30 maggio 2011

E ora i referendum, per una fase nuova

di Pino Cabras - da Megachip.

La Seconda Repubblica finisce da dove era cominciata: nei Comuni, con un sommovimento di quelli che annunciano la disfatta di un sistema di potere e si aprono a tante soluzioni possibili. La straordinaria diversificazione politica e umana dei sindaci che hanno trionfato in queste elezioni rivela le molte direzioni da cui il sistema berlusconiano può ormai essere eroso: sia da un centrosinistra alla Fassino, perfettamente incastonato in un blocco di potere, sia da una spinta inattesa alla De Magistris, che va con forza contro il blocco di Napoli, passando per i casi intermedi di Pisapia e Zedda.
Sullo sfondo avanzano le nubi dell’Europa che oggi schiaccia la Grecia e presto vuole schiacciare l’Italia sotto manovre finanziarie da decine di miliardi l’anno, intanto che il Paese non ha sussulti di sovranità. Il compito dei neosindaci sarà molto difficile, difensivo, a guardia di sistemi di Welfare sempre più residuali e soggetti alle perduranti pressioni della Casta che non vorrà perdere privilegi. Un segnale importante che i cittadini potranno dare, anche per prevenire i difetti dei gattopardi che non vorranno cambiare l’essenziale, consiste nei referendum del 12 e 13 giugno, che possono disegnare un principio di programma nuovo: difesa del territorio e dei beni comuni, uguaglianza davanti alla legge, energie pulite. Le consapevolezze e le “indignazioni” ci sono, e sono diffuse nonostante l’altrettanto diffusa immaturità rispetto alla situazione internazionale e rispetto alla crisi dello sviluppo. Il fatto che la minoranza berlusconiana oggi non possa più fingere di essere maggioranza, come ha fatto per quasi vent’anni con tanti complici fra gli oppositori, toglie tutti gli alibi e apre una fase nuova. Gli aspetti positivi sono tutti da coltivare.






2SIACQUA

27 maggio 2011

Si potevano installare ordigni al World Trade Center senza farsi notare

da www.washingtonsblog.com.



Premessa: questo articolo non vuole sostenere che siano state delle bombe a buttare giù le Torri Gemelle o l’edificio numero 7 del World Trade Center. Vuole semmai rispondere alla frequente obiezione secondo cui non si sarebbero potuti installare degli esplosivi senza essere notati da nessuno. Il funambolo Philippe Petit entrò di soppiatto al World Trade Center con un amico nel 1974 con una gran quantità di attrezzature, che riuscì a camuffare portandole fino al piano superiore, dove installò una lunga fune per potervi camminare sopra in equilibrio, senza essere scoperto.

Nel 1978, l’edificio di 59 piani della Citicorp fu segretamente risistemato con aggiunte di supporti tecnologici fatte di notte, nel corso di molti mesi, senza che nessuno fra gli inquilini del palazzo, il pubblico in generale, o i media se ne accorgesse: 





Nel 2009 Raw Story annotò:
Un investigatore del Government Accountability Office (l’organo parlamentare di controllo sui conti pubblici USA, NdT) è riuscito a introdurre clandestinamente i componenti di una bomba in un edificio federale in appena 27 secondi, ha assemblato poi la bomba in un bagno e ha girato indisturbato per l’edificio senza essere scoperto, in base a quanto è trapelato mercoledì scorso (18 maggio 2001, NdT) dalla diffusione del contenuto di una registrazione.
Inoltre, gli investigatori del Congresso sono stati in grado di penetrare senza alcuna difficoltà in ciascuno degli edifici federali che hanno testato, 10 in tutto.

E guardate questo.
Infatti ci sono ulteriori prove che evidenziano come si potessero installare delle bombe nel World Trade Center senza che nessuno se ne accorgesse:


L’ingegnere elettrico capo che aveva costruito l’impianto elettrico al World Trade Center (Richard Humenn) sostiene che le persone che lavoravano negli ascensori avrebbero potuto installare degli esplosivi.


L’ingegnere meccanico Gordon Ross, nel suo discorso sulla distruzione delle Twin Towers, ha segnalato che:
«Le colonne (del nucleo) che si trovavano a ridosso e accessibili dall’interno dei vani degli ascensori hanno ceduto durante la prima fase del crollo.
Le colonne che erano più lontane dai vani degli ascensori, e non accessibili da essi, sono sopravvissute alle prime fasi del crollo.»*
Invero, un grande esperto di dermolizioni dice che con l’accesso al vano ascensore, un team di esperti di installazioni avrebbe potuto accedere alle colonne e alle travi.



