30 gennaio 2012

TINA contro TINA. Europa e alternative

di Pino Cabras - da Megachip.


Siamo una lega di maledette Cassandre.
Nel pieno della crisi che sconvolge da anni interi sistemi, una crisi non ancora entrata nella sua fase peggiore (diciamolo subito anche se non ci credete, se no che Cassandre saremmo?), vediamo dissolversi le mappe che abbiamo usato finora per orientarci in mezzo ai fatti: mappe geopolitiche, mappe economiche, storiche, culturali, cognitive, sociali.
Tutte stanno cambiando rapidamente.

Sentiamo con curiosità e sgomento i balbettii di chi ormai non capisce dove stia, e pensa che tutto si aggiusterà come prima, che in fondo staremmo solo stazionando in una fase bassa dei soliti cicli economici e finanziari, che basterebbero adattamenti modesti, in attesa del Godot del nostro tempo, la famosa crescita: il feticcio-mantra-esorcismo che ai nostri occhi e alle nostre orecchie fa diventare patetico e non credibile chi la evoca, e rende insopportabile e criminale il “pensiero unico”, da trent’anni riassunto nella formula “TINA: There Is No Alternative”.


1. COSA SI PUÒ CAMBIARE
Scopriamo con più interesse e curiosità l’esplodere di riflessioni, dibattiti, proposte, articoli di chi alla TINA si oppone, e presenta altre visioni della crisi, soprattutto perché l’ha saputa prevedere. È una fase ricca e confusa, in cui si sommano creatività, visioni, progetti a lungo trattenuti, come pure fughe in avanti e ripensamenti.
Pecchiamo spesso di orgoglio per aver previsto molto bene la dimensione della crisi sistemica, e allo stesso tempo ci intristiamo alla vista della dispersione che ci circonda, in mezzo a un caos di linguaggi, fra masse di senza-potere che hanno perduto anche l’abbiccì dell’organizzazione politica.
Il ricordo degli unici luoghi in cui si sia esercitata una sovranità popolare limitata, cioè i partiti politici del dopoguerra, è svaporato. Non c’è stata un’epoca d’oro della sovranità italiana: era un’era di semi-sovranità sub-dominante. Ma, finiti i partiti tradizionali, è finita anche quella tangibile mezza sovranità popolare. L’albero della democrazia non è stato solo sfrondato, è come se da decenni fosse stato tagliato alla radice. Oggi non c’è uno strumento di promozione della sovranità del popolo italiano che abbia un minimo di sedimentazione storica.
Discutiamo allora con aperture nuove, proviamo l’ebbrezza di percorrere sentieri mai battuti e riscoprirne altri poco conosciuti. Impariamo molto, in attesa di trovare una sintesi, una presa a cui tenersi. C’è chi pensa che se la politica e l’economia sono complesse, si debba semplificarle, e concentrare drasticamente il discorso su temi che riassumano la crisi, e su quelli puntare tutta l’attenzione e perfino l’azione politica. Alcune Cassandre vogliono essere finalmente credute e discriminare i temi su cui fare la Rivoluzione. Ho visto evolversi impetuosamente in tale direzione le riflessioni di alcune personalità che frequento da anni dentro la nostra lega delle maledette Cassandre. È il caso di alcuni dirigenti e militanti di Alternativa da cui ho imparato molto, come Marino Badiale, Fabrizio Tringali, Stefano D’Andrea. Cercate le loro opere in rete: in questi anni hanno pubblicato cose molto originali e interessanti. Ora, però, Badiale, Tringali e D’Andrea hanno alla fine reagito alla faccia feroce della TINA proponendo una TINA tutta loro, ma pur sempre una TINA, basata sulle parole d'ordine "Uscire dall'Euro" e "Azzerare la UE". Nel giro di pochi mesi hanno inalveato le loro intuizioni e analisi complesse in un canale di scorrimento preservato da argini inaggirabili. Quel che prima era un fiume aperto agli affluenti è diventato un torrente cementificato: va più dritto e veloce verso la foce, ma diventa per questo meno adatto quando la pioggia è il Diluvio, che pure è il tipo di pioggia che anche loro avevano previsto.
La discussione ha preso una piega difficile via via che Badiale, Tringali e D’Andrea hanno blindato i termini entro i quali a loro avviso si deve svolgere la discussione. A loro si è aggiunto anche Claudio Martini, che ha insistito su una definizione per la loro posizione: “sovranisti”. Non mi convince, ma è comoda per sintetizzare e la userò in modo del tutto provvisorio, precisando che la questione della sovranità popolare è per me altrettanto cruciale.
I sovranisti sono stati via via più perentori nello stabilire cosa sia realistico e cosa sia ingenuo, cosa sia irriformabile e cosa sia velleitario, cosa sia giuridicamente incontrovertibile e cosa sia debole, con letture della storia nazionale ed europea molto discutibili, ma presentate come dati di fatto fissati sulla roccia.
Un fantastico "cul-de-sac" della logica è rappresentato ad esempio dal concetto, ripetuto a oltranza, che l'Unione Europea è come è, e non come la vorremmo, ma che non è riformabile perché il meccanismo di revisione dei trattati ha dimensioni e tempi incompatibili con le magre forze nazionali di chi vorrebbe cambiarli. Insomma, voler cambiare le istituzioni europee, essendo per i sovranisti un compito impossibile, è una fuga nell'irresponsabilità, una sorta di torre d’avorio. "Meglio recedere per non soggiacere", semplifica D’Andrea. Lui, come gli altri sovranisti, intravede da questo passaggio uno sbocco naturale: una piena sovranità nazionale in cui l'Italia, finalmente libera dalla macina neoliberista di Bruxelles e Francoforte che grava sul suo collo, esprimerà una classe dirigente rivoluzionaria che attuerà politiche dirigiste, protezioniste, con piena sovranità della moneta, con industrie pubbliche e con politiche dalla parte dei ceti popolari. Un blocco storico “socialista” come mai si è visto in Italia, e tanti saluti al capitalismo.
Benissimo.
Siccome i sovranisti sostengono che i tempi di una «Europa dei popoli» sarebbero troppo lunghi, e quella stessa aspettativa sarebbe vaga, e che non ci sarebbe un soggetto collettivo ovvero un «popolo europeo» in grado di perseguirla, ne dovremmo desumere – per contro - che esista a loro avviso uno scenario realizzabile in tempi rapidi, basato su una prospettiva concreta e a portata di mano, sorretta da un popolo italiano finalmente virtuoso.
Dobbiamo cioè desumere che in Italia sia possibile instaurare in tempi storici ravvicinati un meccanismo di consenso e un blocco sociale raccolto intorno a un tipo di classe dirigente che agisca all'opposto della piovra conservatrice che c'è.
Per giunta, questo dovrebbe accadere mentre hanno luogo contraccolpi monetari, finanziari e militari paragonabili a quelli di una guerra, di portata tale da rendere ragionevolmente imprevedibile qualsiasi esito.
In sintesi, per i sovranisti uscire dalla UE si deve, perché riformarla sarebbe un sogno ingenuo e nessuna nostra influenza sarebbe possibile sul corso degli eventi. Non sarebbe invece un sogno ingenuo immaginare di influenzare la storia dello Stato-nazione italico mettendogli subito delle braghe socialiste e nazionaliste, a dispetto di tutti i soggetti che tipicamente alzano il tiro nei momenti di crisi sistemica: avventurieri, mafiosi, camorristi, imprenditori del consenso, reclutatori di ultras per eserciti simil-Kosovo, danarosi secessionisti, agenti segreti di ogni dove, speculatori finanziari coperti dalle istituzioni del Washington Consensus, pirati della Shock Economy, tutti compresenti e interagenti, e tutti legittimati a non porre più freni a una forma a questo punto più conclamata, estrema e banditesca della loro usuale presenza. Sicuri di batterli? Il protezionismo nazionale è qualcosa a cui guardo senza condizionamenti ideologici, ma non dimentico nemmeno un minuto che negli ultimi trent’anni la vita politica repubblicana è stata condizionata dall’impresa più protezionista e antieuropea che si possa immaginare, la Fininvest.
Giorgio Bongiovanni e Monica Centofante hanno riassunto una mole impressionante di inchieste della magistratura che hanno rivelato quanto interesse hanno le mafie a voler creare una sorta di Mafialandia separatista che si fa pienamente Stato, al riparo da ogni regola italica ed europea, una replica ingigantita delle dinamiche statuali che già conosciamo di stati come Messico, Colombia, Kosovo.
Agli occhi dei sovranisti dunque - almeno nelle loro riflessioni più recenti - per l'Europa nessuna riforma sarebbe realistica, mentre per l'Italia in gran tempesta il nocchiero sarebbe invece pronto, benché acciaccato. Se no, perché uscire dalla UE? Il tutto ora, subito, qui, per diventare sostanzialmente autarchici.
Facciamo come l’Ungheria? Abbiamo visto subito di che sostanza è fatto quel realismo antieuropeo, in questo quadro storico e politico, e quali micidiali meccanismi innesca, in tempi iperveloci che travolgono qualsiasi passaggio intermedio.
Quel che contesto nettamente non è la fondatezza di molti elementi di analisi formulati da Badiale, Tringali e D’Andrea sulle massime contraddizioni dell'Europa attuale, vale a dire l'attuale assetto disfunzionale della moneta e i confini costituzionali dell'ordinamento in capo all'Unione Europea[1].
Quel che contesto è la loro pretesa di incanalare e forzare la risposta politica in una direzione che non ammette alternative. Appunto: “TINA”, There Is No Alternative. E se lo traduciamo, davvero non c'è più Alternativa.



