto statunitense, i wahhabiti sarebbero solo una setta semiereticale di beduini analfabeti che si è impadronita con la forza della Mecca (cfr. pp. 266-273); e troviamo anche molte ragioni del perché una parte dei siriani stia ancora sostenendo, malgrado tutto, Assad.
Fra tutti i documenti risalta di gran lunga la dichiarazione, sicuramente fatta a braccio, di Karl Rove, l’anima nera dell’entourage di Bush che, in un attimo di vera autenticità esistenziale, dice chiaramente: “Ora noi siamo un Impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi state giudiziosamente analizzando quella realtà, noi agiremo di nuovo e ne creeremo un’altra e poi un’altra ancora che voi potrete studiare. È così che andranno le cose. Noi facciamo la storia e a voi, a tutti voi, non resterà altro da fare che studiare ciò che facciamo” (p. 163). I vertici americani sanno dunque di “scrivere la storia” e non si curano affatto della verità, della giustizia e anche degli eventuali danni collaterali.
Sull’argomento vi sono un’infinità di problemi aperti: dalla quantità enorme di stranezze dell’11 settembre 2001, all’influenza della lobby israeliana nelle politiche mediorientali degli Stati Uniti. La cosa interessante è che esiste, e Sensini se ne da conto, un’ampia documentazione. In tale contesto, più che l’informazione puntuale, manca la capacità di formulare i quesiti giusti e di seguire le piste più interessanti.
Per esempio, perché nessuno si chiede come sia possibile che l’Arabia Saudita, un paese che non permette il voto e la guida alle donne, sia riuscito a diventare, assieme a Israele, nazione che pratica l’apartheid, il difensore della democrazia e dei diritti umani nel mondo arabo?
Come è stato possibile che le petromonarchie più integraliste, come gli Stati sunniti del Golfo Persico, abbiano come peggior nemico l’Iran, un altro petrostato integralista mussulmano, e non Israele, il loro declamato nemico assoluto?
I petrostati sciiti e sunniti non dovrebbero essere, come da teologia islamica, alleati per respingere l’influenza di americani e israeliani?
Perché a sua volta Israele, apparentemente uno Stato moderno, l’“unica democrazia del Medio Oriente”, è alleato di queste monarchie medievali?
E ancora: perché Assad, che certamente non è un santo, ha sempre avuto dalla sua una parte della popolazione siriana?
Perché in tanti anni non è stata raggiunta nell’area neppure una limitata forma di quieto vivere?
Che senso storico ha il tentativo, iniziato un decennio fa dal precedente presidente degli Stati Uniti, di cambiare il volto del Medio Oriente?
Le tesi del libro sono molte e non vorrei togliere al lettore il piacere della lettura. Tuttavia, fra tutti i capitoli, segnalo il gustoso I “precedenti storici dell’11 settembre” nella politica estera statunitense. Si tratta di un capitolo delizioso per brevità e concisione.
In queste pagine l’autore mostra alcune costellazioni di eventi che hanno spinto più volte gli Stati Uniti ad agire per “autodifesa”. La trama elementare è quella di un “nemico traditore” che agisce nell’ombra per pugnalare alle spalle l’ingenuo ma coraggioso campione della democrazia; un canovaccio che si ripropone più volte nella storia americana con poche e lievi varianti.
La prima guerra provocata da un nemico traditore, fu quella contro la Spagna del 1898. Essa venne dichiarata dopo l’esplosione dell’USS Maine, una nave da guerra alla fonda nel porto dell’Avana. La colpa dell’esplosione fu attribuita d’ufficio agli spagnoli, venne impedita ogni perizia sulle cause del disastro; poco dopo il Maine fu affondato in alto mare, appena in tempo per iniziare una guerra che la Spagna non aveva alcun interesse a fare (cfr. pp. 201-204).
Un altro caso molto noto fu quello del Lusitania, un transatlantico civile britannico pieno di materiale bellico (fra l’altro esplosivi ad alto potenziale che esplodono a contatto con l’acqua), che viaggiava a pieno carico di passeggeri in zone dove si sapeva battevano sommergibili tedeschi (cfr. pp. 204-211).