A quanto riferisce «USA Today»: «L’11 Settembre, la “ACE Elevators” di Palisades Park, New Jersey, aveva 80 tecnici ascensoristi dentro il World Trade Center».
Lo stesso NIST ha affermato che, l’11/9, «Gli ascensori 6A e 7A erano fuori servizio per ammodernamento» (NIST NCSTAR 1-8, p.97).
Per di più, la ACE ha lavorato su e intorno all’acciaio strutturale:
Una canaletta di circa 80 piedi in verticale, ha richiesto oltre 300 piedi di tubazioni di 2-1/2”x8” e 2”x2” tramite canalizzazione. Questa tubazione si dislocava attraverso soffitti in gesso, pavimenti in cemento e intorno all’acciaio strutturale.
Indubbiamente ci sono stati numerosi interventi di riqualificazione nonché progetti di rimozione dell’amianto nei 6 anni precedenti l’11/9 che hanno consentito l’accesso alle strutture portanti nel nucleo dell’edificio, tra cui:


Questi sono solo alcuni fra gli esempi conosciuti e pubblici delle occasioni che si sono avute per installare delle bombe. Senza dubbio ci sono state molte ulteriori occasioni a disposizione di operatori qualificati.
E come nota un esperto che è anche uno dei migliori ingegneri strutturali del mondo, Hugo Bachmann, Professore Emerito ed ex Presidente del Dipartimento di Dinamica Strutturale e Ingegneria Sismica dell’Istituto Federale di Tecnologia in Svizzera, ci sarebbero potuti essere degli inquilini del World Trade Center a installare le bombe nel loro spazio in affitto, prima di traslocare e lasciar libero il proprio ufficio.


Fonte: http://www.washingtonsblog.com/2011/05/no-it-wouldnt-have-been-impossible-to.html

Traduzione per Megachip a cura di Cipriano Tulli.

Tratto da:  http://www.megachip.info/finestre/zero-11-settembre/6240-installare-ordigni-al-wtc-senza-farsi-notare.html.

8 maggio 2011

2+2=5. La fabbrica orwelliana degli Osama

"Due più due? A volte fa cinque. A volte fa tre. A volte fa cinque e tre contemporaneamente" (George Orwell, 1984).
di Pino Cabras - da Megachip.

I nuovi “video di Bin Laden” rilasciati dal Pentagono sono una favola. Nelle favole di un tempo a un certo punto irrompeva il bambino che con il suo candore scopriva il male e il bene, il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso. Era quel bambino a urlare che «il re è nudo», con una verità semplice e affilata, che risuonava davanti a un pubblico, spezzava l’incantesimo dei tanti che lodavano i vestiti inesistenti del sovrano. Il dramma dell’era di Photoshop è che l’urlo si perde nel rumore di fondo delle TV e dei giornalisti alla Giovanna Botteri del Tg3, incapaci di un’ombra di dubbio, meri amplificatori degli uffici stampa del potere. Eppure il punto di rottura della menzogna non può essere rinviato, almeno finché siamo tenuti a credere il verosimile. Ora, non è verosimile che quello lì sia Osama Bin Laden.
Posso dirlo in base a diversi criteri e strumenti di valutazione, che hanno ciascuno una diversa gittata e un diverso grado di oggettività. Ma non voglio rinunciare a nessuno di questi mezzi, anche quelli personali, quelli che in altri tempi il giornalismo usava ancora. Parto dal criterio apparentemente più debole perché più soggettivo: la valutazione della mia impressione ricavata da un volto.
Lo uso, perché in realtà non è affatto un criterio così debole. Io, come alcuni miliardi di miei simili dotati di occhi e schermi da guardare, ora sono un testimone.
Se un tribunale mi chiamasse a deporre sotto giuramento per riconoscere nel volto che mi hanno proposto nel 2011 la persona che vedevo nei filmati girati nel 2001, ebbene direi con nettezza, sincerità e senza dubbi di sorta che a mio avviso non si tratta della stessa persona. Così come miliardi di esseri umani, percepisco ogni giorno centinaia di facce diverse e ricorro senza fatica a meccanismi cognitivi innati che me le fanno distinguere, perché per il mio cervello, un cervello umano, la ricerca delle espressioni facciali e dei tratti somatici è la tendenza più naturale che ci sia.
faccia_04Il nostro cervello tende perfino a individuare facce ed espressività in tanti oggetti della nostra quotidianità. Solo un meccanismo costantemente vigile come questo potrebbe vedere la somiglianza tra un volto umano e l’icona dello “smile” (la faccina rotonda, gialla e sorridente un tempo nelle T-shirt e oggi nelle chat). Sono appena due puntini e una linea curva, ma non posso non codificarli come un sorriso. Perché ovunque cerco facce, le trovo, le catalogo, le riconosco, le disconosco, è qualcosa su cui ognuno di noi ha una competenza congenita e ben impratichita, che fornisce continue prove lampanti.
E se una faccia vera la guardo bene e la confronto, difficilmente mi sbaglio. Naturalmente posso sbagliarmi lo stesso, certo. Ma sbaglierei di più a tacere la mia impressione autentica solo perché il potere e i media saturano il discorso pubblico con un’interpretazione che non corrisponde a quanto vedo: quel che vedo è che il tizio non è lo stesso barbuto delle altre immagini.
Non credo che siamo in pochi ad avere questa impressione sensibile.
Sono invece convinto che questa impressione sia di massa, ma che per molti sia un problema, perché entra in conflitto con altre esperienze cognitive.
070511top
bin-laden-2000Magari per Giovanna Botteri il tizio col turbante e la barbona è davvero una goccia d’acqua con l’Osama del 2000. Ma se per caso avesse la mia stessa impressione e intimamente la assecondasse, pubblicamente sarebbe a un bivio: tacere e godersi il quieto vivere, oppure mettere il suo sguardo contro una verità corrente, sapendo che quel dubbio trascinerebbe a valanga tanti altri dubbi sul sistema che alimenta le notizie da dare. Dovrebbe cioè ammettere che il Pentagono continua a mentire e dovrebbe spiegare al pubblico perché lo fa, sconfessando così i silenzi giornalistici “maturati” in anni di carriera copia-incolla. Io non ho problemi a non credere al Pentagono, perché so quanto sa mentire, l’ho appreso da una straordinaria inchiesta del «New York Times» del 2008, che i corrispondenti dagli USA hanno dimenticato subito.
Tralascio comunque questo criterio per leggermi invece una semplice notizia, pubblicata lo scorso anno dal «Washington Post»: funzionari della CIA hanno reclutato “personale dalla carnagione scura” per creare false registrazioni di Bin Laden. Se gli zucconi e Zucconi non lo avessero capito, glielo rispiego: il fatto che lo spionaggio USA abbia creato false registrazioni di Bin Laden è un fatto conclamato, non una teoria del complotto. Quanti di questi video sono stati girati? A chi è stata affidata la realizzazione? Chi ne curava l’audio? Lo chiedo, perché i video rilasciati ora non hanno l’audio. Come mai? Possibile che tutto quel che abbiamo ora di Bin Laden è un morto senza più un corpo e dei video senza suoni, quando anche un telefonino da 50 euro è in grado di fare registrazioni decenti?
Per Osama Bin Laden, mai una registrazione in grado di resistere davvero a controlli incrociati, in 10 anni. Sempre audio che sono stati dimostrati come falsi, e video-bufale confezionate ogni volta dalla stessa agenzia di disinformazione, il SITE di Rita Katz, alla quale i media mainstream si abbeverano acriticamente.  Non tutti, naturalmente. Perché forse questa volta è davvero troppo, e anche nel mainstream le idiozie hollywoodiane ammannite dall’Amministrazione Obama, ormai troppo insolenti nei confronti dell’abbiccì del giornalismo, puzzano tantissimo e cominciano a essere fatte a pezzi.
Il presunto Bin Laden che guarda didascalicamente se stesso in video – teatro sul teatro – è insieme una messinscena ridicola e un preoccupante segnale del grado di manipolazione a cui vogliono giungere gli apparati dell’Impero.