2. LA TRANSIZIONE
I sovranisti non si sono posti nella prospettiva della costruzione di un nuovo gruppo dirigente, anche se pensano di averlo fatto, in perfetta buona fede. E non perché non abbiano divulgato la loro visione del problema: hanno infatti scritto pamphlet e articoli, hanno organizzato convegni, hanno chiamato a raccolta economisti. Ma hanno abissalmente ignorato altri fattori chiave di questa riflessione, che pure avrebbero potuto trovare, anche dentro Alternativa (e perfino dentro molte loro riflessioni iniziali), ad esempio una questione che sin dall’inizio fu posta al centro delle nostre riflessioni, ossia il problema della transizione.
Si, proprio la transizione, che avevamo considerato un «cambio di civiltà, che richiederà immense risorse materiali, ma soprattutto radicali cambiamenti psicologici, di abitudini, di relazioni tra gl'individui.»
Qualcosa che non dovrebbe farci spaccare in una discussione sul monetarismo, ma che ci dovrebbe convocare verso tutte le strade intermedie – le tante alternative – che possono limitare i danni, in un tempo che si annuncia disumano.
Anche laddove proclamassimo parole d’ordine volte a «rompere i rapporti con l’Unione Europea» (come si dice in casa sovranista), la spada che taglia i nodi gordiani sarebbe comunque in altre mani. Un recesso dai trattati internazionali, specie di questa importanza, non si fa con due scartoffie dal notaio. Una rottura traumatica dei «rapporti con l’Unione Europea» sarebbe la premessa per un accumulo incontrollabile di fenomeni caotici che zomperebbero allegramente sul piano cartesiano in cui avessimo voluto ordinarli, facendolo a brandelli assieme a tutti gli appunti di diritto costituzionale sin lì scolasticamente compilati. E naturalmente farebbe a pezzi le previsioni di qualsiasi maledetta Cassandra, con scenari ancora più imprevedibilmente catastrofici di quelli fin lì evocati.
In verità, trovo suggestivo il nucleo ispiratore dell’analisi di Badiale e gli altri, pronti – mi si perdoni l’ironia - con le loro nude mani a distruggere l’Europa politica, prima che, in un tempo storico velocissimo, ci travolga tutti.
Tuttavia anche il volto della "Non Europa" a cui alludono non si affaccia affatto dalle loro pagine.
Mi spiego meglio. Gli scenari più plausibili susseguenti al crollo disordinato del costrutto europeo sarebbero quelli di un'Europa disgregata in cui salterebbero in aria anche i precedenti equilibri (gli Stati-nazione) costruitisi in un contesto storico che non c'è più: Mazzini è notevolmente morto. Sarebbero scenari in cui svanirebbe qualsiasi indipendenza reale dell’Italia sia rispetto alle convulsioni militari dell'Impero atlantico sia rispetto al potenziale egemonico continentale cinese in fieri. Nel momento in cui è in incubazione una collisione fra grandi potenze, la dissoluzione europea sarebbe una catastrofe geopolitica, un fattore accelerante in grado di infiammare anche tutti gli altri numerosi inneschi che ci stanno portando a una guerra mondiale.
Certo che non è uno scenario dimostrabilmente certo e meccanicamente prevedibile. Ma possiamo ignorarne la gravità e ritenerlo per contro “improbabile”? Credo che sarebbe una sottovalutazione sconsiderata. In una situazione in cui, rubo l’espressione a Pier Luigi Fagan, il «tessuto economico sarà arso come un deserto di sale», non scommetterei un euro né una lira né un doblone sull’immancabile tenuta dello Stato-nazione nel contesto di una distruzione dell’Unione Europea. Non certo a condizioni democratiche, né pacifiche. 
Già oggi, mentre scrivo, ho ancora lo sguardo sul presidio antidebito davanti al palazzo della Regione Sardegna, a Cagliari. Ho parlato con questi imprenditori e artigiani rovinati che bivaccano lì da mesi. Costituiscono un disperato avamposto di migliaia di persone che non ce la fanno più a sopportare l’implacabile torchio di Equitalia, che ha messo in ginocchio il 40% delle imprese sarde, nel pieno di un incipiente processo di desertificazione economica dell’isola, in un momento in cui sta chiudendo una grande fabbrica alla settimana. I fondi europei non sono spesi per le insufficienze della classe dirigente locale. I fondi derivanti dalle entrate fiscali, che spetterebbero direttamente alla Sardegna in base a leggi costituzionali italiane, vengono negati con pretesti dal governo di Roma (non da Bruxelles, e non da oggi), perfino in presenza del massacro sociale in atto. Se questo drammatico declino si accelererà, dopo una duratura rottura del patto costituzionale, cosa aggancerà ancora la Sardegna non dico all’Europa ma all’Italia? Manzoni, Mazzini? Figuriamoci. Si stanno già rispolverando i nomi dei patrioti sardi antichi e degli indipendentisti attuali, molti rispettabili e con ragioni buone e quadrate. Basterà un altro giro di torchio con i tassi usurari dell’Italia-Equitalia, e qui vedrete esplodere un indipendentismo radicale. Dovrà intervenire l’esercito tricolore? Oppure interverranno i sovranisti che si arruoleranno armati di schioppo, come immagina D’Andrea, per stanare gli altrettanto sovranisti sardisti nel Supramonte? E in Sicilia, luogo chiave di ogni riunificazione italica, dai Mille all’operazione Husky, e al contempo luogo di ricorrenti spinte centrifughe, cosa succederà? I forconi sono solo l’antipasto. E nel Nord che potrebbe improvvisamente sentire sirene centroeuropee più forti? Cosa succederà lungo confini percorsi dai profughi delle guerre interetniche, con le potenze in campo per non rinunciare alle loro regioni-portaerei? Costa poco, presso i centri del comando, a gente avvezza al “divide et impera”, spendere miliardi di dollari per esasperare una crisi, penetrare nel nucleo cesaristico di un potere statale, disgregarlo e coglierne i dividendi. La Libia del sovrano Gheddafi è stata abbattuta con spietatezza e dovizia di mezzi. La dinastia Assad in Siria è nello stesso mirino. Ovunque si possono trovare buone ragioni amiche da dollarizzare e imbottire di armi, buone ragioni nemiche da demonizzare, o cattive ragioni da considerare irredimibili, o normali contrasti da rendere incomponibili, o compromessi da rigettare fino a rendere normale una guerra civile sotto una No-Fly Zone. Nemmeno l’Italia sarebbe immune. Nemmeno questo suolo sarebbe sacro. I droni che oggi sorvolano e avvelenano  solo i poligoni militari sardi nei giochi di guerra, potranno l’indomani trasvolare e avvelenare tutti i cieli e i territori di una Repubblica allo sfacelo.
Non ci salverà un’idea d’Italia astratta e cristallizzata, che non c’è mai stata in quella forma evocata dai sovranisti, per le ragioni ben spiegate da Fagan e da Piero Pagliani, oltre che dal Gruppo Clarissa.
Quando poi i sovranisti ritengono che il tentativo di riformare e salvaguardare un’Europa politica non sia altro che la volontà di creare un competitore imperialista, un Moloch eurocentrico da aggiungere alla lotta fra le superpotenze, hanno capito l’esatto opposto di quanto andiamo dicendo. Faccio interamente mie le parole del Gruppo Clarissa:
«O i movimenti di alternativa riusciranno a pensare e ad agire parallelamente in modo italiano ed europeo, in modo che le soluzioni proposte e sviluppate in Italia siano in grado di alimentare anche il processo di cambiamento in Europa, oppure sia l'Europa che il nostro Paese diventeranno nuovamente terreno di scontro di forze etero-dirette, con il rischio di una frammentazione anche politica, secondo linee di faglia che qualcuno sta già chiaramente delineando, in Italia ed in Europa, e che attori interessati operano da tempo spregiudicatamente per favorire: basti pensare da una parte alle "tre Italie" ipotizzate per il nostro Paese, e, dall'altro, alla possibile divisione europea in "tre Europe" (centro-occidentale, mediterranea ed orientale) cui molti attori esterni si stanno applicando con energia.
Per restare unita, l'Italia deve lottare perché anche l'Europa resti unita. Per essere sovrana, l'Italia deve lottare perché anche l'Europa sia sovrana.»
La fine della prospettiva politica europea eliminerebbe qualsiasi interlocuzione dotata di qualche peso rispetto all’attuale posta in gioco. Non ci sarebbe nulla in grado di impedire una fase più feroce del confronto con la Cina, ora che viene recitato il rosario della devastazione in Africa e Medio Oriente per voler piegare Pechino e renderla infine satellite dell’Impero.
Anche questo non è ineluttabile come una reazione chimica, d’accordo, ma è uno scenario molto plausibile, che fa già parte dei piani di influenti dottor Stranamore, gli unici a cui i bilanci non negano mai nulla, e che risulterebbe estremamente pericoloso ignorare.
In questo campo come in altri servirà un pensiero politico della transizione, in cui un molta Europa ci servirà ancora, eccome, perché lo spettro che si aggira per il continente, oggi, è un localismo molto distruttivo, egoista, violento, etnicista e regressivo, infinitamente manovrabile dai padroni del mondo.
Mentre esiste – penso al movimento No Tav e non solo - anche un senso di difesa del territorio, anch'esso locale, diffuso, che ha tuttavia macrointeressi su scala europea (scambi economici, culturali, energia, ricerca scientifica e tecnologica, necessità commerciali comuni e nel contempo differenziazioni di obiettivi rispetto ad altri blocchi continentali). Lo hanno ricordato perfino gli stessi Badiale e Tringali agli esordi della loro battaglia critica contro il dispositivo dell’euro.



