22 giugno 2010

Nato: colpito e affondato

Presentazione del libro di Gianni Lannes 
"NATO: colpito e affondato. La tragedia insabbiata del Francesco Padre".
con Gianni Lannes e Pino Cabras.

Giovedì 24 giugno 2010 - ore 19.00.
Teatro Mo.Mo.Ti., Via XXI Marzo 1943 n° 20 - Monserrato (CA)
[l'evento su facebook].

venerdì 25 Giugno 2010 - ore 18.30.
Libreria Odradek INTERNO 4, via Torre Tonda 42 - Sassari
[l'evento su facebook]


Organizzano: Alternativa, Blogosferatu,MieleAmaro, Odradek, Is Mascareddas.

Goldman sa

di Pino Cabras – da Megachip.


La falla petrolifera da cui si spilla la marea nera nel Golfo del Messico risale davvero al 20 aprile 2010? È veramente da allora, dal giorno in cui una grande esplosione ha danneggiato la piattaforma semisommergibile Deepwater Horizon, che tutto è cominciato? Di certo, l’enormità del disastro ecologico si traduce - ogni giorno da quel giorno - in tanti nuovi dollari da far sborsare alla BP (British Petroleum). Chi possiede quelle azioni perciò le vende, perché nel firmamento del rating oggi hanno meno stelle di ieri, e domani ne avranno ancora meno di oggi.

È pertanto normale registrare grandi vendite di tutti i grandi investitori. Qualcuno però aveva visto lontano, quando le stelle erano invece abbastanza numerose da sconsigliare vendite massicce. C’era chi aveva venduto più di tutti, alcuni mesi PRIMA di quel fatidico giorno di aprile. Come spesso accade, queste operazioni che fanno galleggiare mentre gli altri affondano, con fenomenali atti di preveggenza finanziaria, hanno una firma: Goldman Sachs.
È un nome ormai al centro di tutte le vicende chiave delle classi dirigenti dell’Impero, specie se si tratta di gialli finanziari. Colpisce il livello di penetrazione di dirigenti di provenienza Goldman Sachs in tantissimi ruoli fondamentali di governo, come se la banca fosse un’agenzia votata a formare governanti, ben oltre l’insider trading. E non solo nell’amministrazione Obama. Pensate a Prodi e a Draghi. La Grande Crisi finanziaria di questi anni vede al timone delle navi in tempesta tanti uomini e donne di stretta osservanza Goldman, che riappaiono in tutte le vicende. Un sorvegliato speciale, ormai, ma molto sfacciato e tutto sommato tranquillo.
Non è un caso se la SEC ha fatto causa contro la superbanca d’affari e uno dei suoi vice presidenti lo scorso aprile, con l’accusa di truffa, per aver nascosto la reale natura di un prodotto finanziario basato su ipoteche e intrinsecamente progettato per fallire: a fallire ovviamente è stata una massa sterminata di acquirenti.

Dunque, un articolo su Raw Story descrive in dettaglio il modo in cui Goldman Sachs si è liberata di gran parte del suo portafoglio di azioni BP nei primi tre mesi del 2010. In un momento in cui non c’erano ragioni particolarmente urgenti, la previdentissima banca ha venduto più di due volte di tutti gli altri detentori di azioni BP messi assieme, spogliandosi del 44% del suo investimento nella compagnia petrolifera e incassando quasi 270 milioni di dollari. Se avesse tenuto fino ad oggi quelle azioni, esse avrebbero perso il 36% del loro valore, che si sarebbe aggiunto alle perdite della parte rimanente del portafoglio.
La Goldman Sachs ha modo di conoscere "da dentro" tutti quelli che contano, anche BP. Dal 1997 al 2009 – cioè sino a ieri - il presidente di BP è stato un rubizzo signore irlandese che risponde al nome di Peter Sutherland, dal 1995 presidente di Goldman Sachs International, una sussidiaria che fa compravendita di azioni per la controllante Goldman Sachs Group. Non sono gli unici suoi incarichi. Se volete contare le poltrone collezionate da questo personaggio, facciamo notte. Non importa se certe sue organizzazioni sono finite male, secondo la logica dell’uomo della strada. Una banca da lui guidata crolla per un gorgo di debiti? Il giorno dopo qualcuno lo assume per un incarico ancora più importante, ai piani alti, fra gente che non ama perdere. Era lui ad esempio il direttore del Royal Bank of Scotland Group, la grande banca britannica che faceva da architrave per il folle sistema dei crediti subprime, di fatto nazionalizzata nel 2008 dall’allora premier Gordon Brown per evitare la catastrofe di una bancarotta che avrebbe fatto crollare Londra. Sutherland si è forse ritirato? Macché, ha continuato a stare in BP, e poi in Goldman, e dentro i consigli di amministrazione della Allianz e di altre società di mezzo mondo, lui che è stato anche direttore generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, Commissario europeo, nonché – per non farsi mancare nulla - membro dello “steering committee” del superelitario Gruppo Bilderberg e presidente dell’altrettanto elitaria Commissione Trilaterale.
Ciliegina sulla torta, da bravo cattolico irlandese, ha anche buone entrature vaticane, in qualità di “consultore della sezione straordinaria dell’Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede”.
Insomma, fra amici ci si aiuta, e ogni danno d’immagine sarà riassorbito, e magari troverà le sue camere di compensazione, tra chi guadagna e chi perde nei piani alti, dove certe notizie si sanno prima degli altri. Ai piani bassi invece si perde tutti.

9 giugno 2010

Due Popoli, Uno Stato: Per il Tramonto del «Sionismo Reale»

di Pino Cabras e Simone Santini - da Megachip.



Ogni episodio che confermi la deriva sempre più pericolosa del militarismo israeliano – per chi non se ne fosse accorto: un’emergenza grave - arriva a interrogarci sulla natura profonda dello Stato di Israele.
Per decenni, le cose più militarmente brutali e prive di scrupoli che potevamo reperire nell’immaginario della nostra epoca erano nel razzismo del regime nazista.

La ricorrente brutalità delle azioni militari israeliane – consumate da una classe dirigente bellicista - suscita sempre di più un’associazione di idee con la spregiudicatezza della Germania nazista, un’analogia che risulta sconveniente e scandalosa, perché lo Stato ebraico ha legato la costruzione della sua identità proprio alla memoria della Shoah, la catastrofe in cui gli ebrei furono tra le maggiori vittime sommerse dal nazismo.
Nulla è più scandaloso che fare analogie fra chi espone i segni della vittima e chi ha i segni del carnefice, perché ogni coscienza morale non può mai accettare a cuor leggero che le colpe del carnefice siano attenuate da una qualche disinvolta strumentalizzazione.

Però questo accostamento non si può ignorare con un’alzata di spalle, né combattere con zelo violento.
C’è da chiedersi invece – al di fuori di ogni propaganda – perché Israele dopo ogni massacro, ogni sua violazione del diritto internazionale, ogni sua vessazione inflitta ai palestinesi, susciti dichiarazioni che lo paragonano di volta in volta alla Germania che perseguitava i non ariani o al Sudafrica che perseguitava i non bianchi.