2 maggio 2011

Obama accoppa Osama?

di Pino Cabras – da Megachip.


Il vecchio «asset» dei creatori della Guerra Infinita è morto. La notizia dell’uccisione di Osama Bin Laden passa per il Pakistan, il Paese in cui c’è una tale compartecipazione tra servizi segreti e gruppi islamisti che la contiguità è così forte da rendere sempre difficile capire chi muove le proprie pedine. In un simile contesto ogni notizia diviene ambigua, e perfino ripetuta.
Quante volte in questi dieci anni dall’11/9 dal Pakistan giungevano notizie sulla morte del grande spauracchio e della sua improvvisa ricomparsa, in barba e turbante?
Anche in Iraq non andava meglio: Abu Omar al-Baghdadi, un altro inafferrabile superterrorista, veniva ucciso e ricatturato per i media svariate volte. Il sistema dell’oblio televisivo era sufficientemente rodato da consentire la farsa senza danno.
L’immagine attuale del cadavere sfregiato di Osama, oro colato per i media, richiederebbe invece analisi per verificarne l’attendibilità. PeaceReporter l'ha fatto, e ha scoperto subito che l'immagine è un grossolano fotomontaggio. Non sarà l'unica rivelazione su questa operazione, possiamo starne certi.

Mentre ora esplode l’isteria nelle piazze americane in favore di Obama che accoppa Osama, preferiamo ricordare un concetto: «Al-Qa'ida è morta», ormai da molti anni. Lo affermava poco tempo fa Alain Chouet, l'uomo che ha plasmato l'antiterrorismo francese ai vertici dei servizi segreti di Parigi esattamente negli anni in cui Washington e Londra fabbricavano invece i miti e gli spettri che venivano periodicamente richiamati per giustificare la Guerra Infinita.
Milioni di morti dopo, la macabra rappresentazione sarà utilizzata per puntellare il traballante potere imperiale. Il premio Nobel della pace viene acclamato come uno sceriffo texano, e i media non avranno l’imbarazzo di trasmettere funerali di bambini in Libia, morti sotto le bombe del Nobel, perché saranno oscurati dalla notizia del Male estirpato.

1 maggio 2011

Che succede in Siria?


di Domenico Losurdo.


Da giorni, gruppi misteriosi sparano sui manifestanti e, soprattutto, sui partecipanti ai funerali che fanno seguito allo spargimento di sangue. Da chi sono costituiti questi gruppi? Le autorità siriane sostengono che si tratta di provocatori, per lo più legati a servizi segreti stranieri. In Occidente, invece, anche a sinistra non ci sono dubbi nell’avallare la tesi proclamata in primo luogo dalla Casa Bianca: a sparare sono sempre e soltanto agenti siriani in civile. Obama è la bocca della verità? L’agenzia siriana «Sana» riferisce del sequestro di «bottiglie di plastica piene di sangue», usato per «produrre video amatoriali contraffatti» di morti e feriti tra i manifestanti. Come leggere questa notizia, che io riprendo dall’articolo di L. Trombetta in «La Stampa» del 24 aprile?
Forse su di essa possono contribuire a gettar luce queste pagine tratte da un mio saggio di prossima pubblicazione. Se qualcuno rimarrà stupito e persino incredulo nel leggere il contenuto di questo mio testo, tenga presente che le fonti da me utilizzate sono quasi esclusivamente «borghesi» (occidentali e filo-occidentali).