3. LA CIVILIZZAZIONE EUROPEA E L’ITALIA
I sovranisti oggi calcano la mano sull’Europa che non sussisterebbe contrapponendole un’Italia che esisterebbe.
Quando Badiale e Tringali affermano che una qualche forma di patriottismo europeo presupponga un popolo che abbia caratteristiche di unità (la lingua, le tradizioni, etc...), e una storia (con le sue battaglie, i suoi "eventi", etc..), con l'esplicitazione che questo popolo su scala europea non esista, si riferiscono in realtà a un modello di statualità troppo ricalcato sullo Stato-nazione. Non ho nessun problema ad ammettere che lo Stato-nazione ha una sua dimensione critica "media" inadatta a un costrutto più complesso come lo stratificato mosaico europeo (anche se non dimentico l’esempio dell’India, una mescolanza ancora più variegata dell’Europa - essendo la seconda entità geografica al mondo per grado di diversità culturale, linguistica e genetica dopo l'Africa - eppure ricomposta in un’unica entità istituzionale che riconosce decine di lingue ufficiali).
Ma proprio perché occorre valutare caso per caso, si andrebbe fuori strada a voler ricondurre le istituzioni europee storicamente determinate al calco westfaliano dello Stato-nazione, che è un fenomeno altrettanto storicamente determinato e non un dogma.
Va detto peraltro che il nostro Stato-nazione di fatto non fu forgiato dagli intellettuali del Risorgimento, ma da un processo violento di annessione che assoggettò le realtà statuali esistenti al Regno di Sardegna dominato dalla dinastia sabauda, in forma di una rivoluzione passiva favorita dall’Inghilterra. Per reprimere la guerriglia sorta nel Sud del nuovo stato furono usati più soldati che in tutte le cosiddette guerre d’indipendenza messe insieme[2], furono sistematicamente distrutti i corpi sociali intermedi, l’industria, l’agricoltura, le foreste, le infrastrutture, i canali di riproduzione della memoria di vasti territori. Enormi masse meridionali fluirono in un esodo biblico verso le Americhe mentre si instaurava un divario territoriale plurisecolare senza pari in Europa. Alla fine, dopo successive vicende secolari, la condivisione di uno spazio nazionale e di un tratto di storia comune, ancorché segnata da tutte le forzature artificiali del processo storico, si è comunque sedimentata in una riconoscibile collettività italiana, fatta di legami molto materiali che possono essere sciolti solo con un’artificiosità uguale e contraria. O con una catastrofe geopolitica.
Possiamo dire che una tendenza analoga è andata avanti nel processo di unificazione politica dello spazio europeo, passo dopo passo. Il risultato della strategia dei piccoli passi sarebbe stato che «un giorno i governi nazionali si sarebbero svegliati scoprendo di essere integrati in una “rete diffusa di attività e istituzioni internazionali” da cui sarebbe stato quasi impossibile districarsi»[3]. Sarà satanico, come ripete D’Andrea, ma è la realtà effettuale. Non tenerne conto lo preserverà da Satana, ma non dalla presa del potere di un clone di Hashim Thaçi, il premier del Kosovo, detto il Serpente.
Ci sono interdipendenze europee che si possono sbrogliare solo al prezzo di una calamità, perché nel frattempo l’idea europea è diventata un fatto compiuto, vissuto da milioni di esseri umani, qualunque fosse il disegno iniziale e quello successivo dei potenti.