Pearl Harbour è un altro esempio paradigmatico. Nel dicembre 1941, la marina americana venne attaccata apparentemente di sorpresa dalla flotta giapponese nelle Hawaii. All’epoca i servizi segreti statunitensi avevano decrittato il cifrario segreto giapponese e seppero con anticipo dell’imminente attacco. Il Presidente Roosevelt aveva bisogno di una scusa per entrare in guerra senza problemi. Alla fine della giornata gli unici veramente sorpresi dal bombardamento furono i marinai americani usati come carne da macello (cfr. pp. 211-218).
Anche gli incidenti del Golfo del Tonchino dell’agosto 1964, quelli che provocarono l’intervento in forze degli Stati Uniti in Vietnam, erano una bugia. La vicenda finì talmente male, con l’inglorioso ritiro americano di dieci anni dopo, che gli stessi diretti responsabili politici statunitensi furono costretti ad ammettere pubblicamente la loro colossale frode (cfr. pp. 218-220).
Per brevità tralascio tutta la propaganda che diede inizio alla prima e seconda guerra irachena, come la penosa vicenda delle fotografie dei cormorani incatramati, o la serie di false dichiarazioni fatte al Congresso da testimoni compiacenti istruiti per l’occasione dai servizi segreti statunitensi.
Quello che a me interessa è fare notare che gli Stati Uniti sono un paese come gli altri. Il Destino Manifesto non impedisce a questo paese di fare tutte quelle brutte figure che sono così consuete nei paesi in cui abitano i comuni mortali. Certo loro producono telegiornali per tutto il mondo e questo migliora la loro immagine. Per esempio nei pacchetti informativi è implicito chi sia il buono e chi sia il cattivo, così com’è ovvio che loro, che sono buoni, stiano aiutando i buoni. Vorrei solo far notare che anch’io, pur avendo ritenuto certa l’esistenza di Babbo Natale, dopo qualche anno ho smesso di crederci.
Fonte: http://www.carmillaonline.com/2013/12/21/breve-elogio-del-complottismo/.
Ripubblicato da: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=93839&typeb=0&Breve-elogio-del-complottismo.
16 dicembre 2013
Per dei forconi con un progetto
Siamo
stati zitti quando i nostri governanti hanno riscritto le
regole del commercio internazionale per consentire alle
multinazionali di spadroneggiare contro le piccole imprese, contro i
lavoratori, addirittura contro gli stati che corrono il rischio di
finire in tribunale se si azzardano a fare leggi che per difendere
ambiente e salute pongono limiti alle attività delle imprese
straniere.
Siamo
stati zitti quando ci hanno prospettato un’Europa costruita
sul principio supremo della concorrenza selvaggia.
Siamo
stati zitti quando ci hanno trascinato in una moneta unica senza
alcun meccanismo a difesa delle economie più deboli.
Siamo
stati zitti quando le imprese tedesche hanno avuto buon gioco
a invadere i mercati degli altri paesi europei grazie a leggi di casa
propria che hanno abbattuto i costi di produzione sulla pelle dei
loro lavoratori.
Siamo
stati zitti quando hanno progettato l’euro avendo come unico
obiettivo quello di renderlo appetibile per la finanza
internazionale affinché il suo valore salisse sempre più su.
Siamo
stati zitti quando il governo dell’euro è stato affidato al
sistema bancario europeo che ha a cuore solo l’interesse delle
banche contro i cittadini e i governi.
Siamo
stati zitti quando i governi sono stati scippati del potere di
stampare moneta non avendo nessun’altra possibilità di
finanziare i propri deficit se non ricorrendo a banche e investitori
privati che si comportano come strozzini.
Siamo
stati zitti quando i trattati europei hanno anteposto l’interesse
dei creditori ai diritti dei cittadini imponendoci l’austerity
come regola di vita.
Siamo
stati peggio che zitti. Siamo stati assenti considerando tutto
ciò roba noiosa da lasciare ai professionisti della politica.
Ed
è successo l’inevitabile.
Senza
un fronte popolare che mantenesse la rotta, la politica ha
deragliato. Ha trovato più conveniente mettersi d’accordo con i
poteri forti che in cambio di denaro hanno preteso regole a proprio
favore. Ed oggi che tutti i nodi vengono al pettine, non sappiamo da
che parte rifarci. Sopraffatti dalla complessità ci limitiamo alla
protesta rendendoci simili a bambini che strillano nella speranza che
qualcuno venga in loro soccorso per ripristinare i bisogni
insoddisfatti. La delega continua ad essere l’atteggiamento
dominante, ma ormai dovremmo averlo capito che solo la
partecipazione e la proposta possono tirarci fuori dai guai.