«Amore e verità»


Negli ultimi tempi, per bocca soprattutto del segretrario di Stato Hillary Clinton, l’amministrazione Obama non perde occasione per celebrare Internet, Facebook, Twitter come strumenti di diffusione della verità e di promozione e, indirettamente, della pace. Somme considerevoli sono state stanziate da Washington al fine di potenziare questi strumenti e di renderli invulnerabili alle censure e agli attacchi dei «tiranni». In realtà, per i nuovi media come per quelli più tradizionali vale la medesima regola: essi possono anche essere strumenti di manipolazione e di attizzamento dell’odio e persino della guerra. In questo senso la radio è stata sapientemente utilizzata da Goebbels e dal regime nazista. Nel corso della guerra fredda, più ancora che uno strumento di propaganda, le trasmissioni-radio hanno costituito un’arma per entrambe le parti impegnate nel conflitto: la costruzione di un efficiente «Psychological Warfare Workshop» è uno dei primi compiti che si assegna la CIA[1].
Il ricorso alla manipolazione gioca un ruolo essenziale anche alla fine della guerra fredda; nel frattempo, accanto alla radio è intervenuta la televisione. Il 17 novembre 1989 la «rivoluzione di velluto» trionfa a Praga agitando una parola d’ordine gandhiana: «Amore e Verità». In realtà, un ruolo decisivo svolge la diffusione della notizia falsa secondo cui uno studente era stato «brutalmente ucciso» dalla polizia. A vent’anni di distanza lo rivela, compiaciuto, «un giornalista e leader della dissidenza, Jan Urban», protagonista della manipolazione: la sua «menzogna» aveva avuto il merito di suscitare l’indignazione di massa e il crollo di un regime già pericolante.
Alla fine del 1989, sia pur largamente screditato, Nicolae Ceausescu è ancora al potere in Romania. Come rovesciarlo? I mass media occidentali diffondono in modo massiccio tra la popolazione romena le informazioni e le immagini del «genocidio» consumato a Timisoara dalla polizia per l’appunto di Ceausescu. Cos’era avvenuto in realtà? Diamo la parola a un filosofo di grande fama (Giorgio Agamben), che non sempre dà prova di vigilanza critica nei confronti dell’ideologia dominante, ma che ha sintetizzato in modo magistrale la vicenda di cui qui si tratta:
«Per la prima volta nella storia dell’umanità, dei cadaveri appena sepolti o allineati sui tavoli delle morgues [degli obitori] sono stati dissepolti in fretta e torturati per simulare davanti alle telecamere il genocidio che doveva legittimare il nuovo regime. Ciò che tutto il mondo vedeva in diretta come la verità vera sugli schermi televisivi, era l’assoluta non-verità; e, benché la falsificazione fosse a tratti evidente, essa era tuttavia autentificata come vera dal sistema mondiale dei media, perché fosse chiaro che il vero non era ormai che un momento del movimento necessario del falso»[2].

Dieci anni dopo la tecnica appena descritta viene di nuovo messa in atto, con rinnovato successo. Una campagna martellante dimostra l’orrore di cui si è reso responsabile il paese (la Jugoslavia) di cui è stato già programmato lo smembramento e contro cui si sta già preparando la guerra umanitaria:

«Il massacro di Racak è raccapricciante, con mutilazioni e teste mozzate. E’ una scena ideale per suscitare lo sdegno dell’opinione pubblica internazionale. Qualcosa appare strano nelle modalità dell’eccidio. I serbi abitualmente uccidono senza procedere a mutilazioni [...] Come la guerra di Bosnia insegna, le denunce di efferatezze sui corpi, segni di torture, decapitazioni, sono una diffusa arma di propaganda [...] Forse non i serbi ma i guerriglieri albanesi hanno mutilato i corpi»[3].

Sennonché, in quel momento i guerriglieri dell’Uck non potevano essere sospettati di tale infamia: erano i freedom fighters, i combattenti della libertà. Oggi, dal Consiglio d’Europa il leader dell’Uck e padre della patria in Kosovo, Hashim Thaci, «viene accusato di guidare un clan politico-criminale nato alla vigilia della guerra» e impegnato nel traffico non solo di eroina ma anche di organi umani. Ecco quello che nel corso della guerra avveniva sotto la sua direzione:

«Una fattoria a Rripe, Abania centrale, trasformata dagli uomini dell’Uck in sala operatoria, come pazienti, i prigionieri di guerra serbi: un colpo alla nuca, prima d’espiantare i loro reni, la complicità di medici stranieri» (presumibilmente occidentali)[4].