Richiamo alcuni esempi storici che spiegano perché i processi istituzionali creano realtà che non si prestano ad essere azzerate senza azzerare anche il passo degli esseri umani.

Primo esempio. Quando la Federazione Jugoslava fu spaccata, negli anni novanta, il recupero del vecchio filo spezzato degli Stati-nazione fu in realtà un tragico processo di reinvenzione delle tradizioni, che non si dava cura delle infrastrutture comuni, dei tantissimi matrimoni interetnici, della non più scomponibile mobilità che aveva reso la Jugoslavia una realtà concreta cui si legava la vita materiale e spirituale di milioni di cittadini. Il costo umano fu spaventoso.

Secondo esempio. La sovranità della Lettonia fu schiantata nel 1940 dall’Armata Rossa, che trasformò questo e altri paesi baltici in repubbliche sovietiche. Quando nel 1991 la Lettonia si staccò nuovamente da Mosca, ormai solo il 60% della popolazione era etnicamente lettone. Il resto, soprattutto russi, erano frutto della ricomposizione sovietica. Moltissimi erano nati nel territorio di quella repubblica, ma il nuovo regime li privò in gran parte dei diritti di cittadinanza, e la situazione permane, con moltitudini di autoctoni considerati stranieri in patria. Il governo di Riga agisce come se l’interdipendenza nel frattempo creatasi non fosse mai esistita e non sussistesse nemmeno ora. Da questa rimozione reazionaria si sono generate ingiustizie intollerabili e perfino automutilazioni economiche, laddove l’integrazione sarebbe ancora assai conveniente in tanti campi[4].

Rispetto alla Jugoslavia e all’Unione Sovietica, l’Europa di oggi è un caso diverso ancora, ma è comunque il frutto dell’interazione storica di spinte imperiali, disegni economici e istituzionali, vita vissuta di milioni di individui, in un contesto storico in movimento. Così come lo Stato italiano, l’Unione Europea ha teso ad autolegittimarsi senza bussare in casa Badiale o in casa Cabras a chiedere permesso.