Perché avviene questo, nonostante Israele abbia al suo interno una società pluralista e aperta, con una stampa mediamente vivace e libera, con stili di vita assimilabili a quelli di un avamposto democratico occidentale?
Perché, nonostante le dure rimostranze delle potentissime correnti di opinione e delle lobby di varia natura che nel mondo simpatizzano con l’avventura sionista, Israele viene paragonato proprio agli Stati che più di altri hanno suscitato avversione nel mondo anche a causa delle loro strutture crudelmente discriminatorie? Perché insomma Israele viene visto da molti come uno Stato razzista?
La risposta fa scandalo e nuota contro la corrente principale dei media, ma è semplice e dimostrabile: Israele viene visto come uno Stato razzista perché È uno Stato razzista. Uno Stato che sin dall’origine ha dato un’interpretazione fanatica della questione ebraica a totale discapito dei non ebrei presenti in Terra Santa.
Partiamo da quel che succede oggi sul suolo soggetto alla sovranità israeliana. Ci riferiamo a un territorio al cui interno accade che ci siano due reti stradali separate: una moderna ad uso esclusivo dei coloni ebrei, l’altra residuale e maltenuta per gli autoctoni palestinesi, i quali peraltro nella maggior parte della Cisgiordania non possono guidare le proprie automobili. Quelli che possono farlo devono però sottostare a una fitta rete di checkpoint che chiude i varchi per ore, mentre gli ebrei hanno una mobilità garantita e libera. Ai palestinesi è imposto un sistema di rigido coprifuoco che strangola la vita civile e l’economia. Interi settori della Cisgiordania, classificati come “aree militari chiuse” dalle forze armate israeliane, non sono accessibili ai palestinesi, compresi quelli che vi possiedano dei terreni da generazioni. Viceversa, a chiunque sia applicabile la Legge del Ritorno israeliana - cioè a chiunque sia semplicemente ebreo, ovunque nel mondo - nessuna restrizione è applicata.
Agli israeliani è proibito trasportare palestinesi in un veicolo con targa israeliana, se non con esplicito permesso. L’autorizzazione concerne tanto il guidatore quanto il passeggero palestinese. I lavoratori al servizio dei coloni e i coloni ebrei stessi hanno permessi speciali.
Ai volontari israeliani e di organizzazioni umanitarie internazionali è proibito assistere una donna in travaglio portandola in ospedale. I volontari non possono portare alla stazione di polizia, a sporgere denuncia, un palestinese che sia stato rapinato.
Amnesty International denuncia poi altri elementi di sistematico strangolamento economico, giuridico e politico della società civile araba dei territori occupati, milioni di persone. Sono discriminazioni molto incisive e strutturali, anche quando non passano con la legge ma con pratiche amministrative metodiche e infinitamente replicate: «Le forze israeliane hanno sgomberato con la forza i palestinesi e ne hanno demolito le case, in particolare a Gerusalemme Est, con la motivazione che gli edifici erano privi di permesso. Tali autorizzazioni vengono sistematicamente negate ai palestinesi. Per contro, le colonie israeliane sono state autorizzate a espandersi su terreni illegalmente confiscati ai palestinesi.»



Le discriminazioni non si limitano ai territori occupati. Non parliamo solo della Cisgiordania e di quel campo di prigionia che è ormai Gaza da troppi anni per un milione e mezzo di persone, con l’embargo che colpisce anche la pasta e i quaderni.
Anche dentro Israele la distinzione fra ebrei e non ebrei conta per legge. Ci sono importanti differenze fra cittadini ebrei e goym di Israele in ordine all’accesso ai beni immobili, ai ricongiungimenti familiari e l’acquisizione della cittadinanza. Un cittadino israeliano su cinque è arabo. Uno di loro che voglia maritarsi con una persona araba che vive nei territori non potrà mai vivere insieme ad essa in Israele. Un figlio di una tale coppia può vivere in Israele, ma solo fino ai 12 anni, poi deve emigrare.

Il “carattere ebraico” dello Stato di Israele ha implicazioni discriminatorie evidentissime. I governanti di Israele ci tengono a ribadirlo quasi dettandolo ai loro interlocutori internazionali, che remissivamente se lo lasciano dettare, come l’ex Presidente del Consiglio italiano Romano Prodi in un famoso e imbarazzante fuori onda con l’allora premier israeliano Ehud Olmert.