Ma
per proporre, prima ancora che idee di tipo tecnico, occorrono
chiarezze di obiettivi.
E
qui si aprono due strade di fronte a noi: quella della difesa
degli interessi corporativi e quella della difesa dei valori.
Ad oggi sembrano avere prevalso le logiche corporative, per cui le
piccole imprese, i professionisti, le partite iva di ogni ordine e
grado, scendono in strada per protestare contro tasse, vincoli
burocratici, ingerenza delle merci tedesche, che compromettono i loro
affari.
L’attenzione
rivolta al proprio ombelico, non si rendono conto che la crisi
è il frutto di una lunga concatenazione di eventi prodotti dai
meccanismi su cui questo sistema mercantil-finanziario è fondato:
concorrenza sfrenata, taglio dei salari, aggravarsi delle disparità,
licenza di azzardo fino al fallimento, intervento statale a favore
delle banche, indebitamento pubblico, austerity per garantire il
pagamento degli interessi.
In
definitiva, invece di andare all’origine della frana se la
prendono con gli ultimi sassi che cadono sulle loro teste. In
particolare la pressione fiscale, da sempre odiata, e l’euro, come
se il problema fosse l’estensione territoriale delle monete e non
il loro governo.
È
arrivato il tempo di capire che la situazione di impoverimento
in cui ci troviamo è il frutto di un’impostazione economica
organizzata per consentire ai forti di arricchirsi usando come
strategia la concorrenza sfrenata e la demolizione di tutto
ciò che è collettivo affinché ogni bisogno personale e sociale
sia trasformato in occasione di guadagno per loro.
Per
cui o arrestiamo questa logica o saremo perdenti. Finché il progetto
rimarrà il predominio dei forti, euro o lira, Europa o Italia, non
farà differenza.
Anzi
il ritorno ai vecchi confini nazionali può renderci ancora più
vulnerabili e più esposti al ricatto delle forze transnazionali
che libere di muoversi sullo scacchiere mondiale eviteranno i paesi
che osano sfidarle per rifugiarsi in quelli disponibili a soddisfare
i loro interessi.
Per
questo, la lotta per un cambio di progetto, ossia di valori, a
livello di più paesi europei, è la vera strada per uscire
definitivamente da una situazione di crisi che non è solo economica,
ma anche sociale e ambientale. Ed è proprio la difesa della
dignità personale di tutti, nel rispetto dei limiti del pianeta,
la battaglia di valori che dobbiamo condurre se vogliamo garantirci
un futuro.
Un
simile progetto richiede cambiamenti a tutti i livelli, da
quello globale a quello continentale, da quello
nazionale a quello locale, in numero così ampio da non
poterli esporre neanche in forma di elenco. Ma alcuni passaggi
meritano di essere evidenziati per la loro urgenza e la loro
importanza strategica.
Dopo
secoli di cultura mercantile ci siamo convinti che non esiste altra
formula economica all’infuori del mercato. Abbiamo dimenticato
che oltre alla produzione per la vendita affidata al mercato,
esiste anche la produzione gratuita per il godimento di tutti
affidata alla comunità.
Abbiamo
accettato di trasformarci in piccoli imprenditori di noi stessi che
intrattengono rapporti con gli altri solo sulla base della
compravendita e della concorrenza. Ma così facendo siamo finiti in
una guerra di tutti contro tutti: milioni di gladiatori pronti
al corpo a corpo con chiunque si pari davanti. Eppure dovremmo averlo
imparato che la logica del divide et impera è funzionale solo
al potere. Ai deboli, la storia lo ha dimostrato, conviene
l’alleanza, la cooperazione, la solidarietà. Per cui dovremmo
rafforzare e riformare la dimensione comunitaria in modo da
costruire una grande casa comune
dentro la quale tutti possano trovare rifugio come tripla
area di sicurezza.
Prima
di tutto la salvaguardia dei beni comuni
(aria, suoli, fiumi, boschi, spiagge, mari) perché la nostra
esistenza dipende da un ambiente in buona salute.