La questione giuridica sollevata dai sovranisti ha molti elementi che faccio miei senza problemi. Individua la divaricazione fra i due diversi punti di fuga della prospettiva costituzionale propria della Costituzione italiana e di quella derivante dai trattati europei. Nel momento in cui l’Unione Europea accelera la sua spinta costituente, la divaricazione arriva al dunque.
«Non si scappa dalla logica» - proclama D’Andrea. E mentre ci indica con sicurezza il pericolo, ostenta altrettanta sicurezza per indicarci la soluzione sovranista, che passerebbe per le macerie di tutta l’infrastruttura dell’Unione Europea. E allora, se dalla logica non si scappa, il diritto acquisito comunitario, il famoso “acquis”, non sarebbe più affatto acquisito. I sovranisti azzerano, non fanno transizione. O almeno, non hanno più scritto un rigo su questo. Sono sicuro che saranno in grado di scriverlo, e anche bene, ma la transizione non è più in cima alle loro preoccupazioni, e a noi rimangono in mano delle pagine strappate. Questo silenzio lascia un indecifrabile intervallo tra l’ipotetico crollo di sessant’anni d’Europa e il neorisorgimento italico invocato dall’ala nazionalista-ottimista delle maledette Cassandre. Cosa riempirà questo intervallo? Ora, non è che io mi ripari sotto l’ala catastrofista delle medesime.
È che sto vedendo passare lungo il fiume troppi corpi politicamente morti: quello di Papandreu che osava proporre un referendum per la Grecia; o quello di Orbán che da Budapest voleva spezzare le reni a Bruxelles, prima di mandarvi, dopo appena una settimana, il suo ministro degli esteri con il cappello in mano, reduce da una vana e umiliante anticamera presso la sede washingtoniana dell’FMI.
Prima di illuderci di essere in una fase di attacco, suggeriscono Romano Calvo ed Ettore Macchieraldo, guardiamo allo scenario: «Uno scenario, si badi bene, che non saranno poche migliaia di volenterosi come noi a determinare.»
E soprattutto, non dovremmo, in reazione all’orribile Europa di Draghi e Monti, sopravvalutare gli Stati-nazione oltre il loro significato storicamente dato.
In queste analisi ci soccorre lo storico Franco Cardini. Lo ha citato anche Claudio Martini, ma, come da un cesto di frutta, ha voluto cogliere solo le ciliegie di Cardini che si incastonavano nel suo discorso sovranista-nazionalista.
Cardini in realtà ricerca da sempre le radici di un patrimonio comune reale dell'Europa, che non a caso ebbe un equilibrio multietnico e plurilinguistico nella fase imperiale asburgica. Cardini descrive molto bene questi aspetti trascurati ma vivi della storia europea nel libro che ha scritto con Sergio Valzania, “Le radici perdute dell'Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali” (Mondadori, 2007). Lo storico fiorentino trova esperienze che in determinate circostanze storiche hanno costituito ambiti culturali e politici condivisi. Oggi irripetibili - e anche indesiderabili in quelle forme - ma abbastanza significativi da dimostrare che non esiste solo un modello di “nation building process”, né solo il Moloch degli eurocrati.
Cosa dice infatti Cardini? Dice che c’è un «gigantesco anacronismo» che domina «la comune presentazione dei fatti accaduti nei secoli XVI e XVII in Europa, cioè la pretesa di analizzarli e interpretarli alla ricerca e nell’ottica delle origini nascoste degli stati nazionali. Siamo di nuovo alla diffusa abitudine dell’utilizzazione di categorie del “dopo” per spiegare il “prima”, corollario della vecchia massima deterministica del post hoc, ergo propter hoc. Un vizio tipico della storiografia positivista», ma ancora largamente abusato, marcato dalla pretesa di ridurre a consequenzialità prevedibili come una reazione chimica una materia che invece non si presta.
La materia che ci troviamo a maneggiare è la delicata sostanza di qualsiasi procedimento di definizione di un’identità di un popolo e di qualunque processo di costruzione giuridica di vasta portata. Oggi è abbastanza comune sintetizzare questo discorso nel prezioso schema elaborato dall’antropologo Carlo Tullio Altan. In questo schema l’identità di un popolo ha varie componenti simboliche. Innanzitutto la memoria storica, le istituzioni e i costumi, la lingua, la discendenza come sistema di parentele e gerarchie, e infine il territorio. Potremmo anche dire epos, ethos, logos, genos e oikos.
Se usiamo disinvoltamente questo modello analitico, possiamo cercare di identificare per l’Europa soprattutto la parte che sarà recitata dall’ethos, cioè dalla componente simbolica, all’interno di un’altra serie di elementi di cui la storia diventa sostanza: l’ecosistema nel quale un evento si manifesta; l’attività economica; le forze sociali e la cultura come insieme di saperi e credenze. Per analizzare l’idea d’Europa dovremo avere una visione non deterministica dei fenomeni sociali, e perciò comprendere quanto possa essere variegato l’approdo alla statualità da parte delle popolazioni europee.
Se facciamo riferimento a una visione così aperta degli elementi costitutivi di una comunità democratica che abbia un nuovo motore della propria sovranità, alla vecchia definizione di “carattere nazionale”, troppo incline a facili psicologismi e pericolosamente affine a definizioni razziste, occorrere semmai sostituire quella di “civilizzazione culturale”.
E allora diventa superfluo dire che “non esiste un popolo europeo”, quando invece si può studiare e riconoscere – in tutte le sue contraddizioni - una evidente civilizzazione culturale europea, che si innesta su una italiana, una francese, una tedesca, e così via, con un portato di convergenze politiche e di affinità giuridiche estremamente rilevanti.
È all’interno di un ambito così complesso che i processi di socializzazione portano a “uniformare” inconsapevolmente certi comportamenti degli individui.
Allora converrà andare a scavare nell’oggi dentro l’identità di questa comunità di popoli, con troppa leggerezza considerata inesistente. Mi pare che Cardini offra un ambito di riflessione molto utile. Il concetto di Europa dei popoli e di Europa delle patrie diventa riconoscibile, una volta che non gli vogliamo cucire addosso il panno dello Stato-nazione.
Quando richiamo un’identità europea condivisa non dimentico neanche per un istante che in questo momento in Grecia non esiste più la classe media e che ci sono sempre più bambini che saltano i pasti, come non dimentico che il volto dell’impoverimento greco coincide con il volto di questa Europa spietata, penzolante fra il deleverage angloamericano e il mercatismo germanico, ossia fra padella e BCE. Nessuno di noi, nella lega delle maledette Cassandre, tralascia di sottolineare chi siano gli artefici della sventura. E nessuno si illude che l’austerità degli spietati salva-banche possa un giorno magicamente risollevare le nostre vite. Possiamo parafrasare quel che diceva Karl Kraus della psicanalisi, e dire che la TINA è la malattia di cui crede di essere la cura. Qual è allora la soluzione?
Da parte dei sovranisti si rimarca il conflitto insanabile fra il “programma” della Costituzione italiana e il “programma” della più recente evoluzione costituzionale comunitaria, che troverà diretta applicazione nell’ordinamento a partire dal cruciale campo dei bilanci, da cui dipende il resto della macchina statale.
Prima di dichiarare questa robusta tendenza dell’Europa come politicamente e tecnicamente irriformabile, ci penserei due volte. E anche tre e quattro.
L’antica dialettica greca aveva nozione della situazione logica dell’aporia, la strada che si mostra senza uscita in quanto interrotta da due punti d'arrivo fra loro inconciliabili e tuttavia similmente compatti. L’unica maniera di uscire dal doppio cul-de-sac è quello di ripresentarsi alle premesse iniziali per scoprire lì l’incoerenza di cui abbiamo pagato il prezzo alla fine del percorso logico. Occorre in questo caso scoprire se la contraddizione ha il punto d’appoggio per essere oltrepassata.
A mio modesto parere la storia dell’Europa, anche quella più irrigidita degli ultimi due decenni, va contro l’idea della fissità delle regole, mentre conta moltissimo la capacità di far valere un peso politico delle vestigia di sovranità rimaste, purché si abbia un disegno politico all’altezza. Qui sì che possono tornare in campo le tanto evocate sovranità. Così come finora il diritto comunitario è stato caratterizzato da innumerevoli eccezioni e inapplicazioni imposte dagli Stati in base al loro potere negoziale reale, allo stesso modo potrà accadere ancora che l’Italia – preferibilmente assieme ad altri paesi – prescriva le aree invalicabili dei suoi interessi sovrani e popolari. Come vedremo, ha armi decisive, sebbene abbia una classe dirigente pessima e in prevalenza asservita a poteri lontani e stranieri, o a poteri vicini e avidi. Tutti poteri, lontani e vicini, criminali.