All’epoca del nazismo, a dispetto delle assurde chimere di Hitler, il tentativo di definire chi era ebreo si presentava spesso come un rompicapo giuridico. Lo spiega bene Roberto Finzi, nel suo libro L’Antisemitismo: «Nonostante tutte le elucubrazioni delle teorie e delle “ricerche scientifiche” razziste in Germania, come più tardi in Italia, non si riesce infatti a individuare altro criterio che quello dell’appartenenza religiosa». Di lì nasceva una minuziosa quanto inconsistente casistica discriminatoria che individuava perfino “meticci di primo grado”. Nella Germania nazista, «ebreo e meticcio di primo grado possono benissimo essere fratelli, magari anche gemelli; basta che l’uno sia innamorato di una ragazza ebrea e l’altro no».
Nel momento in cui la discriminazione cambiasse segno, l’attribuzione di diritti di cittadinanza in base all’ebraicità presenterebbe comunque paradossi irrisolvibili. Irrisolvibili anche in mano a una classe dirigente audace che puntasse sulla soluzione nazionalistica sionista - cioè sull’Israele che conosciamo - per sciogliere tutto il nodo ebraico, senza peraltro riuscirvi. È una pretesa che nessuna spietatezza può soddisfare.
Il perché lo spiegava Ernesto Balducci ne L’Uomo planetario: «il caso ebraico è un caso a sé: più ci si ragiona per discioglierlo nelle articolate spiegazioni della storia e più ci avviene di aggirarci attorno ad un ‘grumo’ inesplicabile. Intanto, mentre non è difficile dire chi è un mussulmano o chi è un negro, è impossibile dire chi è un ebreo. Il termine non indica una appartenenza etnica (non c’è una razza ebraica) né una professione di fede (ci sono ebrei atei) né una patria (ci sono ebrei che non ne vogliono sapere di Israele) né una cultura (ci sono ebrei del tutto integrati nella cultura del paese che abitano). Potremmo forse dire che l’elemento essenziale dell’ebraismo è la comunanza di una memoria storica: se questo filo si spezza, l’ebreo rientra totalmente nella comune degli uomini.»
Questa fedeltà del popolo ebraico alla propria diversità è forse da intendere per forza come il residuo di un tribalismo ostinato? Non necessariamente, come spiegheremo. Le spinte omologatrici del mondo globalizzato sono spesso pericolose, e il caso ebraico può essere visto come un segnale della forte individualità delle etnie che si disporranno domani nel mosaico dell’umanità unificata dalle grandi sfide planetarie.
Per contro, il valore universale dei diritti dell’uomo, sia come conquista del pensiero giuridico sia come pratica concreta, deve accantonare qualsiasi privilegio esclusivista per la singolarità etnica.
Balducci chiariva: «Finora, quando abbiamo scelto sulla linea della fedeltà etnica, abbiamo manomesso i criteri della totale uguaglianza fra gli uomini, e quando abbiamo scelto sulla linea di questa uguaglianza abbiamo mostrato ostilità, teorica e pratica, per ogni forma di diversità, individuale e collettiva.
La questione ebraica ci impedisce di far quadrare il cerchio, e cioè di dare soluzioni ad un problema che ancora non è risolvibile, perché ne mancano le condizioni. Per questo la questione ebraica ci rimanda al futuro.»
Un dilemma così delicato non può perciò risiedere sulle armi (convenzionali, non convenzionali, atomiche e propagandistiche) accumulate per decenni dall’attuale classe dirigente sionista e dai suoi corresponsabili, sia nelle sue correnti religiose fondamentaliste sia in quelle secolarizzate che non rinnegano nulla del laico Ben Gurion, quando dichiarava che «dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca dei terreni e il taglio di tutti i servizi sociali per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba», e che agiscono di conseguenza.
Un nodo come questo è un banco di prova fondamentale per il pianeta. Sottovalutarlo o pensare di scioglierlo con l’avventurismo militare ci porta dritti a una guerra di vastissime e funeste proporzioni, un pericolo che diventa ogni giorno più concreto.
Arrivare a risolverlo creativamente, con disegni politici di scala mondiale che ridisegnino l’assetto politico del Medio Oriente, è l’unico barlume per evitare la catastrofe. E' una tensione in favore di un autentico realismo politico. Proprio perché questo è un problema di dimensione globale, siamo contro l’antisemitismo. Scontrarsi con l’antisemitismo non è solo un modo di tenere in grande considerazione la questione ebraica, è un modo di tener caro il futuro dell’uomo. Perciò dobbiamo essere all’altezza di questa complessità.
Due accademici, il geografo Arnon Sofer e il demografo Sergio Della Pergola (un israeliano nato e vissuto in Italia fino al 1966) dell’Università di Gerusalemme, a suo tempo consulenti di Ariel Sharon, hanno analizzato la situazione in termini che possiamo di seguito riassumere: date le attuali proiezioni sulla crescita demografica, Israele dovrà risolvere un problema che ha tre variabili: democrazia, ebraicità, dimensione territoriale. Soltanto due di queste variabili potrebbero coesistere nell’Israele degli anni a venire.
Potrà essere uno stato democratico ed ebraico, ma allora dovrà essere di ridotte dimensioni.
Potrà essere democratico e grande, ma allora non sarà più ebraico.
Infine potrà essere ebraico ed esteso, ma allora non sarà più democratico.
Benché la soluzione “due popoli, due stati” sia ormai quasi unanimemente considerata - sia a livello internazionale che italiano - come l’unica possibile conclusione del conflitto, una tale soluzione, ammesso poi che sia mai realizzata, difficilmente potrà condurre ad una pacificazione dell’area poiché non risponde a criteri di giustizia ed equità.
La situazione di fatto creata in Palestina (ovvero nei Territori e in Israele) non consente la nascita dello stato palestinese a fianco di Israele se non come mera “espressione geografica” priva di elementari contenuti di sovranità.
Il nascente stato di Palestina, infatti, non avrebbe la possibilità di realizzare una politica di difesa indipendente né potrebbe stringere rapporti diplomatici con altri stati in tale funzione; dipenderebbe totalmente da Israele per l’utilizzo delle risorse primarie, ovvero acqua ed energia.
La conformazione territoriale consolidatasi in loco (in particolare in Cisgiordania) con la politica degli insediamenti e la costruzione del muro “difensivo” rende i territori palestinesi del tutto inadatti a formare un substrato geografico favorevole alla nascita di uno stato sovrano.
Con la situazione diplomatica attuale, poi, la nascita dello stato palestinese non risolverebbe le controverse questioni di Gerusalemme capitale e dello status dei profughi che dal 1948 in poi sono stati costretti ad abbandonare la Palestina.
La soluzione “due popoli, due stati” potrebbe poi innescare un’ulteriore fonte di conflitto, ora latente. Con la nascita dello stato di Palestina, la componente araba con passaporto israeliano che attualmente vive in territorio di Israele (pur con uno status di cittadini di serie B, come abbiamo visto) potrebbe essere “invitata” a trasferirsi nel nuovo stato per realizzare due entità nazionali (Israele e Palestina) etnicamente pure. La storia del Novecento ha mostrato in altre aree del pianeta molti precedenti di questi scambi, con costi umani spaventosi.
La nascita di Israele come stato escludente, su base confessionale ed etnica, così come voluto dalla dottrina sionista, ha prodotto fin dalla sua fondazione una ferita che non è più stata rimarginata. Se fin dagli anni ‘30 si fosse prospettata la nascita di uno stato indipendente su tutto il territorio di Palestina (comprendente l’attuale Israele più i Territori) con caratteri multi-etnici, multi-confessionali, multi-nazionali, lo stato avrebbe ottenuto ben presto, e forse da subito, un carattere pacifico ed unitario.
Ci chiediamo: è possibile recuperare, ora, quella prospettiva? Ovvero la nascita di un unico stato per due popoli? Sessanta anni di guerre e divisioni hanno segnato profondamente le due parti, tanto che una possibilità del genere appare utopistica. Tuttavia esistono ancora, sia negli ambienti pacifisti israeliani, sia a livello internazionale, gruppi e personalità ebraiche che, su una base anti-sionista, prospettano la riconciliazione con i palestinesi e la possibilità della nascita di una entità statale bi-nazionale e multiconfessionale.
Che arabi ed ebrei, insomma, possano vivere insieme con pari diritti e dignità in un unico stato. Per l’architettura giuridica ci si potrebbe ispirare a nazioni già esistenti, come Canada, Belgio, o Svizzera, paesi che, storicamente, pur con pulsioni anche recenti verso la separazione, hanno determinato pace e prosperità tra etnie distinte pur vivendo nello stesso ambito geografico.
Sul piano politico questo significa portare la prospettiva “due popoli, uno stato” a livello di conoscenza e dibattito pubblico al fine di contaminare il pensiero unico fondato su “due popoli, due stati”, una prospettiva che si richiama alla realpolitik, ma si dimostra sempre più sterile e politicamente impraticabile.
Con il patrocinio di esponenti e/o gruppi politici internazionali è forse tempo di promuovere convegni e conferenze sul tema, determinando l’incontro tra esponenti ebrei ed arabi favorevoli a tale progetto, nella prospettiva di creare una organizzazione permanente, internazionale. Un focolare multietnico che sviluppi, promuova, analizzi e risolva tutte le problematiche inerenti alla questione e coaguli attorno a sé sempre maggiori forze.
Certo, l’ipotetico Stato Unico della Terra Santa – oggi collocato in un’area già popolatissima - diventerebbe una delle aree potenzialmente più affollate del pianeta, per via delle speculari Leggi del Ritorno che dovrebbero garantire a palestinesi ed ebrei di vivere ovunque vogliano, in quel territorio. Un processo di “nation building” di questa natura sarebbe costoso. Ma se si pensa ai miliardi attuali bruciati dagli USA ogni anno in forniture di armamenti strategici, se si pensa alle abnormi spese di gestione dell’apartheid, se si pensa in prospettiva allo sbocco che potrebbero avere gli affari mediorientali, le risorse ci sarebbero, eccome.
Gli inevitabili problemi di sicurezza, che oggi Israele affronta con unilateralità militare e in spregio alla comunità internazionale, dovrebbero essere in carico a una massiccia presenza di forze armate, forze di polizia e cooperanti civili di tutto il mondo. Un anno di servizio militare o civile a Hebron, a Gerusalemme, a Gaza, a Tel Aviv sarebbero per un’intera generazione un’esperienza di grande apertura al mondo.
Il discorso oggi più eretico del mondo, ossia volere la sconfitta politica del disegno sionista e volere una trasformazione statuale che rinunci all’assetto esistente, non è certo sinonimo di distruzione della presenza ebraica in Terra Santa. Ben al contrario.
«Ora, di tutti gli improbabili motivi accampati dai sionisti per occupare la Palestina», ricorda Miguel Martinez «l'unico che abbia un minimo di coerenza è quello teologico, basato su una delle possibili letture di ciò che chiamiamo "Antico Testamento", ovviamente per chi ci crede. E non c'è dubbio che le terre israelitiche nella Bibbia (dove peraltro non compare mai l'espressione "Terra d'Israele") corrispondessero all'incirca alla Cisgiordania più la Galilea, con l'esclusione della maggior parte dell'Israele pre-1967. Sono quindi significativi per il giudaismo esattamente quei luoghi che i sostenitori di "due popoli due stati" vorrebbero che venissero restituiti ai palestinesi.»
Non stupisce poter ritrovare perciò fra gli ebrei ortodossi una figura come Menachem Froman, che rovescia i presupposti del «sionismo reale».
La Terra è unica, e umanamente appartiene ai palestinesi; «ma gli ebrei hanno il diritto, e forse il dovere, di vivere nei luoghi più sacri di quella terra.
Quindi stato unico dal Giordano al mare, con uguali diritti per tutti i suoi cittadini; e libertà per gli ebrei religiosi di insediarsi in ciò che loro chiamano Giudea e Samaria. In base allo stesso principio, Froman ha difeso le colonie ebraiche a Gaza».
Froman ha un dialogo vero e caloroso anche con Hamas e con altre formazioni sociali e politiche palestinesi.
Il nuovo realismo politico procederà – dovrà procedere - in ambienti davvero inediti.
Il tramonto del sionismo reale e l’affermarsi di un ordine statuale che custodisca in modo nuovo la casa delle varie religioni e dei popoli del Medio Oriente può essere il “temporis partus masculus” della comunità mondiale.

2 giugno 2010

L’ultimo brutale errore di Israele

di Stephen M. Walt - «Foreign Policy»




Sulla strage di pacifisti ad opera delle forze armate israeliane si esprime con un lucidissimo articolo anche il professor Stephen M. Walt, coautore assieme a John Mearsheimer di “La Israel lobby e la politica estera americana” , il best seller che ha messo a nudo il gravame di condizionamenti sempre più pesanti che assoggettano la politica estera Usa alla visione via via più paranoica della classe dirigente israeliana.