Sta così venendo alla luce la realtà della «guerra umanitaria» del 1999 contro la Jugoslavia; ma intanto il suo smembramento è stato portato a termine e in Kosovo campeggia e vigila un’enorme base militare statunitense. Facciamo ancora un salto di alcuni anni.
Una rivista francese di geopolitica («Hérodote») ha messo in rilievo il ruolo essenziale svolto, nel corso della «rivoluzione delle rose» che ha luogo in Georgia alla fine del 2003, dalle reti televisive in mano all’opposizione georgiana e da quelle occidentali: esse trasmettono incessantemente l’immagine (rivelatasi poi falsa) della villa che dimostrerebbe la corruzione di Eduard Shevardnadze, il leader che si tratta di rovesciare. Dopo la proclamazione dei risultati elettorali che sanciscono tuttavia la vittoria di Shevardnadze e che vengono bollati quali fraudolenti dall’opposizione, questa decide di organizzare una marcia su Tiblisi, che dovrebbe suggellare «l’approdo simbolico nella capitale, sia pur pacifico, di tutto un paese in collera».
Pur convocate da ogni angolo del paese con larghezza di mezzi propagandistici e finanziari, quel giorno affluiscono per la marcia tra le 5.000 e le 10.000 persone: «non è niente per la Georgia»! E tuttavia, grazie a una regia sofisticata e di grande professionalità, il canale televisivo di gran lunga più diffuso nel paese riesce a comunicare un messaggio del tutto diverso: «L’immagine è là, possente, quella di un intero popolo che segue il suo futuro presidente». Ormai le autorità politiche sono delegittimate, il paese è disorientato e frastornato e l’opposizione è più baldanzosa e aggressiva che mai, tanto più che a incoraggiarla e a proteggerla sono i media internazionali e le cancellerie occidentali[5].
E’ maturo il colpo di Stato che porta al potere Mikheil Saakasvili, che ha studiato negli Usa, parla un perfetto inglese ed è in grado di comprendere prontamente gli ordini dei suoi superiori.


Internet quale strumento di libertà


E ora veniamo ai nuovi media, particolarmente cari alla signora Clinton e all’amministrazione Obama. Nell’estate del 2009 su un autorevole quotidiano italiano si poteva leggere:

«Da qualche giorno, su Twitter, gira un’immagine di incerta provenienza […] Dinanzi a noi, un fotogramma dal profondo valore simbolico: una pagina del nostro presente. Una donna con il velo nero, che indossa una maglietta verde sui jeans: estremo Oriente ed estremo Occidente insieme. E’ sola, a piedi. Ha il braccio destro in alto e il pugno chiuso. Di fronte, imponente, il muso di un Suv, dal cui tetto emerge – ieratico – Mahmud Ahmadinejad. Dietro, le guardie del corpo. Colpisce il gioco dei gesti: di disperata provocazione, quello della donna; mistico, quello del presidente iraniano».

Si tratta di «un fotomontaggio», che certo appare «verosimile», in modo da riuscire più efficacemente «a condizionare idee, credenze»[6].
D’altro canto, le manipolazioni abbondano. Alla fine di giugno 2009 i nuovi media in Iran e tutti i mezzi di informazione in Occidente diffondono l’immagine di una bella ragazza colpita da una pallottola: «Comincia a sanguinare, perde la coscienza. In questi secondo o pochi momenti dopo è morta. Nessuno può dire se è incappata nel fuoco incrociato o se è stata colpita in modo mirato». Ma ricerca della verità è l’ultima cosa a cui pensare: sarebbe comunque una perdita di tempo e potrebbe persino risultare controproducente. L’essenziale è un’altra cosa: «ora la rivolta ha un nome: Neda». Ora si può diffondere il messaggio desiderato: «Neda innocente contro Ahmadinejad», ovvero: «una gioventù coraggiosa contro un regime vile». E il messaggio risulta irresistibile: «E’ impossibile guardare su Internet in modo freddo e oggettivo il video di Neda Soltani, la breve sequenza in cui il padre della giovane donna e un medico cercano di salvare la vita dell’iraniana ventiseenne»[7].
Come per il fotomontaggio, anche nel caso dell’immagine di Neda siamo in presenza di una manipolazione sofisticata, attentamente studiata e calibrata in tutti i suoi dettagli (grafici, politici e psicologici), al fine di screditare e rendere odiosa il più possibile la dirigenza iraniana. E giungiamo così al «caso libico». Una rivista italiana di geopolitica ha parlato a tale proposito di «uso strategico del falso», com’è confermato in primo luogo dalla «sconcertante vicenda delle false fosse comuni» (e dagli altri particolari su cui ho richiamato l’attenzione). La tecnica è quella collaudata e messa in opera da decenni, ma che ora, con l’avvento dei nuovi media, acquisisce un’efficacia micidiale: «La lotta viene prima rappresentata come un duello tra il prepotente e il prevaricato indifeso, e poi rapidamente trasfigurata in una contrapposizione frontale tra il Bene e il Male assoluti». In queste circostanze, ben lungi dall’essere strumento di libertà, i nuovi media producono il risultato contrapposto. Siamo in presenza di una tecnica di manipolazione, che «restringe fortemente la libertà di scelta degli spettatori»; «gli spazi per l’analisi razionale venngono compressi al massimo, in particolare sfruttando l’effetto emotivo della rapida successione delle immagini»[8].
E dunque, per nuovi media vale la regola già vista per la radio e la televisione: gli strumenti, o potenziali strumenti, di libertà e di emancipazione (intellettuale e politica) possono rovesciarsi e spesso si rovesciano ai giorni nostri nel loro contrario. Non è difficile prevedere che la rappresentazione manichea del conflitto in Liba non resisterà a lungo; ma Obama e i suoi alleati sperano nel frattempo di conseguire i loro obiettivi, che non sono propriamente umanitari, anche se la neo-lingua si ostina a definirli tali.