4. Nuovo processo costituente europeo (con alcuni missili)
 In un dibattito politico non dobbiamo trasformare analisi ragionevoli in dogmi che non lasciano alternative. La politica è soggetta a evoluzioni che scartano di lato rispetto ai paradigmi rigidi. Trovare una parola d’ordine e un obiettivo politico sostenibile diventa una tentazione rivoluzionaria molto attraente, specie se la crisi galoppa, ma può portare a gravi errori prospettici. Piero Pagliani ironizza in proposito: «che senso ha una politica arroccata su una parola d’ordine che si riferisce a una situazione del passato? Sarebbe come lanciare un business sul trasloco da un quartiere all’altro di una città proprio mentre questa sta subendo un terremoto, basandosi sul ricordo di quando la città era normale.»
Durante queste scosse si possono scoprire parole d’ordine molto più variegate, articolate, più aderenti a uno scenario complesso e in evoluzione, più orientate cioè a costruire un programma politico. E magari più attente a costruire convergenze di interessi anche con avversari politici che ci tengono a non determinare la «rovina comune delle classi in lotta». È sempre avvenuto, e sarebbe un segno di immaturità politica pretendere che non debba accadere ancora.
In questa fase storica, ad esempio, sarebbe un errore non cogliere le contraddizioni in seno alle classi dirigenti europee. Giulietto Chiesa lo ha spiegato benissimo nel suo articolo di fine 2011 sulla questione europea: «uno dei precetti di realismo ai quali dovremmo attenerci è di fare un’analisi reale delle forze reali, in ogni frangente. Ignorare che esistono potenziali alleati temporanei, anche se velenosi, e procedere come se vivessimo nel vuoto pneumatico non è una linea politica. È un’avventatezza.» A un crollo catastrofico dell’Europa, che significherebbe guerra e rovina, preferisco la costruzione di una nuova fase costituente, sapendo che le costituzioni nascono da compromessi, sempre. E il luogo in cui i compromessi potranno essere negoziati è uno spazio pubblico europeo, in cui – finché ci sono margini di manovra – sarà bene non regalare nulla a chi intende spoliarlo, sapendo che esistono, perfino tra le forze dominanti, realtà politiche in grado, in determinate circostanze, di riprendere il progetto di un’Europa autonoma dall’atlantismo.
La transizione abita in mezzo a queste possibilità, e può farsi progetto politico, anziché riporre speranze catartiche in un azzeramento dell’Europa istituzionale e politica. Naturalmente sarà un progetto politico difficilissimo, perché la crisi è sistemica e imprevedibile.
Che l’Euro sia una moneta «che non dovrebbe esistere», d’altronde, lo ha scritto perfino il servizio studi del colosso bancario svizzero UBS. Nessuno pensa che questo assetto monetario possa durare. Ma andare incontro disarmati alla sua disintegrazione sarebbe un programma politico irragionevole. Dopo la rimozione del Muro di Berlino i paesi europei impiegarono pochissimo tempo per cambiare le istituzioni europee. La spinta della necessità potrà cambiare rapidamente anche lo scenario di oggi.
Quali armi abbiamo? L’economista Bruno Amoroso suggerisce quattro missili ben mirati «che frantumino l'iceberg della finanza e del gruppo di potere che ha pilotato l'Europa dalla zona dell'Ue alla zona della Grande Germania.»
Se leggete bene la sua proposta, è un embrione di programma politico aperto a ulteriori sviluppi:
«Il primo missile, che potrebbe partire dall'Italia, è quello di nazionalizzare le grandi banche nazionali togliendogli ogni ruolo nel campo del credito e del controllo finanziario, mettendole in liquidazione mediante il trasferimento delle loro funzioni al sistema del credito cooperativo e popolare nelle sue varie forme assunte dal credito locale.
Questa è la vera liberalizzazione da fare smettendola con il fumo dei fuochi d'artificio dei taxisti e delle farmacie.
Il secondo missile va diretto alla Banca d'Italia e Banca centrale europea, uffici regionali della Goldman Sachs, restituendo il controllo e la sovranità monetaria ai governi dei paesi e ai rispettivi “Ministeri del tesoro pubblico”.
Il terzo missile - lasciamolo ai francesi che di omicidi mirati se ne intendono come hanno dimostrato da ultimo in Libia - deve colpire le società di rating, accecando così il sistema di rilevazione e di pilotaggio della speculazione, e i paradisi fiscali che sono i centri di benessere della speculazione. Queste società vanno bandite dall'Europa (la guardia di finanza e l'antimafia potrebbero prendersi carico del compito unificando così la lotta all'evasione con quella alla mafia), e le Borse che ne seguono gli indirizzi vanno immediatamente “sospese” come si fa normalmente quando interviene una turbativa d'asta a scopo speculativo.
Il quarto missile non deve contenere una bomba, ma un annuncio ai cittadini europei che il debito sovrano va riportato dentro i confini dei vari paesi con l'annullamento di tutti gli impegni su titoli ceduti a tassi che superano il corretto interesse bancario (2,5-3 % max), e collocandoli tra i propri cittadini con un prestito nazionale solidale così come fu fatto in Italia con il «prestito per la ricostruzione» del dopoguerra. Cessioni di titoli al prestito internazionale devono essere contrattati a livello dei governi dei vari paesi, dentro norme e costi concordati in modo trasparente e con la garanzia solidale dell'Ue».
Non è l’unica proposta di questo tipo. Anzi c’è un esplodere di proposte alternative che potrebbero fare impazzire la grande finanza imperiale e i suoi maggiordomi, a partire da Mario Monti. Tutte queste proposte disegnano uno tempo per la transizione e uno spazio per ripensare i patti sociali e il ruolo delle sovranità. Non va data per scontata la prevalenza della TINA. Ci sono alternative. Che possono presentarsi se tiriamo il fiato.
Lucio Caracciolo ammonisce che «bisogna convincere i nordici delle nostre ragioni. Sapendo che non tutti in Germania la pensano come Merkel, che la Francia non condivide affatto la cultura economica e monetaria tedesca, e che forse non tutti i nordici muoiono dalla voglia di ridursi a ruote di scorta della SuperEuropa»[5]. La politica deve semplicemente fare quello che ha fatto nel corso dei secoli: prevalere sull’economia. Al disastro inevitabile del monetarismo attuale si sostituirebbe lo spazio di manovra per soggetti in conflitto ma interessati a evitare la comune rovina.
I cinque Piigs, ad esempio, anziché farsi prima macellare per poi decidere di ricucirsi tardivamente da morti, potrebbero da subito formare l’allegro club dei superdebitori.
Un debitore è un soggetto che ha un problema, ma se è un superdebitore il problema più grande ce l’ha il creditore.
Pertanto, saremmo in presenza della lobby più potente mai vista in Europa, che pure ne ha viste tante.
Tutti capirebbero che un crollo disordinato avrebbe effetti sistemici ben più gravi della somma di singole insolvenze nazionali. L’allegro club potrebbe inoltre invocare buonissime ragioni giuridicamente inoppugnabili, fin qui trascurate. Stefano D’Andrea nell’Europa giuridica ha visto solo la tetragonia neoliberista, cioè la declinazione derivante dall’attuale “pensiero unico”. I trattati europei però parlano di solidarietà fra gli Stati membri. Se ci metti la politica cambia tutto, e quella che sembrava lettera morta si fa carne viva. Sarebbe l’occasione per far valere questa solidarietà innanzitutto fra gli Stati che condividono necessità comuni. Anziché giocare al piccolo chimico nazionalista che si brucia il culo, come Orbán, i Piigs potrebbero farsi molti amici – oltre a potenti nemici, certo – nel dire alle agenzie di rating: «voi non siete “i mercati”. Voi siete solo quelli che tengono il sacco agli oligopoli che estraggono il valore ovunque e a qualunque costo. Da oggi torna la legge». Ad esempio una legge anti-avvoltoi che istituisca un nuovo quadro giuridico europeo per i beni comuni, trovando una sicura base di consenso continentale. Ne parlano Alessandro Politi e Claudia Bettiol, che propongono di creare «un’Agenzia europea dei beni comuni» di natura pubblica che garantisca la gestione degli asset con un’azionariato popolare e regole ferree contro i raider finanziari[6], al fine di garantire politicamente la tenuta dei sistemi di welfare europei e consolidare poteri in grado di sottrarsi alla predazione del finanzcapitalismo. Non basta? Non basta. C’è tutto un insieme di politiche europee che potrebbe funzionare solo ricollocando la geopolitica e riconoscendo una difformità d’interessi rispetto alle strategie atlantiche. Quando qualche anno fa Jeremy Rifkin scrisse Il sogno europeo fu indubbiamente troppo ottimista sulle sorti dell’Europa politica, ma si impegnò a scrivere interi capitoli soltanto per spiegare, innanzitutto agli americani, perché l’Europa aveva senso in quanto si differenziava dal modello del Sogno americano: «Il Sogno europeo, con l’accento che pone sull’inclusività, la diversità (…) i diritti umani universali, i diritti della natura e la pace, è sempre più affascinante per una generazione ansiosa di essere connessa globalmente e, nello stesso tempo, radicata localmente». Queste parole stridono con l’incubo di Atene e con le concrete paure dell’Italia di oggi, ma si presenta ancora come un terreno più fertile di qualsiasi TINA. Se William Shakespeare scrivesse oggi forse direbbe: «Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni il tuo pensiero unico».
L’analisi proveniente dai “sovranisti” potrà ritornare feconda quando deciderà di allargare lo sguardo, a sollevarlo, e riuscirà a scandalizzarsi di meno delle contraddizioni della politica, che non ha la linearità di autoregolazione, i controlli automatici e adattativi di un termostato. Occorrono gruppi dirigenti in grado di attraversare uniti un periodo difficile ed estremo, e che puntino a costruire strumenti di partecipazione politica popolare, gli unici che possano garantire una ripresa di sovranità autentica. Le Cassandre devono avere un progetto politico paziente. Non ci sono scorciatoie. Ci sono Alternative.