31 maggio 2010
Ormai avrete tutti sentito parlare dell’attacco ingiustificato dell'IDF alla Gaza Freedom Flotilla, una flotta di sei navi civili che stava cercando di portare aiuti umanitari (ad esempio medicinali, cibo e materiali da costruzione) a Gaza. La popolazione di Gaza è oggetto di un assedio paralizzante israeliano fin dal 2006. Israele ha imposto il blocco dopo che gli elettori di Gaza hanno avuto l’ardire di preferire Hamas in elezioni libere tenutesi su insistenza dell'amministrazione Bush, che poi ha rifiutato di riconoscere il nuovo governo, perché non le piaceva il risultato.
Nella tarda serata di domenica, i commando delle forze navali dell’IDF hanno attaccato una delle navi disarmate in acque internazionali, uccidendo almeno dieci pacifisti e ferendone molti altri. Il portavoce delle Forze di Difesa israeliane sostiene che l'uso della forza era giustificato perché i passeggeri hanno resistito ai tentativi israeliani di salire e sequestrare la nave. Altri funzionari israeliani hanno cercato di ritrarre gli attivisti, le cui fila comprendevano cittadini provenienti da cinquanta paesi, un Premio Nobel per la Pace, un ex ambasciatore degli Stati Uniti, e un anziana sopravvissuta all'Olocausto, come simpatizzanti dei terroristi aventi legami con Hamas e perfino con al-Qa'ida.
La mia prima domanda non appena ho sentito la notizia è stata: «Cosa possono aver pensato i leader israeliani?» Come facevano a poter credere che un attacco mortale contro una missione umanitaria in acque internazionali potesse giocare a loro favore? Il governo israeliano ei suoi sostenitori della linea dura spesso lamentano di presunti tentativi di «delegittimare» il paese, ma azioni come questa sono la vera ragione per cui la reputazione di Israele in tutto il mondo è precipitata così in basso. Questa ultima furfanteria è tanto stupida quanto la guerra del 2006 in Libano (che ha ucciso oltre un migliaio di libanesi e ha causato miliardi di dollari di danni) o l’attacco del 2008-2009 che ha ucciso circa 1300 abitanti di Gaza, molti dei quali erano bambini innocenti. Nessuna di queste azioni ha raggiunto il suo obiettivo strategico: infatti, tutte hanno fornito prove ulteriori del the costante deteriorarsi del pensiero strategico di Israele, cui abbiamo assistito dal 1967.
La mia seconda domanda è: «L'amministrazione Obama tirerà fuori un po’ di spina dorsale su questo tema, per andare al di là delle solite dichiarazioni edulcorate che di solito i presidenti degli Stati Uniti fanno quando Israele agisce stoltamente e pericolosamente?» Al presidente Obama piace parlare assai dei nostri meravigliosi valori americani, e l’appena sfornata National Security Strategy afferma che «dobbiamo sempre cercare di mantenere questi valori, non solo quando è facile, ma quando è difficile». Lo stesso documento parla anche di un «ordine internazionale basato sul diritto», e dice: «L'impegno dell'America per lo stato di diritto è fondamentale per i nostri sforzi volti a costruire un ordine internazionale che sia capace di affrontare le sfide emergenti del XXI secolo.»
Beh, se questo è vero, per Obama questa è un'ottima occasione per dimostrare che egli intende davvero ciò che dice. Attaccare una missione di aiuto umanitario non è certamente coerente con i valori americani - anche quando la missione di aiuto sia impegnata nell’azione provocatoria di sfidare un blocco navale - e agire così in acque internazionali è una diretta violazione del diritto internazionale. Certo, sarebbe politicamente difficile per l'amministrazione a prendere una posizione di principio con le elezioni di medio termine che incombono, ma i nostri valori e l’impegno per lo stato di diritto non valgono molto se un presidente li sacrifica solo per guadagnare dei voti.
Ancora più importante, questo ultimo atto di belligeranza scellerata rappresenta una minaccia più ampia agli interessi nazionali statunitensi. Poiché gli Stati Uniti forniscono a Israele così tanto aiuto materiale e protezione diplomatica, e poiché i politici americani dal presidente in giù fanno più volte riferimento ai "legami indissolubili" tra gli Stati Uniti e Israele, i popoli di tutto il mondo ci associano naturalmente alla maggior parte delle azioni di Israele, se non tutte. Quindi, Israele non si limita a offuscare la propria immagine quando fa qualcosa di strampalato come questo, ma mette anche gli Stati Uniti in pessima luce. Questo incidente danneggerà i nostri rapporti con gli altri paesi del Medio Oriente, darà credito supplementare alla narrativa jihadista sull’«alleanza crociato-sionista», e complicherà gli sforzi nella trattativa con l'Iran. Ci costerà inoltre qualche posizione morale agli occhi di altri amici in tutto il mondo, soprattutto se minimizziamo. Questa è solo una prova in più ammesso che ne avessimo bisogno, che il rapporto speciale con Israele è diventata una voce al passivo nel nostro bilancio.
In breve, a meno che l'amministrazione Obama non dimostri subito quanto sia adirata e disgustata da questo folle atto, e a meno che la reazione degli Stati Uniti non abbia un vero mordente, gli altri stati giustamente percepiranno Washington irrimediabilmente debole e ipocrita. E il discorso di Obama al Cairo - che venne intitolato «Un Nuovo Inizio» - avrà una posizione di rilievo nell’Albo d’Oro della Vuota Retorica.
Come potrebbero reagire gli Stati Uniti? Potremmo iniziare denunciando l'azione di Israele con parole semplici, senza prevaricazione. Potremmo aiutare a stilare e portare avanti una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che condanni l'azione di Israele e chieda una commissione d'inchiesta internazionale per stabilire cosa è successo. E se l'intelligence americana stava controllando la flottiglia - e avrebbe dovuto farlo - dobbiamo mettere tutte le informazioni che abbiamo raccolto a disposizione della commissione.
Potremmo anche cancellare o sospendere elementi del nostro pacchetto di aiuti militari a Israele. E potremmo dire forte e chiaro che il blocco di Gaza è illegale, disumano e controproducente, e premere apertamente su Israele e l'Egitto per abrogarlo immediatamente.
Ma anche forti misure come queste non risolveranno il problema sottostante, che è il conflitto stesso. Ho imparato a non aspettarmi molto da questa amministrazione quando si tratta di spingere le due parti verso una soluzione, dato che Obama predica benissimo, ma non razzola altrettanto bene nell’esercitare sostanziose pressioni sulle due parti. L'ultimo incidente, tuttavia, potrebbe convincere Obama che ha fatto bene a mettere la questione israelo-palestinese sul fuoco quando è entrato in carica, mentre ha sbagliato a cedere a Netanyahu quando questi recalcitrava la scorsa estate (2009) e di nuovo questa primavera. Il risultato di questi ripiegamenti è stata una perdita di tempo prezioso, mentre la situazione nei Territori occupati si è deteriorata.
Perché il tempo si sta rapidamente esaurendo per una soluzione a due Stati, Obama dovrebbe cogliere questa occasione per spiegare al popolo americano perché sia necessario un approccio diverso e perché il portare questo conflitto a un esito sia una priorità per la sicurezza nazionale per gli Stati Uniti. Dovrebbe anche spiegare perché usare la leva degli Stati Uniti su entrambe le parti sia nell'interesse di Israele come nell’interesse dell'America. E gli sarà necessario caricarsi alcune persone nuove a bordo per aiutarlo a fare tutto ciò, perché la squadra che ha usato sinora ha speso più di un anno senza ottenere nulla. (Se la sua squadra economica avesse avuto altrettanto effetto, la nostra economia sarebbe ancora avvitata verso l'abisso.) Ottenere di riavviare i cosiddetti "colloqui di prossimità" non conta, perché tali discussioni sono un passo indietro rispetto ai precedenti ‘faccia a faccia’ negoziali e perché sono destinati a fallire.
Un terzo pensiero ha a che fare con Israele in se stessa, e soprattutto con il suo attuale governo. Cosa possiamo pensare di un paese che ha armi nucleari, un esercito eccezionale, un'economia sempre più prospera, e una grande raffinatezza tecnologica, eppure tiene sotto assedio più di un milione di persone a Gaza, nega i diritti politici a milioni di altri in Cisgiordania, dove si è impegnato ad espandervi gli insediamenti, e i cui leader hanno pochi scrupoli nell’usare la forza letale non solo contro i nemici ben armati, ma anche contro civili innocenti e attivisti internazionali pacifisti, mentre allo stesso tempo, si autodipinge come vittima innocente? Qualcosa è andato molto storto nel sogno sionista.
In quarto luogo, questo incidente è una prova decisiva per la comunità "pro-Israele" qui negli Stati Uniti. Uno dei motivi per cui Israele continua a fare cose insensate come questa è che è stato isolato dalle conseguenze di tali azioni da parte dei suoi simpatizzanti oltranzisti negli Stati Uniti. I portavoce dell'AIPAC stanno già bombardando i giornalisti e gli esperti con e-mail che rivoltano la frittata dell’aggressione, e possiamo tranquillamente aspettarci che altri apologeti preparino editoriali e post nei blog per difendere il comportamento di Israele come un integerrimo atto di "auto-difesa". E se l'amministrazione Obama cercasse di procedere in uno dei modi che ho appena suggerito, può contare su una feroce opposizione da parte delle organizzazioni più influenti nella lobby pro Israele.
In questo contesto il recente articolo di Peter Beinart nella «New York Review of Books» è ancora più significativo, soprattutto la sua domanda:
«I capi dell’AIPAC e la Conferenza dei presidenti dovrebbero chiedersi che cosa i leader israeliani avrebbero dovuto fare o dire per far loro gridare "no". ... Se il segno non è stato ancora passato, allora dove sta il confine?»
Nei prossimi giorni, tenete d’occhio il modo in cui i politici e i gli opinionisti si schiereranno su questo tema. Chi fra di loro pensa che Israele abbia "passato il segno" e si meriti le critiche - e forse pefino sanzioni - e chi di loro pensa che quello che ha fatto fosse del tutto adeguato? Paradossalmente, sono i primi ad essere amici di Israele, perché stanno cercando di salvare questo paese prima che sia troppo tardi. E sono i secondi ad avere uno zelo scriteriato che sta portando Israele a discendere verso un ulteriore isolamento internazionale - e forse anche peggio.