In
secondo luogo il soddisfacimento dei bisogni
fondamentali (acqua, cibo, alloggio, energia, salute,
istruzione e altro ancora) affinché la vita non sia più
un’angoscia, ma una gioia.
Infine
la garanzia di un lavoro affinché
tutti possano sentirsi utili e socialmente apprezzati.
Per
questo la nostra prima battaglia dovrebbe essere a difesa
dell’economia pubblica contro chi oggi vuole depredarla in nome del
debito. Basta continuare a farci spennare dai signori della
finanza sull’onda del senso di colpa. Se abbiamo duemila
miliardi di debito non è per colpa dei nostri eccessi di spesa, ma
degli interessi che ci hanno strangolato.
Per
cui non dobbiamo pagare solo noi ma pretendere che lo facciano
anche i creditori accettando riduzioni
sostanziose degli interessi e abbattimenti del capitale.
E sullo sfondo di tutto ciò, la riforma fiscale in senso progressivo, la riqualificazione della spesa pubblica per liberarci dalle spese inutili e dannose, la regolamentazione delle attività finanziarie per impedire la speculazione sui titoli del debito pubblico, la riforma dei trattati europei e della sovranità monetaria affinché l’euro sia messo al servizio degli stati per la creazione della piena occupazione, la promozione dei servizi pubblici, la soluzione del debito pubblico fuori dalle logiche di strangolamento.
Sogno
impossibile? Dipende da noi, dalla nostra capacità di smettere di
venerare il mercato come un dio assoluto e cominciare, invece, a
prenderci cura della nostra casa comune.
*
Centro Nuovo Modello di sviluppo.
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11 dicembre 2013
Festival della Storia 2013
Si svolge al Teatro Electra di Piazza Pichi a
Iglesias la rassegna "Festival della Storia 2013 - VII Edizione"
(12/13dicembre 2013) ideata dall'Associazione Figli d'Arte Medas e
dedicata quest'anno al concetto di identità in chiave storica,
antropologica ed economica.
LA PRIMA GIORNATA Il programma della prima giornata al Teatro Electra prevede due conferenze (ore 10:30 per le scuole, ore 17 per il pubblico) sul tema Convenzioni Reali e Virtuali - Dialoghi sul Mondo delle Immagini. Animeranno il dibattito gli interventi di Francesco Bachis, antropologo e borsista di ricerca all'Università di Cagliari, Pino Cabras, condirettore del sito www.megachip.info, Carmelo Masala, medico specialista in neurologia, Donatella Petretto ricercatrice di psicologia clinica nell'ateneo cagliaritano, e Antonio Maria Pusceddu, antropologo che collabora con l'Università di Cagliari.
Coordina i lavori il giornalista Massimiliano Messina.
La giornata si chiude alle 20 sul palco del teatro di Piazza Pichi con lo spettacolo Canne al Vento di Grazia Deledda, prodotto dall'Associazione Figli d'Arte Medas e interpretato da Gianluca Medas con l'accompagnamento musicale della chitarra di Andrea Congia e delle voci del Tenore Grazia Deledda di Nuoro. Pubblicato nel 1913, Canne al Vento narra il destino di tre sorelle, ormai nel pieno dei loro anni, che vedono sfiorire la giovinezza e con essa le loro proprietà. Un impervio e pesante viaggio attraverso la fragilità umana offerto da Grazia Deledda attraverso la storia della famiglia Pintor di Galte.
LA SECONDA GIORNATA
La rassegna si conclude venerdì 13 dicembre. Il programma della seconda giornata prevede due conferenze dal titolo Monete e Identità - Dialoghi sulla Pluralità delle Economie (ore 10:30 per le scuole, ore 17 per il pubblico) e lo spettacolo Il Codice della Vendetta Barbaricina di Antonio Pigliaru (ore 20).
IL FESTIVAL
Ideato e diretto da Gianluca Medas, prodotto e organizzato dall'Associazione Figli d'Arte Medas, il Festival della Storia nasce con la volontà di avvicinare il pubblico alle tematiche storiche e scientifiche, senza banalizzare i contenuti ma veicolando quest'ultimi anche attraverso le attività di spettacolo.