NOTE
[1] Lo riaffermo: i “sovranisti” hanno compartecipato al merito di identificare anche loro temi, pericoli e programmi molto in anticipo sui tempi della crisi. Ovvero: abbiamo previsto insieme il Diluvio. Sono anche loro delle maledette Cassandre, a lungo a loro agio in un club di maledette Cassandre, del quale mi onoro di far parte.
[2] Massimo Bontempelli, Ettore Bruni, Storia e coscienza storica, vol. 3°, Trevisini, 1986.
[3] Stephen George, Politics and Policy in the European Community, Oxford, Clarendon, 1985, p. 20.
[4] Vedi Giulietto Chiesa, Il candidato lettone. Inedite avventure di un alieno in Europa, Ponte alle Grazie, 2010.
[5] Lucio Caracciolo, “Italia Kaputt Mundi”, in Alla guerra dell’Euro, «Limes» n. 6, 2011.
[6] Alessandro Politi e Claudia Bettiol, “Il gioco di Scrat e Sid”, in Alla guerra dell’Euro, «Limes» n. 6, 2011.



18 gennaio 2012

Lo sa il vento. Il male invisibile della Sardegna


Giovedì 19 gennaio alle 19:00 al Manàmanà di piazza Savoia a Cagliari, Lo sa il vento – Verdenero di e con Carlo Porcedda e Maddalena Brunetti. Conduce l'incontro Pino Cabras. A seguire A cena con… intermezzi di letture e proiezioni da Lo sa il vento e menu a 20 € da leccarsi i baffi.
Un libro per cui sono state spese tante energie e tanta passione per cercare, ancora una volta, di raccontare quello che succede ogni giorno in Sardegna, l’isola di cui difficilmente si legge sulla stampa nazionale, se non per le vicende modaiole del Billionaire. Lo sa il vento è un viaggio in alcuni angoli d’inferno che stanno dietro le quinte di un paradiso, la storia paradossale della terra che vede alcuni dei più incontaminati e suggestivi tratti di Mediterraneo convivere con bombe ambientali sul punto di esplodere: inquinamento elettromagnetico, fanghi tossici, rifiuti pericolosi, scorie che un selvaggio abuso militare e industriale porta con sé, e ancora poligoni militari, la più grande raffineria del bacino del Mediterraneo, uno stuolo di produzioni industriali ad alto impatto sanitario ambientale.  Dopo decenni di complicità, omissioni e silenzi, c’è chi contro le guerre simulate e gli abusi mascherati ha dichiarato una vera e quotidiana battaglia. Quella per avere la verità sul proprio destino.
Gli autori dell’inchiesta sono due bravi e coraggiosi giornalisti, Carlo Porcedda, collaboratore di diverse testate tra cui L’Espresso e Repubblica, e Maddalena Brunetti, cronista di nera e giudiziaria, cagliaritana di adozione e collaboratrice di Sardegna Quotidiano e l’Agi. Pino Cabras è Direttore Editoriale di Megachip - Democrazia nella comunicazione

15 gennaio 2012

Interrogativi sulle operazioni coperte contro l'Iran

di Alberto Terenzi – clarissa.it.