Spontaneità di Internet


Ma torniamo al fotomontaggio che mostra una dissidente iraniana sfidare il presidente del suo paese. L’autore dell’articolo da me citato non si interroga sugli artefici di una manipolazione così sofisticata. Vorrei cercare di rimediare a questa lacuna. Già alla fine degli anni ‘90 sull’«International Herald Tribune» si poteva leggere: «Le nuove tecnologie hanno cambiato la politica internazionale»; chi era in grado di controllarle vedeva aumentare a dismisura il suo potere e la sua capacità di destabilizzazione dei paesi più deboli e tecnologicamente meno avanzati[9].
Siamo in presenza di un nuovo capitolo di guerra psicologica. Anche in questo campo gli Usa sono decisamente all’avanguardia, avendo alle spalle decenni e decenni di ricerche e esperimenti. Alcunni anni fa Rebecca Lemov, antropologa dell’università dello Stato di Washington, ha pubblicato un libro che «illustra i disumani tentativi della Cia e di alcuni tra i più grandi psichiatri di “distruggere e ricostruire” la mente dei pazienti negli anni ‘50»[10].
Possiamo allora comprendere una vicenda che si svolge in quello stesso periodo di tempo. Il 16 agosto 1951 fenomeni strani e inquietanti vennero a turbare Pont-Saint-Esprit, «un tranquillo e pittoresco villaggio» collocato «nel sudest della Francia». Sì, «il paese fu scosso da una misteriosa ondata di follia collettiva. Almeno cinque persone morirono, decine finirono in manicomio, centinaia diedero segni di delirio e di allucinazioni […] Molti finirono in ospedale con la camicia di forza».
Il mistero, che a lungo ha circondato questo improvviso scoppio di «follia collettiva», è ora dissipato: si trattò di «un esperimento condotto dalla Cia, insieme alla Special Operation Division (Sod), l’unità top secret dell’Esercito Usa di Fort Detrick in Maryland»; gli agenti della Cia «contaminarono le baguette vendute nei forni del paese con Lsd», coi risultati che abbiamo visto[11].
Siamo nei primi anni della guerra fredda: certo, gli Stati Uniti erano alleati della Francia, ma proprio per questo essa si prestava bene per gli esperimenti di guerra psicologica che avevano sì di mira il «campo socialista» (e la rivoluzione anticoloniale) ma che difficilmente potevano essere effettuati nei paesi collocati al di là della cortina di ferro.
Poniamoci ora una domanda: l’eccitazione e l’aizzamento di massa possono essere prodotti solo per via farmacologica? Con l’avvento e la generalizzazione di Internet, Facebook, Twitter è emersa una nuova arma, suscettibile di modificare profondamente i rapporti di forza sul piano internazionale. Ciò non è più un segreto per nessuno. Ai giorni nostri, negli Usa, un re della satira televisiva quale Jon Stewart esclama: «Ma perché mandiamo in giro eserciti se abbattere le dittature via Internet è facile come comprare un paio di scarpe?»[12].
A sua volta, su una rivista vicina al Dipartimento di Stato uno studioso richiama l’attenzione su «come sia difficile militarizzare» (to weaponize) i nuovi media in vista di obiettivi a breve termine e connessi ad un paese determinato; meglio perseguire obiettivi di più ampio respiro[13].
Gli accenti possono essere diversi, ma il significato militare delle nuove tecnologie è comunque esplicitamente sottolineato e rivendicato. Ma Internet non è l’espressione stessa della spontaneità individuale? Ad argomentare in tal modo sono soltanto i più sprovveduti (e i più spregiudicati). In realtà – riconosce Douglas Paal, già collaboratore di Reagan e di Bush sr. – Internet è attualmente «gestita da una Ong che di fatto è un’emanazione del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti»[14].
Si tratta solo di commercio? Un quotidiano di Pechino ricorda un fatto largamente dimenticato: quando nel 1992 la Cina chiese per la prima volta di essere collegata a Inernet, la sua richiesta fu respinta in considerazione del pericolo che il grande paese asiatico potesse «procurarsi informazioni sull’Occidente». Ora, invece, Hillary Clinton rivendica l’«assoluta libertà» di Internet quale irrinunciabile valore unversale; e tuttavia – commenta il quotidiano cinese – «l’egoismo degli Usa non è cambiato»[15].
Forse, non si tratta solo di commercio. Su questo punto il settimanale tedesco «Die Zeit» chiede lumi a James Bamford, uno dei massimi esperti in tema di servizi segreti statunitensi: «I cinesi temono anche che ditte americane quali Google siano sul territorio cinese strumenti in ultima analisi dei servizi segreti americani. E’ un atteggiamento paranoide?» «Niente affatto» – è la pronta risposta. Anzi – aggiunge l’esperto – anche «organizzazioni e istituzioni straniere sono infiltrate» dai servizi segreti Usa, i quali comunque sono in grado di intercettare i collegamenti telefonici in ogni angolo del pianeta e sono da considerare i più grandi hacker del mondo[16].
Ormai – ribadiscono sempre su «Die Zeit» due giornalisti tedeschi – non ci sono dubbi:
«I grandi gruppi Internet sono diventati uno strumento della geopolitica Usa. Prima c’era bisogno di faticose operazioni segrete per appoggiare movimenti politici in lontani paesi. Oggi basta spesso un po’ di tecnica della comunicazione messa in atto a partire dall’Occidente […] Il servizio segreto tecnologico degli Usa, la National Security Agency, sta allestendo un’organizzazione completamente nuova per le guerre su Internet»[17].