LA PRIMA GIORNATA Il programma della prima giornata al Teatro Electra prevede due conferenze (ore 10:30 per le scuole, ore 17 per il pubblico) sul tema Convenzioni Reali e Virtuali - Dialoghi sul Mondo delle Immagini. Animeranno il dibattito gli interventi di Francesco Bachis, antropologo e borsista di ricerca all'Università di Cagliari, Pino Cabras, condirettore del sito www.megachip.info, Carmelo Masala, medico specialista in neurologia, Donatella Petretto ricercatrice di psicologia clinica nell'ateneo cagliaritano, e Antonio Maria Pusceddu, antropologo che collabora con l'Università di Cagliari.
Coordina i lavori il giornalista Massimiliano Messina.
La giornata si chiude alle 20 sul palco del teatro di Piazza Pichi con lo spettacolo Canne al Vento di Grazia Deledda, prodotto dall'Associazione Figli d'Arte Medas e interpretato da Gianluca Medas con l'accompagnamento musicale della chitarra di Andrea Congia e delle voci del Tenore Grazia Deledda di Nuoro. Pubblicato nel 1913, Canne al Vento narra il destino di tre sorelle, ormai nel pieno dei loro anni, che vedono sfiorire la giovinezza e con essa le loro proprietà. Un impervio e pesante viaggio attraverso la fragilità umana offerto da Grazia Deledda attraverso la storia della famiglia Pintor di Galte.
LA SECONDA GIORNATA
La rassegna si conclude venerdì 13 dicembre. Il programma della seconda giornata prevede due conferenze dal titolo Monete e Identità - Dialoghi sulla Pluralità delle Economie (ore 10:30 per le scuole, ore 17 per il pubblico) e lo spettacolo Il Codice della Vendetta Barbaricina di Antonio Pigliaru (ore 20).
IL FESTIVAL
Ideato e diretto da Gianluca Medas, prodotto e organizzato dall'Associazione Figli d'Arte Medas, il Festival della Storia nasce con la volontà di avvicinare il pubblico alle tematiche storiche e scientifiche, senza banalizzare i contenuti ma veicolando quest'ultimi anche attraverso le attività di spettacolo.
10 dicembre 2013
I missionari del dio mercato
La crisi economica è giunta al suo sesto
anno e, soprattutto in Europa, ancora pochi sono i segni di un suo
arretramento. La ricerca di una via di uscita s’impone con sempre più
urgenza, ma le contraddizioni che hanno scatenato la crisi continuano a
mettere in discussione l’intero periodo che ha segnato lo sviluppo
economico del secondo dopoguerra.
L’irruzione sulla scena dei debiti
pubblici ha mascherato le fragilità del sistema finanziario privato –
vero responsabile della crisi – che per troppo e lungo tempo ha drogato
il mercato, incapace di autosostenersi.
Così, senza esitazione, il dito è
stato puntato contro lo “Stato spendaccione”. E l’“austerità espansiva”
è sciaguratamente diventata la chiave di volta delle politiche per la
ripresa, riaffermando la posizione di thatcheriana e reaganiana memoria.
Quella secondo cui “lo Stato è il problema”. Con i risultati che sono
sotto gli occhi di tutti: una nuova e più profonda depressione,
l’azzeramento delle prospettive di ripresa e lo spettro di dover fare un
balzo all’indietro, cancellando di colpo decenni di storia in cui il
progresso economico è stato reso inscindibile dalla conquista dei
diritti sociali e dal radicamento della democrazia.
La verità è che lo Stato è diventato una
stampella del mercato, senza però assolvere a un ruolo costruttivo per
lo sviluppo dell’economia e della società. I bilanci pubblici sono
esplosi per salvare le banche, senza per questo riuscire a recuperare le
sorti dell’economia reale, visto che il credito rimane “congelato”:
malgrado ciò si continua ad affermare che la zavorra dell’economia è
rappresentata dal welfare, e che bisognerà rinunciarvi, pena
l’impossibilità di dare spazio alla ripresa.