Fonte: foreignpolicy.com.
Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.

L'articolo su Megachip: QUI.

1 giugno 2010

Perché la strage della Flotilla è terrorismo

di Claudia Milani – da Megachip.



Le organizzazioni pacifiste attaccate affermano che al momento dell’assalto la nave Mave Marmara, battente bandiera turca, si trovasse a 75 miglia marine dalla costa della Striscia di Gaza e di Israele e avesse issato bandiera bianca. Israele non ha finora negato che l’assalto compiuto dalla Marina Militare Israeliana nei confronti della flotta si sia compiuto in acque internazionali. Al Jazeera riporta, anzi, una dichiarazione di Avital Leibovich, portavoce dell’Esercito Israeliano, in cui si afferma «… è accaduto in acque esterne a quelle israeliane ma noi abbiamo il diritto di difenderci.» In questa frase si riassume, sotto il profilo strettamente giuridico, l’illegalità dell’azione militare in oggetto.

Per poter comprendere quali diritti Israele potesse esercitare in acque internazionali e di quali crimini possa essersi macchiata, è necessaria una breve disamina di alcuni concetti basilari del Diritto Internazionale Marittimo e del Diritto Internazionale Umanitario.

La prima affermazione del principio per cui ciascuno è libero, per il diritto delle genti, di «viaggiare sul mare in quei luoghi e presso quelle Nazioni che a lui piaccia», si deve a Hugo Grotius, che nella sua Dissertazione «Mare Liberum» del 1601, sostenne la tesi della libertà di navigazione degli Olandesi contro le pretese portoghesi di esercitare diritti sovrani nell’Oceano Indiano.

Il concetto affermato da Grotius, relativo al mare come bene non suscettibile di appropriazione esclusiva e perciò aperto alla libera navigazione, è sopravvissuto a quattro secoli di Storia, trovando collocazione nella nuova Convenzione per la ricodificazione del Diritto Internazionale Marittimo (DIM), o Convenzione del Diritto del Mare, firmata a Montego Bay nel 1982, costituita da 320 articoli, entrata in vigore nel novembre del 1994, integrata da un Accordo applicativo che modifica la sua parte XI e che, secondo il disposto dell’art. 311, sostituisce le 4 precedenti Convenzioni di Ginevra.
Testo vincolante per i 2/3 della comunità internazionale e che molti Stati, che pur non l’hanno ancora ratificato, a cominciare dagli Stati Uniti, hanno riconosciuto come testo guida in materia.

Il principio generale che informa l’intero Diritto Internazionale Marittimo è, secondo la Convenzione, che ogni nave è sottoposta esclusivamente alla sovranità dello Stato di cui ha nazionalità, ovvero il cosiddetto Stato di bandiera o Stato nazionale, al quale è riservato il diritto all’esercizio esclusivo del potere di governo sulla comunità navale, potere esercitato attraverso il comandante, che viene considerato quale organo dello Stato.
Esistono, tuttavia, ovvie limitazioni a detto principio. La prima e più rilevante è costituita dalle acque territoriali.

Queste sono una zona di mare sulla quale si estende la sovranità dello Stato costiero, al di là della terraferma e delle acque (Ginevra, I,1,1, UNCLOS 2,1). L’ampiezza massima delle acque territoriali è attualmente stabilita in 12 miglia marine misurate a partire dalle linee di base (UNCLOS 3). Sulle acque territoriali ogni Paese ha la stessa sovranità di cui gode sulla propria terraferma. E tuttavia il principio della libertà dei mari trova spazio e parziale riconoscimento anche nelle acque territoriali, giacché vi è previsto il diritto di transito inoffensivo persino delle unità militari e mercantili straniere.

In linea generale si può affermare che i Paesi rivieraschi del Mediterraneo hanno adottato il limite delle 12 miglia delle acque territoriali. Anche la Siria ha ridotto a 12 miglia, con la legge n. 28/2003 del 19 novembre 2003, la propria precedente pretesa di 35 miglia di acque territoriali. La Grecia mantiene tuttora il limite di 6 mg dalla costa stabilito con la legge 17 settembre 1936, n. 230 nel 1936. Egualmente di 6 miglia è l’estensione generale delle acque territoriali della Turchia -che pure non ha ratificato la Convenzione del Diritto del Mare del 1982-, secondo l’art. 1 della legge n. 2674 del 26 maggio 1982.

In tema di acque territoriali è da osservarsi, altresì, che nell’ambito dell’Accordo del 4 maggio 1994 sulla Striscia di Gaza tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), con cui è stato attuato un primo riconoscimento dell’OLP come entità giuridica rappresentante il popolo palestinese, è stata prevista (Annesso I, art. IX) la creazione di una Maritime Activity Zone, ovvero una zona di attività marittima lungo la costa della Striscia di Gaza, estesa 20 miglia verso il largo, e pertanto sostanzialmente corrispondente alle cosiddette acque territoriali, divisa in tre zone di cui:
— le zona «K» e «M» contigue alle acque territoriali di Israele ed Egitto, della larghezza rispettiva di 1,5 ed 1 miglio, che costituiscono «closed areas», ovvero aree interdette alla navigazione palestinese, in cui la navigazione è riservata alle attività della Marina Israeliana;
— la zona «L», compresa tra le due zone precedenti», aperta alle attività di pesca e ricreative riservate ai battelli autorizzati dall’Autorità della Palestina.
Di fatto con la suddetta suddivisione si sono create le premesse per l’attribuzione di una fascia di acque territoriali al futuro Stato della Palestina.

Pertanto Israele gode di piena sovranità sulle acque prospicienti la propria costa fino al limite di 12 o 20 miglia marine e in tale tratto ben può esercitare poteri atti a tutelare la propria sicurezza nazionale. In linea meramente teorica, anche la Striscia di Gaza godrebbe di analoga sovranità.

Oltre il limite delle 12 miglia nautiche dalla linea di base, si estende un tratto di ulteriori 12 miglia –e quindi 24 miglia nautiche dalla costa - in cui lo Stato può continuare a fare valere le proprie leggi rispetto – principalmente - al controllo del contrabbando o dell'immigrazione clandestina. Si tratta della cosiddetta zona contigua.
In essa uno Stato può esercitare i controlli necessari a prevenire e reprimere le violazioni alle leggi di polizia doganale, fiscale, sanitaria o d’immigrazione vigenti sul proprio territorio (Ginevra, I, 24, 1.;UNCLOS 33, 1).
E’ oggetto di contestazione e dibattito la possibilità di esercizio della giurisdizione ai fini della sicurezza nazionale anche nella zona contigua. Pertanto, già nel tratto di mare compreso tra le 12 e le 24 miglia marine dalla costa, non è pacifico che lo Stato possa avere poteri atti a tutelare la propria sicurezza nazionale.
E’ inoltre pacifico che all’interno di essa le navi e gli aeromobili di tutte le nazioni, godano delle libertà dell’alto mare in analogia a quanto espressamente stabilito per la zona economica esclusiva (UNCLOS 58).
I battelli stranieri vi possono esercitare la pesca, a meno che lo Stato costiero non abbia proclamato la zona economica esclusiva o la zona riservata di pesca. Le navi da guerra straniere possono, in particolare, svolgere attività operative e di addestramento che prevedano anche l’uso di armi, senza che lo Stato costiero possa pretendere di interferire. La zona contigua, che per poter esistere deve essere formalmente proclamata, costituisce una porzione delle acque internazionali. Algeria, Cipro, Egitto, Francia, Marocco, Malta, Siria e Tunisia hanno dichiarato di avere istituito una propria zona contigua. Israele no. Questo significa che la giurisdizione di Israele passa direttamente dall’essere totale sulle proprie acque territoriali, ovvero dalla costa fino a dodici o venti miglia, ad essere nulla, poiché versa direttamente in acque internazionali. Ovviamente conserva il diritto di sfruttamento esclusivo delle risorse naturali nella zona economica esclusiva, anche nota con l'acronimo ZEE, ovvero l’area di mare che si estende per 200 miglia nautiche dalla linea di base.