Si moltiplicano in queste ore sulla stampa internazionale notizie che danno per certa l'opzione militare israeliana per fermare il programma nucleare iraniano e che evidenziano le difficoltà degli Stati Uniti nel districarsi dagli enormi rischi dello scoppio di un aperto conflitto nell'area.
Ma un interessante reportage di Mark Perry su Foreign Policy dello scorso 13 gennaio dimostra che lo Stato ebraico è già da tempo in guerra aperta con l'Iran, e che, ai più alti livelli politico-militari, gli Usa sono da lungo tempo perfettamente al corrente di quanto sta accadendo, senza volere o senza potervisi opporre. 
Perry infatti ricostruisce con molti particolari, ricavati da fonti bene informate, l'operazione con cui il Mossad israeliano avrebbe di fatto preso il controllo dell'organizzazione islamista Jundallah ("soldati di Dio"), che ha base in Pakistan ma opera soprattutto nella regione iraniana del Belucistan, un'area di religione sunnita e pertanto tradizionalmente ostile al regime sciita di Teheran. Jundallah ha operato una lunga serie di attacchi terroristici in territorio iraniano a partire almeno dal 2005, principalmente con attacchi indiscriminati contro obiettivi religiosi sciiti, oltreché contro quelli politici come lo stesso presidente Ahmadinejad o i miliziani e le guardie di frontiera iraniane. Potrebbero quindi essere uomini di questo tipo, diretti dagli israeliani, anche gli autori degli attentati mirati che hanno provocato l'uccisione di sei scienziati iraniani che si occupavano del programma atomico.
Secondo rapporti riservati statunitensi, gli uomini del Mossad avrebbero svolto le loro attività di reclutamento ed i loro numerosi incontri con rappresentanti di Jundallah soprattutto a Londra, presentandosi però, e questo è un elemento davvero interessante, come esponenti della Cia e della Nato: una circostanza quest'ultima che sarebbe stata confermata a Perry da ben sei alti esponenti dei servizi segreti Usa, che avrebbero operato per evitare che queste informazioni venissero allo scoperto, nonostante esse siano documentate in rapporti distribuiti ad alto livello nella Cia americana, fino a raggiungere il direttore delle operazioni Stephen Kappes, il suo vice Michael Sulick ed il capo del Counter Intelligence Center statunitense.
Le operazioni del Mossad rivolte ad utilizzare "sotto falsa bandiera" i militanti di Jundallah avrebbero avuto luogo durante il periodo della presidenza Bush, creando un acceso dibattito nella comunità dell'intelligence Usa sui rischi che la spregiudicata condotta israeliana poneva per la sicurezza americana: con l'avvento di Obama, le operazioni congiunte israelo-americane contro l'Iran sarebbero state ridimensionate, evitando il ricorso a operazioni militari coperte, nonostante gli americani vengano tuttora ripetutamente invitati a prendervi parte.
In realtà, diversi servizi giornalisti nel 2007 e 2008 (come un reportage di ABC News e un articolo su The New Yorker) hanno mostrato che la condotta Usa è stata probabilmente assai più ambigua, dato che ben quattro milioni di dollari di fondi sarebbero stati messi a disposizione da parte del governo americano, con un ordine presidenziale segreto, per operazioni clandestine in Iran, soprattutto appoggiandosi alle minoranze etnico-religiose. Uno di questi servizi giornalistici, citava le significative affermazioni di un ex specialista in operazioni coperte della Cia, Robert Baer, a proposito proprio di Jundallah: «I Beluci sono fondamentalisti sunniti che odiano il regime di Teheran, ma che possono anche essere descritti come una sorta di Al Qaeda. Sono tipi che tagliano la testa agli infedeli, in questo caso gli sciiti iraniani. L'ironia sta nel fatto che stiamo di nuovo lavorando con i fondamentalisti sunniti, come abbiamo già fatto in Afghanistan negli anni Ottanta e Novanta».
Ora, con il reportage di Perry abbiamo conferme all'ipotesi che sia Israele ad utilizzare, in accordo o meno con gli Usa, formazioni terroristiche islamiste sunnite contro l'Iran, fomentando sia il conflitto religioso con gli sciiti iraniani, sia tendenze secessioniste come quelle del Belucistan.
Del resto è proprio di questi giorni un articolo del quotidiano francese Le Figaro che descrive la storia dei rapporti di collaborazione militare fra l'esercito israeliano ed il movimento indipendentista curdo nelle aree di confine con l'Iran, movimento che godrebbe attualmente di un crescente supporto militare da parte israeliana.
Questa notizia è quindi particolarmente inquietante per molti aspetti: intanto perché conferma la gravità di quanto sta avvenendo in Medio Oriente e di come lo Stato ebraico stia utilizzando, contro uno Stato estero sovrano, lo stesso strumento del terrorismo del quale si è sempre proclamato vittima.
Conferma anche l'evidente tendenza di Israele, Usa e Gran Bretagna, ad acuire con tutti i mezzi il conflitto religioso fra sunniti e sciiti, con l'evidente scopo di "libanizzare" l'intero Medio Oriente. Ma sono altrettanto importanti da un più generale punto di vista storico, poiché confermano l'ipotesi della lunga e frequente strumentalizzazione dei movimenti terroristici sunniti da parte delle potenze occidentali e di Israele, ben documentata qualche anno fa ad esempio da Gaetano Colonna in Medio Oriente senza pace.
Nondimeno, potrebbe esserci un risvolto ancora più inquietante, che costringe una volta di più a tornare ad interrogarci sulla validità di altre, ancora più scottanti, presunte verità storiche. Molti hanno dimenticato infatti che sia Ramzi Yousef, considerato il responsabile dell'attentato del 1993 al World Trade Center, che il famigerato Khalid Sheik Mohammed, considerato uno dei pianificatori dell'attacco dell'11 settembre alle Torri Gemelle di New York, erano entrambi fondamentalisti sunniti Beluci. Alla luce di queste notizie, sorge spontaneo oggi chiedersi: se davvero furono essi ad agire, per conto di chi realmente operavano?

Fonti:
Gaetano Colonna, Medio Oriente senza pace, Edilibri, Milano, 2009.
Seymour M. Hersh, "Preparing of the Battlefield", The New Yorker, 7 luglio 2008.
Mark Perry, "False Flag", Foreign Policy, 13 gennaio 2012.


Ripreso da: www.megachip.info.