Per capire la crisi bisogna andare
oltre. Oltre il quadro teorico del neoliberismo – trasmessoci dall’alto e
acriticamente accettato. Andare oltre il neoliberismo, significa
innanzitutto riconoscere le ragioni culturali della crisi. Un po’ meno
austerità forse ci sarà concessa, ma se non si dà una lettura corretta
delle vere cause che hanno portato alla crisi, essa sarà destinata a
riprodursi in forme sempre più drammatiche e sempre più tendenti a
compromettere lo sviluppo dei Paesi e la loro coesione sociale.
Il modo con cui la riflessione economica
prevalente si è rapportata alla crisi fin dal suo nascere è tipico
della visione mainstream, che affonda le sue radici nei riferimenti
principali della cosiddetta teoria neoclassica:
l’economia è concepita
come una scienza (economics) che studia le scelte alternative tra
risorse scarse;
il mercato è il luogo di allocazione ottima delle
risorse, garantita da soggetti razionali in grado di utilizzare tutta
l’informazione disponibile. Nel mercato si determina “naturalmente” un
equilibrio che è il punto d’incontro tra domanda e offerta, stabilito
nel prezzo, inteso come misura della scarsità, capace di assicurare
l’allocazione ottimale delle risorse.
Un processo che è di tipo
esclusivamente logico, che prescinde totalmente dalle diversità nel
tempo e nello spazio delle diverse economie.
Secondo questa lettura
eventuali scostamenti dall’equilibrio del mercato hanno solo natura
temporanea perché il sistema economico è destinato a convergere verso
l’equilibrio.
In tale contesto la crisi non può essere prevista,
semplicemente perché non è neppure concepita.
Ed anche di fronte al suo
manifestarsi è possibile attribuirle un carattere di momentanea
accidentalità, oppure individuare imperfezioni del mercato che non
consentono il raggiungimento dell’equilibrio. Le crisi possono essere
innescate solo da grandi perturbazioni esogene come gli uragani, i
terremoti o sconvolgimenti politici, ma certo non causate dal mercato
stesso.
Molti economisti hanno, infatti,
interpretato la crisi del 2008 attraverso il pregiudizio ideologico
secondo cui essa è stata innescata da cause del tutto imprevedibili –
come il fallimento della Lehman Brothers – ma giacché i mercati liberi
tendono alla stabilità, non ci sarebbero dovute essere ripercussioni
sull’economia reale. È questo paradigma che deve essere messo
profondamente in discussione, perché la crisi del 2008 ha mostrato in
maniera spettacolare che sono le fluttuazioni stesse dei mercati a
generare instabilità: i mercati liberi non tendono all’equilibrio ma
generano squilibri selvaggi e pericolosi.
Dunque, l’economics si traveste dietro
una veste pseudo-scientifica, si presenta come una disciplina tecnica e
apolitica. Ma non è stato sempre così. Anzi, secondo la visione che ha
segnato lo stesso nascere della disciplina economica e che si afferma
all’indomani della prima Rivoluzione industriale con il pensiero di Adam
Smith, l’economia è invece una riflessione scientifica sulla società,
tesa a studiarne le caratteristiche che ne assicurano le condizioni di
riproducibilità e di sviluppo, in un contesto sociale, istituzionale e
normativo che condiziona l’azione dei soggetti.
Non a caso si parla di
“economia politica”, guardando al mercato come a un complesso sistema di
norme, storicamente determinato e privo di qualsiasi connotato di
naturalità, non necessariamente capace di assicurare il pieno impiego
delle risorse. L’approccio dell’economia politica classica è dunque
intrinsecamente predisposto a concepire il prodursi di crisi e la
necessità di operare quei correttivi che assicurino la riproducibilità
del sistema economico. Di là dalle diverse versioni ed approfondimenti
che si sono succeduti passando per Ricardo, Marx e arrivare fino a
Keynes, la visione dell’economia politica resta ancorata a una
rappresentazione del sistema economico in cui la dimensione delle classi
sociali e la diversità di interessi che a queste si associano ne
determinano un assetto fondamentalmente instabile.
Invece nella visione neoclassica
mainstream è assente un qualsiasi ruolo della politica. La predominanza
trentennale di questa visione ha tuttavia prodotto una specifica
egemonia culturale, dura a morire, nonostante il perdurare della crisi.
La visione mainstream appare dotata di un’intrinseca capacità di
sopravvivenza: il sistema economico, inteso come dato di natura
suscettibile di essere studiato con il metodo delle scienze naturali,
porta ad escludere l’esistenza di qualunque alternativa con la quale
confrontarsi. La visione mainstream è fatta di assiomi. Le uniche
discussioni ammissibili sono quelle condotte entro la propria cinta
concettuale.