Alla luce di tutto ciò conviene rileggere alcuni avvenimenti recenti di non facile spiegazione. Nel luglio del 2009 incidenti sanguinosi si sono verificati a Urumqi e nel Xinjiang, la regione della Cina prevelentemente abitata da uiguri. A spiegarli sono la discriminazione e l’oppressione a danno di minoranze etniche e religiose? Un approccio del genere non sembra molto plausibile, a giudicare almeno da quello che da Pechino riferisce il corrispondente della «Stampa»:

«Molti han di Urumqi si lamentano per i privilegi di cui godono gli uiguri. Questi infatti, come minoranza nazionale musulmana, a parità di livello hanno condizioni di lavoro e di vita molto miglori dei loro colleghi han. Un uiguro in ufficio ha il permesso di sospendere il lavoro più volte al giorno per adempiere alle cinque tradizionali preghiere musulmane della giornata […] Inoltre possono non lavorare il venerdì, giorno di festa musulmana. In teoria dovrebbero recuperare la domenica. Di fatto la domenica gli uffici sono deserti […] Un altro tasto doloroso per gli han, sottoposti alla dura politica di unificazione familiare che ancora impone l’unigenito, è il fatto che gli uiguri possono avere due o tre figli. Come musulmani, poi, hanno rimborsi in più nello stipendio, visto che, non potendo mangiare maiale, devono ripiegare sull’agnello, che è più caro»[18].

Alla luce di tutto ciò appaiono per lo meno unilaterali le accusa dall’Occidente rivolte al governo di Pechino di voler cancellare l’identità nazionale e religiosa degli uiguri. E allora? Riflettiamo sulla dinamica degli incidenti. In una città costiera della Cina dove, nonostante le diverse tradizioni culturali e religiose alle spalle, lavorano fianco a fianco han e uiguri, si diffonde improvvisamente la voce secondo cui una ragazza han è stata violentata da operai uiguri; ne scaturiscono incidenti nel corso dei quali due uiguri perdono la vita. La voce che ha provocato questa tragedia è falsa ma ecco che ora su di essa si innesta un’altra voce ancora più clamorosa e ancora più funesta: Internet diffonde capillarmente la notizia secondo cui nella città costiera della Cina avrebbero perso la vita centinaia di uiguri massacrati dagli han tra l’indifferenza e anzi sotto lo sguardo compiaciuto della polizia.
Risultato: tumulti etnici nel Xinjiang, che provocano la morte di quasi 200 persone, questa volta quasi tutti han. Ebbene, siamo in presenza di un intreccio sfortunato e casuale di circostanze oppure la diffusione di voci false e tendenziose mirava al risultato poi effettivamente verificatosi? Siamo giunti ad una situazione in cui risulta ormai impossibile distinguere la verità dalla manipolazione. Una società statunitense ha realizzato «programmi che consentirebbero a un soggetto impegnato in una campagna di disinformazione di assumere contemporaneamente fino a 70 identità (profili di social network, account in forum ecc.) gestendole in parallelo: il tutto senza che si possa scoprire chi tira i fili di questa marionette virtuali». Chi fa ricorso a questi programmi? Non è difficile indovinarlo. Il quotidiano qui citato, non sospettabile di antiamericanismo, precisa che l’azienda in questione «fornisce servizi a varie agenzie governative Usa, come la Cia e il ministero della Difesa»[19].
La manipolazione di massa celebra i suoi trionfi mentre il linguaggio dell’Impero e la neo-lingua diventano, sulla bocca di Obama, più dolci e suasivi che mai. Riaffora alla memoria l’«esperimento condotto dalla Cia» nell’estate del 1951, che produsse «una misteriosa ondata di follia collettiva» nel «tranquillo e pittoresco villaggio» francese di Pont-Saint-Esprit. E di nuovo siamo obbligati a porci la domanda: la «follia collettiva» può essere prodotta solo per via farmacologica oppure oggi può essere il risultato anche del ricorso alle «nuove tecnologie» della comunicazione di massa?
Si comprendono allora i finanziamenti da Hillary Clinton e dall’amministrazione Obama destinati ai nuovi media. Abbiamo visto che la realtà delle «guerre su Internet» è ormai riconosciuta anche da autorevoli organi di stampa occidentali; sennonché, nel linguaggio dell’Impero e nella neo-lingua la promozione delle «guerre su Internet» diventa la promozione della libertà, della democrazia e della pace.
I bersagli di queste operazioni non stanno a guardare: come in ogni guerra i deboli cercano di colmare lo svantaggio imparando dai più forti. Ed ecco che questi ultimi gridano allo scandalo: «In Libano chi padroneggia di più new media e reti sociali non sono le forze politiche filoccidentali che appoggiano il governo di Saad Hariri, ma gli “hezbollah”». Questa osservazione tradisce in qualche modo un sospiro: ah, come sarebbe bello se, a somiglianza di quanto avviene per la bomba atomica e per le più sosfisticate armi (propriamente dette), anche per le «nuove tecnologie» e le nuove armi di informazione e disinformazione di massa a detenere il monopolio fossero i paesi che infliggono un martirio interminabile al popolo palestinese e che vorrebbero continuare a esercitare in Medio Oriente una dittatura terroristica!
Il fatto è – lamenta Moises Naim, direttore di «Foreign Policy» – che gli Usa, Israele e l’Occidente non hanno più a che fare coi «cybertonti di un tempo». Questi «contrattaccano con le stesse armi, fanno controinformazione, avvelenano i pozzi»: una vera e propria tragedia dal punto di vista dei presunti campioni del «pluralismo»[20].
Nel linguaggio dell’Impero e nella neo-lingua, il timido tentativo di creare uno spazio alternativo a quello gestito o egemonizzato dalla superpotenza solitaria diventa «avvelenamento dei pozzi».