Pertanto, al di là dei diritti di natura prettamente economica e di sfruttamento sulla ZEE e di quelli eventuali su una presunta zona contigua, è possibile affermare che il potere sovrano di Israele si esaurisce al limite delle proprie acque territoriali, ovvero entro e non oltre le dodici o venti miglia marine dalle proprie coste.

Oltre le acque territoriali di ogni Paese che si affacci sul mare, si estendono le cosiddette acque internazionali, categoria generale che comprende la zona contigua e la zona economica esclusiva- esse si estendono fino alle 200 miglia marine della costa e si fondono, per regime e dimensioni, con l’alto mare.

Al di là dei poteri dei singoli Stati sulla zona contigua e sulla zona economica esclusiva, che sono sostanzialmente diritti di natura economica e di sfruttamento delle risorse marine, le acque internazionali sono sottoposte al medesimo regime dell’alto mare, ovvero della zona di mare ulteriore rispetto a alle acque internazionali stesse. Secondo nozione consolidata (Ginevra, I, 1) per alto mare si intendono tutte quelle parti del mare che non appartengono al mare territoriale. Il termine alto mare indica gli spazi marini al di là della zona economica esclusiva e quindi non sottoposti alla sovranità di alcuno Stato. Negli spazi marini situati oltre la zona economica esclusiva cessa ogni tutela degli interessi degli Stati costieri.

L’alto mare è aperto a tutti gli Stati, sia costieri che interni, che possono esercitarvi, con l’unico limite di non intaccare le libertà degli altri Stati, tra le altre, le attività di navigazione.

Ogni Stato, sia costiero che interno, ha diritto di navigare in alto mare con navi battenti la sua bandiera le quali sono soggette alla sua giurisdizione esclusiva. Dal punto di vista giuridico il principio di riferimento è quello della «perfetta eguaglianza e completa indipendenza» di tutti gli Stati in un luogo come l’alto mare in cui non esiste alcuna autorità.
L’alto mare deve essere riservato a scopi pacifici e nessuno Stato può pretendere di assoggettarne alcuna parte alla sua sovranità.
L’alto mare è l’unica zona in cui trova ancora applicazione il classico principio della “libertà dei mari”, che ha dominato per secoli il DIM, il quale indica che il singolo Stato non può impedire e neanche soltanto intralciare l’utilizzazione degli spazi marini da parte degli altri Stati né delle comunità che da altri Stati dipendono. L’utilizzazione degli spazi marini incontra l’unico limite della pari libertà altrui. Sulle navi che vi transitano vige la legge di bandiera, cioè quella del Paese di appartenenza.
Anche nei confronti di navi sospettate di attività terroristiche, sono stati confermati i tradizionali principi della libertà dei mari secondo cui nessuno Stato può interferire in alto mare con la navigazione di un mercantile a meno di espressa autorizzazione del Paese di bandiera, ed è pertanto da escludersi l’esercizio di poteri di enforcement.

In linea generale, nessuno Stato può fermare o abbordare navi battenti bandiera straniera in acque internazionali.

I casi in cui uno Stato, in tempo di pace, pretenda di esercitare giurisdizione in acque internazionali nei confronti di mercantili stranieri senza la preventiva autorizzazione dello Stato di bandiera, costituiscono dunque un’eccezione alla regola generale e, come tali, devono essere rigorosamente giustificati.
Il principio è che nessuno Stato ha il diritto di interferire in tempo di pace con una nave di altra bandiera che navighi in alto mare, a meno che non si verta in una delle ipotesi in cui è esercitabile il diritto di visita o il diritto d’inseguimento.

Il diritto di visita è la facoltà attribuita alle navi da guerra di sottoporre a visita in alto mare, in tempo di pace, una nave mercantile straniera nei soli casi (Ginevra II, 22; UNCLOS 110, 1) in cui vi sia fondato sospetto che questa sia dedita alla pirateria o alla tratta degli schiavi, effettui trasmissioni radio o televisive non autorizzate, sia priva di nazionalità ovvero usi più bandiere come bandiere di convenienza.
La più recente prassi internazionale, recepita peraltro in accordi sul contrasto a traffici illeciti in mare (si pensi al terrorismo marittimo, o al traffico e trasporto illegale di migranti in mare), evidenzia comunque, nell’esecuzione in mare di visite ed ispezioni a mercantili, la necessità di operare secondo stringenti misure di salvaguardia per la tutela dell’integrità fisica, dei diritti umani e della dignità delle persone trasportate e della sicurezza dei mezzi e del carico, tenendo anche conto che i pericoli connessi alla messa in atto di abbordaggi in mare possono consigliarne la loro esecuzione in porto.

Qualora, a seguito della visita, i sospetti si rivelassero fondati, la nave mercantile potrebbe essere condotta, per gli opportuni provvedimenti, in un porto nazionale o in un porto estero ove risieda un’autorità consolare, purché si tratti di:
- una nave nazionale che eserciti pirateria o tratta degli schiavi, o che abbia commesso gravi irregolarità occultando la propria nazionalità (CN 200 e 202) o falsificando i documenti di bordo;
- una nave straniera dedita alla pirateria (UNCLOS 105);
- una nave priva di nazionalità (stateless);

Al di fuori di queste ipotesi, alla nave da guerra è solo consentito di raccogliere le prove dell’attività illecita, trasmettendo un dettagliato rapporto alle autorità superiori nazionali per l’inoltro allo Stato di cui la nave batte la bandiera: è questo, per esempio, il caso del danneggiamento di cavi e condotte sottomarine. Se l’esito della visita porti a ritenere infondati i sospetti, la nave fermata deve essere indennizzata per le perdite e i danni subiti.
Non risultando integrati gli elementi della fattispecie, Israele non avrebbe potuto neppure legittimamente esercitare il mero diritto di visita, il quale, come visto, benché a carico di navi sospettate dei crimini più odiosi quali la tratta degli esseri umani, deve comunque obbligatoriamente essere condotto dalla nave da guerra nel rispetto dei diritti e dell’integrità dei passeggeri.

E’ altresì da escludersi che Israele abbia legittimamente esercitato il diritto di inseguimento, che si sostanzia nel potere attribuito alle navi da guerra, alle navi in servizio governativo e agli aeromobili militari di inseguire una nave straniera quando si abbiano fondati sospetti che questa abbia violato leggi o regolamenti nazionali (Ginevra, II, 23; UNCLOS 111). L’inseguimento deve essere iniziato quando l’imbarcazione sospetta si trovi nelle acque interne, nelle acque arcipelaghe o nel mare territoriale dello Stato che effettua l’inseguimento o nelle acque contigue al proprio mare territoriale e può continuare in alto mare, al di fuori delle aree di giurisdizione nazionale, soltanto se non sia stato interrotto. Per potersi configurare un legittimo esercizio del diritto d’inseguimento è necessario che si siano realizzate cumulativamente tutte le condizioni previste dall’art. 111 della Convenzione del Diritto del Mare del 1982. Pertanto Israele avrebbe avuto diritto d’inseguimento qualora fossero stati integrati i seguenti requisiti: l’imbarcazione si sarebbe dovuta trovare, originariamente, in acque a sovranità israeliana o in acque ad esse contigue e dovrebbe, altresì, aver violato la legge israeliana.