La lettura della crisi e le terapie per
superarla continuano pertanto a essere appannaggio degli economisti
mainstream. Con la possibilità, peraltro, di condizionare l’opinione
pubblica e di creare consenso a proprio favore.
A questo proposito Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Guido Rossi e altri hanno recentemente denunciato quella che è, a loro avviso, una gravissima distorsione della realtà da parte dei principali media del Paese:
«La politica è scontro d’interessi, e la gestione di questa crisi economica e sociale non fa eccezione. Ma una particolarità c’è, e configura, a nostro avviso, una grave lesione della democrazia. Il modo in cui si parla della crisi costituisce una sistematica deformazione della realtà e un’intollerabile sottrazione di informazioni a danno dell’opinione pubblica. Le scelte delle autorità comunitarie e dei governi europei, all’origine di un attacco alle condizioni di vita e di lavoro e ai diritti sociali delle popolazioni che non ha precedenti nel secondo dopoguerra, vengono rappresentate come comportamenti obbligati immediatamente determinati da una crisi a sua volta raffigurata come conseguenza dell’eccessiva generosità dei livelli retributivi e dei sistemi pubblici di welfare. Viene nascosto all’opinione pubblica che, lungi dall’essere un’evidenza, tale rappresentazione riflette un punto di vista ben definito (quello della teoria economica neoliberale), oggetto di severe critiche da parte di economisti non meno autorevoli dei suoi sostenitori».
Legenda: Abbiamo considerato la
lista dei professori di economia politica, che erano 704 nel 2008, e per
ognuno abbiamo contato quanti articoli hanno scritto su la Repubblica, il Corriere della Sera, Il Sole 24 ore e La Stampa negli ultimi 5 anni e
precisamente dal 1 gennaio 2007 al 31 dicembre 2011 (per questo abbiamo
utilizzato l’archivio della Camera dei Deputati).
Per capire le relazioni tra i diversi autori è interessante misurare il
loro grado di connessione. A questo scopo abbiamo usato Repec che
è il più grande database bibliografico di economia disponibile
gratuitamente su internet. Abbiamo dunque costruito il grafo seguente,
mettendo una connessione tra due diversi autori se sul database Repec
compare almeno un articolo scientifico in cui sono coautori. Le
connessioni in rosso se due autori sono coautori di articoli su
quotidiani. (Fonte originale)
Il nuovo e vincente attore nella
politica internazionale è dunque l’estrema destra economica che ha
finalmente rimpiazzato il vuoto dell’estrema destra politica.
In Italia
l’estrema destra economica ha riempito il vuoto politico cercando di
sovvertire la Costituzione nei suoi tre punti fondamentali: rimuovere
ogni controllo alle decisioni del settore privato, togliere al governo
dei cittadini il controllo e la responsabilità della spesa pubblica con
il vincolo del pareggio del bilancio e tagliare i diritti dei
lavoratori.
Nella confusione politica generale che stiamo vivendo, le
idee dell’estrema destra economica hanno permeato i partiti di
centrosinistra in tutta Europa. Nel vuoto generale d’idee, spesso
artificialmente indotto, questa lobby di pensieri prefabbricati cerca
dunque di vendere a una politica ormai priva di contenuti la soluzione
liberista come l’unica possibile, spesso falsando i dati e manipolando
la realtà.
La battaglia culturale è dunque intrinsecamente legata a
quella politica: senza un punto di riferimento culturale l’azione
politica rimane alla mercé di chi è più organizzato per manipolare
l’opinione pubblica. Ed è proprio questa la battaglia che bisogna
intraprendere a partire dalla nostra Costituzione e dal ruolo
fondamentale che essa assegna all’attore pubblico: quello di essere
artefice di una “programmazione” economica mirata alla piena e buona
occupazione e per una società giusta e democratica, capace al tempo
stesso di farsi interprete delle domande più urgenti poste dalla storia e
del tempo presente.
Fonte: Left, 7 dicembre 2013.
Tratto da: http://keynesblog.com/2013/12/09/i-missionari-del-dio-mercato/.