Note:
1 Thomas 1995, p. 33.
2 Agamben 1996, p. 67.
3 Morozzo Della Rocca 1999, p. 24.
4 Gergolet 2010.
5 Genté 2008, p. 55; sulla Cecoslovacchia, la Romania e la Georgia cfr. Losurdo 2010, cap. IX, §§ 2-3.
6 Trione 2009.
7 Kreye 2009.
8 Dottori 2011, pp. 43-4.
9 Schmitt 1999.
10 Caretto 2006.
11 Farkas 2010.
12 Gaggi 2010.
13 Shirky 2011, p. 31.
14 Paal 2010.
15 «Global Times» 2011.
16 Bamford 2010.
17 Fishermann, Hamann 2010.
18 Sisci 2009.
19 Formenti 2011.
20 Gaggi 2010.

Riferimenti bibliografici

Giorgio Agamben 1996
Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino.

James Bamford (intervista a) 2010
«Passen Sie auf, was Sie tippen», a cura di Thomas Fischermann, in «Die Zeit» del 18 febbraio, pp. 20-21.

Ennio Caretto 2006
La Cia riprogrammò le menti dei reduci, in «Corriere della Sera» del 12 febbraio, p. 14.

Germano Dottori 2011
Disinformacija. L’uso strategico del falso nel caso libico, in «Limes. Rivista italiana di geopolitica», n. 1, pp. 43-49

Alessandra Farkas 2010
«La Cia drogò il pane dei francesi». Svelato il mistero delle baguette che fecero ammattire un paese nel ‘51, in «Corriere della Sera» del 13 marzo, p. 25.

Thomas Fischermann, Götz Hamann 2010
Angriff aus dem Cyberspace, in «Die Zeit» del 18 febbraio, pp. 19-21.

Carlo Formenti 2011
La «disinformazia» ai tempi del Web. Identità multiple per depistare, in «Corriere della Sera» del 28 febbraio, p. 38

Massimo Gaggi 2010
Un’illusione la democrazia via web. Estremisti e despoti sfruttano Internet, in «Corriere della Sera» del 20 marzo, p. 21.

Régis Genté 2008
Des révolutions médiatiques, in «Hérodote, revue de géographie et de géopolitique», 2° trimestre, pp. 37-68.

Mara Gergolet 2010
L’Europa: «Traffico d’organi in Kosovo», in «Corriere della Sera» del 16 dicembre, p.18.

«Global Times» 2011
The internet belongs to all, not just the US, in «Global Times» del 17 febbraio

Andrian Kreye 2009
Grüne Schleifen für Neda, in «Süddeutsche Zeitung» del 24 giugno, p. 11

Domenico Losurdo 2010
La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari.

Roberto Morozzo Della Rocca 1999
La via verso la guerra, in Supplemento al n. 1 (Quaderni Speciali) di «Limes. Rivista Italiana di Geopolitica», pp. 11-26.

Barack Obama, David Cameron, Nicolas Sarkozy
Libya’s pathway to peace, in «International Herald Tribune» del 15 aprile, p. 7

Douglas Paal (intervista a) 2010
«Questo è l’inizio di uno scontro tra due civiltà», a cura di Maurizio Molinari, in «La Stampa» del 23 gennaio, p. 7.

Nicolas Pelham 2011
The Battle for Libya, in «The New Review of Books» del 7 aprile, pp. 77-79.

Guido Ruotolo 2011
Gheddafi: ingannati dagli amici occidentali, in «La Stampa» del 1 marzo, p. 6.

David E. Sanger 2011
As war in Libya drags on, U.S. goals become harder, in «International Herald Tribune» del 12 aprile, pp. 1 e 8.

Clay Shirky 2011
The Political Power of Social Media, in «Foreign Affairs», gennaio-febbraio 2011, pp. 28-41.

Bob Schmitt 1997
The Interrnet and International Politics, in «International Herald Tribune» del 2 aprile, p. 7.

Francesco Sisci 2009
Perché uno han non sposerà mai una uigura, in «La Stampa» del’8 luglio, p. 17.

Evan Thomas 1995
The Very Best Men. Four Who Dared. The Early Years of the CIA, Simon & Schuster, New York

Vincenzo Trione 2009
Quella verosimile manipolazione contro l’arroganza di Ahmadinejad, in «Corriere della Sera» del 2 luglio, p. 12.

Fonte: http://www.sinistrainrete.info/estero/1350-domenico-losurdo-che-succede-in-siria.