Come conseguenza dell’esercizio illegittimo, sarebbe stato perfettamente congruo sotto il profilo strettamente giuridico l’intervento in alto mare di una nave da guerra della stessa bandiera del mercantile inseguito, al fine di proteggerlo dall’azione coercitiva della nave inseguitrice, cioè a dire l’intervento di una nave da guerra turca, il che tuttavia non si è verificato. E’ appena il caso di osservare che, qualora una nave sia stata fermata o catturata al di fuori delle acque territoriali in circostanze che non giustificavano l’esercizio del diritto d’inseguimento, essa deve essere risarcita per i danni e le perdite subite (Ginevra, II, 23, 7; UNCLOS, 111, 8).

Ma allora, vi è da chiedersi, se dalle considerazioni innanzi svolte appare evidente come Israele non avesse alcun diritto di interferire con la navigazione della «flottilla» in acque internazionali, né di esercitare neppure un semplice diritto di visita, né tantomeno di esercitare un legittimo diritto di inseguimento, in base a quale norma Israele è comunque intervenuto?

Nella nota rilasciata oggi dall’ambasciata israeliana in Italia, si legge una dichiarazione dell’Ambasciatore israeliano a Roma, Gideon Meir, il quale sottolinea che «Israele ha dichiarato, dal 2007, un blocco navale davanti alle coste di Gaza. Il blocco navale è completamente in linea con il diritto internazionale marittimo e, come previsto nella normativa, è vietato il passaggio a qualsiasi nave civile e militare non autorizzata».

Il blocco navale, o naval blockade, è una misura di guerra volta a impedire l’entrata o l’uscita di qualsiasi nave dai porti di uno Stato belligerante. Si tratta di una misura di interferenza con la navigazione neutrale e, ovviamente, con quella nemica, volta a impedire tutte le comunicazioni marittime, in ingresso ed in uscita dalle coste nemiche nel corso di un conflitto armato e, di regola, dovrebbe svolgersi in prossimità delle acque territoriali nemiche.
La prassi del blocco è disciplinata, se si esclude la Dichiarazione di Parigi del 16 aprile 1856 sui Principi della Guerra Marittima, da norme di natura consuetudinaria, non essendo mai entrata in vigore la Dichiarazione di Londra del 26 febbraio 1909 sul Diritto della Guerra Marittima destinata a regolamentarla.
Tuttavia, con l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite del 1945, il blocco non può ritenersi consentito al di fuori dei casi di legittima difesa di cui all’art. 51 della stessa Carta: esso contrasta infatti con l’art. 2, nn. 3 e 4 che vieta il ricorso all’uso della forza nelle relazioni tra gli Stati, come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Per questo motivo «il blocco dei porti o delle coste di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato» è compreso tra gli atti di aggressione (ci sia stata o no dichiarazione di guerra) dall’art. 3, lettera c della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle NU 3314 (XXXIX) del 14 dicembre 1974.

Ammesso in ipotesi che sussistessero le condizioni di legittima difesa tali da sostenere la legittimità di un simile blocco imposto sulla Striscia di Gaza, la presenza del blocco stesso configurerebbe pacificamente Israele quale stato occupante e perciò lo vincolerebbe al disposto della Quarta Convenzione di Ginevra, ovvero la Convenzione per la protezione delle persone civili in tempo di guerra firmata a Ginevra nel 1949 e che è posta alla base delle fonti del Diritto Internazionale Umanitario. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite già nel 1979 dichiarò che ai territori occupati da Israele nel 1967 si dovesse applicare la Convenzione in oggetto. Pertanto, anche nell’ipotesi in cui il blocco fosse legittimo, Israele sarebbe comunque obbligato a garantire alla popolazione di Gaza il rispetto del diritto umanitario e men che mai potrebbe, pertanto, opporsi all’arrivo di una flotta carica di aiuti umanitari. Al contrario, sarebbe obbligata a consentirne l’accesso, pena la violazione della Convenzione stessa.

Tuttavia, Israele ha sempre sostenuto che la Quarta Convenzione sia inapplicabile ai territori occupati, giacché la Convenzione è destinata ad essere applicata solo ai territori occupati ma dotati di sovranità, sovranità che Israele non riconosce ai territori occupati. Una simile affermazione sfugge a qualunque inquadramento non solo giuridico ma anche meramente logico induttivo.

Vi è altresì da osservare come, a dispetto di quanto affermato oggi dall’Ambasciatore israeliano, Israele continua a sostenere di non occupare più Gaza dal 2005.
E tuttavia, al di là degli abiti più o meno giuridici con i quali si voglia vestire l’occupazione, il ragionamento è stringente: se sussiste un blocco, si deve rispettare la Convenzione di Ginevra e permettere l’ingresso degli aiuti umanitari; se il blocco non sussiste, non sussiste neanche la questione, giacché qualsivoglia imbarcazione sarebbe libera di raggiungere il porto di Gaza.

La succitata dichiarazione del portavoce dell’Esercito Israeliano, in cui si afferma «… è accaduto in acque esterne a quelle israeliane ma noi abbiamo il diritto di difenderci» potrebbe integrare una volontà di ascrizione dell’accaduto nella Legittima Interdizione Marittima, riconducibile alla figura elaborata dalla marina statunitense di Maritime Interdiction Operations. Le MIO, inquadrate nell’ambito più generale delle Maritime Security Operations (MSO), indicano l’attività di sorveglianza e interdizione del traffico marittimo commerciale di qualsiasi bandiera posta in essere da navi da guerra sulla base di un embargo navale decretato dall’ONU o nell’ambito dell’esercizio del diritto di legittima difesa internazionale.
Sebbene di norma le MIO costituiscano misure applicative di specifiche Risoluzioni ONU che stabiliscano un embargo navale - come nel caso del regime sanzionatorio marittimo verso la ex Iugoslavia adottato con le Risoluzioni 713, 724, 757, 787 e 820 nel periodo 1992-1995, o dell’embargo nei confronti dell’Iraq iniziato nel 1991 sulla base della Risoluzione 665 -, esse possono trovare substrato giuridico nel principio della legittima difesa internazionale, ex art. 51 della Carta, o anche nella difesa preventiva.
Questa può assumere la forma della anticipatory self-defence, quando si è nell’imminenza di un attacco armato, ed è da escludersi che tale forma risultasse integrata giacché Israele non stava per subire alcun attacco armato, o della pre-emptive self defence, qualora si voglia evitare una potenziale minaccia. Ed è questa l’unica categoria nella quale potrebbe rientrare una qualsiasi pur pacifica interferenza della Marina Militare Israeliana nei confronti di imbarcazioni straniere in acque internazionali. Peraltro la giustificazione della pre-emptive self defence è già stata storicamente posta a fondamento di operazioni marittime: si pensi al blocco di Cuba messo in atto dagli Stati Uniti nel 1962, definito «Maritime Quarantine», o a quelle più recenti condotte a partire dal 2002 contro al-Qa‛ida nel Golfo Arabico, integrante un vero e proprio blocco navale.

In tali ipotesi, le navi da guerra impegnate in operazioni di interdizione adottano misure navali di interferenza con la libertà di navigazione dei mercantili di bandiera straniera. E tuttavia risulta arduo riuscire a riscontrare la radice giuridica della loro legittimità, che potrebbe sussistere solo sulla base di un generico riferimento al regime della neutralità marittima proprio dei conflitti armati sul mare. Cioè a dire che Israele attuerebbe non già un’autodifesa anticipata rispetto ad un eventuale attacco armato ai suoi danni - anticipatory self-defence-, ma un’autodifesa preventiva -pre-emptive self defence- atta a contrastare una minaccia generica e solo potenziale, e sulla base di tale temuta minaccia attuerebbe un’interdizione marittima delle acque internazionali mediterranee.

E’ appena il caso di ricordare che, anche in caso di legittime interdizioni marittime, le misure adottabili dalla marina sono nell’ordine:
- query, ovvero richiesta di identificazione e di informazioni circa destinazione, origine, immatricolazione e carico;
- visit and search, ossia fermo, visita e ispezione;
- diversion, dirottamento in porti diversi da quelli di destinazione anche in vista dell’eventuale sequestro del carico qualora ciò sia autorizzato da Risoluzioni ONU;
- uso della forza secondo principi di necessità, proporzionalità e gradualità contro i mercantili che non obbediscono all’intimazione di fermo.
Questo è quanto, secondo il diritto consolidato, pur sulla base delle suesposte fragili motivazioni poste alla basa di una simile necessità, si sarebbe potuto legalmente verificare.

Appare opportuno smentire le voci che qualificano l’intervento israeliano come un atto di pirateria. Difatti, costituiscono pirateria gli atti di depredazione o di violenza compiuti in alto mare o in zone non soggette alla giurisdizione di alcuno Stato per fini privati dall’equipaggio di una nave o aereo privato ai danni di altra nave o aereo privato (Ginevra II,15; UNCLOS, 1O1 e 102).

Il fine privato può anche essere diverso dallo scopo di depredazione (animus furandi) ma la nave che esercita l’atto di violenza deve essere comunque privata e non statale. Allo stesso modo non rientrano nella relativa nozione gli atti di violenza o depredazione posti in essere da una nave ai danni di un’altra nave per fini politici.

Si potrebbe, al contrario, ravvisare un ben più grave atto di terrorismo marittimo. La materia costituisce oggetto della Convenzione di Roma del 10.3.1988 per la repressione dei reati diretti contro la sicurezza della navigazione marittima, la quale è stata conclusa sotto gli auspici dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) per porre rimedio alle lacune della normativa internazionale in tutti quei casi in cui l’aggressione, difettando di alcuni requisiti per l’inquadramento nella nozione di pirateria, sarebbe rimasta scoperta di qualsivoglia abito giuridico.

Rientrano, pertanto, nella nozione di terrorismo marittimo tutti i casi di violenza commessi per finalità politiche o terroristiche a bordo di una nave privata che non possono essere considerati come pirateria. Tra le ipotesi criminose previste vi sono gli atti di violenza e minaccia per impadronirsi di una nave o causare danno a una persona imbarcata.

La Convenzione si applica nel caso in cui le azioni suindicate, che debbono essere commesse per mettere in pericolo la sicurezza della navigazione latamente intesa, in aderenza alla nozione di safety, vengano compiute quando la nave è in acque site «al di là dei limiti esterni del mare territoriale di un solo Stato» o, in base alla sua rotta, stia per navigare in tali acque o provenga dalle stesse. L’azione condotta dalla Marina Militare Israeliana potrebbe integrare tutti i requisiti per essere qualificata come atto di terrorismo marittimo.

Ma vi è di più. L’azione condotta dalla Marina Militare Israeliana potrebbe integrare anche una fattispecie di terrorismo tout court, stando alle definizioni del terrorismo date dall’ONU.

Si pensi alla definizione di terrorismo adottata per consensus dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nella Risoluzione 49/60 del 9 dicembre 1994: «atti criminali finalizzati o volti a provocare uno stato di terrore tra la popolazione, all’interno di un gruppo di persone o tra determinate persone per fini politici. –Tali atti- sono, in ogni circostanza, ingiustificabili, quali che siano le considerazioni di natura politica, filosofica, ideologica, razziale, etnica, religiosa o di qualsiasi altra natura che possano essere addotte per giustificarli.»
Ancor più utile appare la cosiddetta definizione globale “indiretta” di terrorismo della Convenzione delle Nazioni Unite del 1999 per la soppressione delle attività di finanziamento del terrorismo che, all’art. 2, definisce indirettamente il terrorismo come «ogni atto finalizzato a causare la morte o lesioni personali gravi ad un civile o ad ogni altra persona che non prende attivamente parte alle ostilità in una situazione di conflitto armato, quando lo scopo di questo atto, per propria natura ovvero per il contesto nel quale viene commesso, è quello di intimidire una popolazione ovvero di costringere un governo od una organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un determinato atto.»

Secondo Antonio Cassese, vi sarebbe la convergenza della Comunità internazionale su una nozione di terrorismo basata sui seguenti tre elementi: 1) gli atti posti in essere devono essere atti penalmente rilevanti per la maggior parte dei sistemi giuridici nazionali (omicidio, sequestro di persona, tortura ecc.); 2) essi devono avere la finalità di imporre ad un governo o ente internazionale di compiere o astenersi dal compiere un determinato atto, spargendo il terrore nella popolazione; 3) tali atti devono essere commessi sulla base di motivazioni politiche, religiose ovvero ideologiche, non devono pertanto essere motivati dal perseguimento di fini di lucro o interessi privati.

Il terrorismo come crimine internazionale autonomo. Gli atti terroristici possono essere qualificati come crimini internazionali laddove possiedano le seguenti caratteristiche: 1) devono esplicare i loro effetti in più Stati per persone coinvolte, mezzi impiegati, grado di violenza sprigionata; 2) devono essere commessi con il sostegno, la tolleranza o l’acquiescenza dello Stato nel cui territorio è insediata l’organizzazione terroristica. Il fatto che uno Stato sia incapace di debellare un’organizzazione terroristica che si trovi sul suo territorio (acquiescenza), oppure incoraggi o tolleri (sostegno o tolleranza) la sua presenza attribuisce internazionalità all’attività terroristica. Tale connotazione internazionale dell’atto terroristico lo rende una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, la terza e ultima caratteristica necessaria per poter qualificare l’atto terroristico come un crimine internazionale.

Atti di terrorismo e crimini contro l’umanità. Un atto di terrorismo è un crimine contro l’umanità laddove possa essere inserito nel contesto di una politica, statale o non statale, diretta alla commissione sistematica e generalizzata di atti inumani. Non vi è dubbio che l’attacco armato ad una missione umanitaria composta da volontari pacifisti in acque internazionali ben possa integrare un crimine contro l’umanità.

Competente a giudicare sui «più gravi crimini di portata internazionale», che costituiscono «motivo di allarme per l’intera Comunità internazionale» (artt. 1 e 5 Statuto CPI) è la Corte Penale Internazionale, il cui trattato istitutivo è entrato in vigore il 1 luglio 2002, al raggiungimento del deposito della 60a ratifica. Essa ha competenza a giudicare, tra gli altri, sui crimini contro l’umanità (art. 7), sui crimini di guerra (art. 8), e, formalmente, anche sul crimine di aggressione (art. 5, par. 2). Tuttavia, la competenza della CPI sull’aggressione è sospesa fino a quando l’Assemblea degli Stati parti della CPI non adotterà una definizione del crimine contro la pace costituito dall’aggressione. La CPI può intervenire sui crimini commessi nel territorio di uno Stato parte dello Statuto - ma Israele non ha mai ratificato il Trattato istitutivo -, oppure sui crimini commessi da persone aventi la nazionalità di una Parte contraente. L’attività della Corte è incentrata sul principio di complementarietà (art. 1), nel senso che la repressione dei crimini internazionali è riservata alla CPI solo laddove si riscontri che lo Stato che ha giurisdizione sia unable or unwilling, incapace o non intenzionato ad avviare e svolgere il processo (art. 17).
Una situazione nella quale siano stati commessi crimini internazionali può essere portata all’attenzione della Corte secondo tre diverse modalità.
E’ riconosciuto un potere generale di ogni Stato parte dello Statuto di richiedere alla Corte di indagare su ipotesi di commissione di crimini.
Il procuratore della CPI ha il potere di avviare un procedimento ex officio, dunque di aprire un’indagine di sua iniziativa, previo controllo della Pre-Trial Chamber, la Camera preliminare composta da tre giudici.
Infine, il Consiglio di Sicurezza può richiedere alla CPI di indagare su una situazione, nell’ambito delle azioni prevista dal Capitolo VII della Carta ONU (art. 13 dello Statuto CPI).

In conclusione, in aderenza al Diritto Internazionale Marittimo e al Diritto Internazionale Umanitario è possibile affermare che la sovranità di Israele sul mare si esaurisce all’interno delle sue acque territoriali e non si estende alle acque internazionali. Pertanto Israele non aveva il diritto di interferire con una nave di altra bandiera che navigasse in acque internazionali, neppure attraverso l’esercizio del diritto di visita o del diritto d’inseguimento.
Il blocco navale, qualora legittimamente effettuato, vincolerebbe Israele al disposto della Quarta Convenzione di Ginevra, e quindi a permettere il pacifico transito degli aiuti umanitari.
La Legittima Interdizione Marittima, qualora legittimamente effettuata, obbligherebbe Israele ad un uso della forza secondo principi di necessità, proporzionalità e gradualità.
La fattispecie di pirateria non risulterebbe integrata.
L’azione condotta dalla Marina Militare Israeliana appare integrare fattispecie di terrorismo marittimo, terrorismo tout court, terrorismo internazionale e crimini contro l’umanità, sottoponibili al giudizio della Corte Penale Internazionale.

Claudia Milani
Avvocato e Giurista



Fonti:

 
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