27 settembre 2009

Scott Ritter: l'Iran è da considerare leale

di Pino Cabras – da Megachip.

Il pensiero unico dell'Occidente si è scatenato. Il solenne Obama che vuole rendere obsolete le armi nucleari rivela altrettanto solennemente che invece l'Iran fa rapidi passi avanti per averle. Si sono distinti nei toni allarmistici contro Teheran i titoli e gli editoriali de «la Repubblica».

E anche il neonato «Il Fatto Quotidiano», sebbene dica di staccarsi dal “pensiero unico”, ha presto rivelato il suo punto debole: ossia l'imbarazzante povertà delle sue pagine internazionali, troppo pigre e apologetiche, incapaci di una critica basata sui fatti nei confronti della complessa politica obamiana.

Perciò vi proponiamo un documento di straordinaria lucidità. È l'articolo scritto per «The Guardian» da Scott Ritter, l'uomo che tra il 1991 e il 1998 fu il capo degli ispettori Onu in Iraq. Ritter è uno dei massimi esperti in materia di controllo delle armi nucleari, ed è anche il personaggio che, appena nel 2003 iniziò l'invasione dell'Iraq, ebbe a dire profeticamente: «gli Stati Uniti se ne andranno dall'Iraq con la coda tra le gambe, sconfitti. È una guerra che non possiamo vincere».

Nessun organo d'informazione ha dato sufficiente risalto alle attuali ponderate considerazioni di Ritter sull'Iran, che nulla concedono, come è suo costume, alla propaganda – e agli errori – di quelli che battono la grancassa delle sanzioni. Ricordiamo che gli stessi meccanismi di allarme che oggi sono a carico del regime iraniano furono acriticamente usati al tempo dell'inizio della campagna irachena. Oggi come allora le pagine internazionali sono un guazzabuglio di allarmi atomici gonfiati, di esagerazioni su voci inattendibili di Bin Laden e altre armi psicologiche che creano un clima di paura e di distrazione (e nessuno così si lamenta se il G20 non fa nulla contro gli squali dell'alta finanza).

Ezio Mauro, Antonio Padellaro: il giornalismo d'inchiesta dovrebbe essere usato anche fuori da questi confini nazionali. Passate le Alpi, ve la danno a bere. La lettura di Ritter è un buon antidoto.

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Keeping Iran honest

di Scott Ritter – «The Guardian»

La centrale nucleare segreta dell'Iran innescherà un nuovo ciclo di ispezioni dell'AIEA e porterà a un periodo di ancora maggiore trasparenza.

È stato davvero un momento di alta drammaticità. Barack Obama, fresco reduce dal suo cimentarsi a fare la storia nell'ospitare il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, si è preso una pausa dalle sue funzioni al vertice economico del G20 a Pittsburgh per annunciare l'esistenza di un impianto nucleare segreto e non notificato in Iran, che non risultava coerente con un programma nucleare a scopi pacifici, sottolineando la conclusione che «l'Iran sta violando le regole che tutti i paesi devono seguire».

Obama, appoggiato da Gordon Brown e Nicolas Sarkozy, ha minacciato dure sanzioni contro l'Iran qualora non si conformasse pienamente ai suoi obblighi riguardanti il controllo internazionale del suo programma nucleare, che al momento attuale sta per essere definito da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia come l'obbligo di sospensione immediata di tutte le attività di arricchimento nucleare.

La struttura in questione, che si rivela sia localizzata presso una installazione militare segreta iraniana fuori dalla città santa di Qom e in grado di ospitare fino a 3mila centrifughe, usate per arricchire l'uranio, è stata per qualche tempo controllata dai servizi di intelligence degli Stati Uniti e altre nazioni. Ma non è stato che lunedi che l'AIEA è venuta a sapere della sua esistenza, basandosi non su un qualsiasi "scoop" d'intelligence fornito dagli USA, ma proprio su una spontanea notificazione da parte dell'Iran. Le azioni dell'Iran hanno forzato la mano degli Stati Uniti, spingendo Obama all'affrettata conferenza stampa di venerdì mattina.

Attenzione alle campagne mediatiche con motivazioni politiche. Mentre in superficie l'intervento drammatico di Obama sembrava sensato, il diavolo si nasconde sempre nei dettagli. Le "regole" che l'Iran è accusato di aver violato non sono vaghe, bensì scandite in termini chiari. Ai sensi dell'articolo 42 dell'accordo di salvaguardia dell'Iran, e del Codice 3.1 della parte generale degli accordi sussidiari (altresì noto come il "protocollo aggiuntivo") di tale accordo, l'Iran ha l'obbligo di informare l'AIEA di qualsiasi decisione volta a costruire un impianto che ospiti centrifughe operative, e di fornire informazioni sul progetto preliminare di tale impianto, anche se il materiale nucleare non fosse stato introdotto. Questo avvierebbe un processo di accesso complementare e di ispezioni di verifica della progettazione da parte dell'AIEA.

Questo accordo è stato firmato dall'Iran nel dicembre del 2004. Tuttavia, poiché il "protocollo aggiuntivo" non è stato ratificato dal parlamento iraniano, e come tale non è giuridicamente vincolante, l'Iran ha interpretato la sua attuazione come su base volontaria, e pertanto ha accettato di rispettare queste nuove misure, più come misura di rafforzamento della fiducia che in qualità di un obbligo inderogabile.

Nel marzo del 2007, l'Iran ha sospeso l'applicazione del testo modificato del codice 3.1 della Parte generale degli accordi sussidiari riguardanti la rapida fornitura delle informazioni sui progetti. In questa maniera, l'Iran stava ritornando alle sue condizioni giuridicamente vincolanti dell'accordo di salvaguardia originario, che non richiedevano la dichiarazione iniziale sugli impianti con capacità nucleare prima dell'introduzione di materiale nucleare.

Anche se questa azione risulta comprensibilmente irritante per l'AIEA e per quegli Stati membri che desiderano una piena trasparenza da parte dell'Iran, non si può parlare in termini assoluti di violazioni da parte dell'Iran dei suoi obblighi derivanti dal trattato sulla non-proliferazione nucleare. Così, quando Obama ha annunciato che «l'Iran sta le regolviolando le regole che devono seguire tutte le nazioni», è in errore sia dal punto di vista tecnico sia da quello giuridico.

Ci sono molti modi di interpretare la decisione dell'Iran del marzo 2007, soprattutto alla luce delle rivelazioni di oggi. Occorre sottolineare che l'impianto di Qom cui si riferisce Obama non è un impianto per armi nucleari, ma semplicemente una centrale nucleare di arricchimento simile a quella che si trova nell'impianto notificato (e ispezionato) di Natanz.

L'impianto di Qom, se le descrizioni attuali sono accurate, non può produrre stock-base di alimentazione (esafluoruro di uranio, o UF6) utilizzato nel processo di arricchimento basato sulla centrifuga. Si tratta semplicemente di un altro impianto in cui l'UF6 può essere arricchito.

Perché è importante questa distinzione? Perché l'AIEA ha sottolineato, continuamente, che possiede un resoconto completo delle scorte di materiale nucleare dell'Iran. Non c'è stata alcuna diversione di materiale nucleare per l'impianto di Qom (dal momento che è in fase di costruzione). L'esistenza del presunto impianto di arricchimento di Qom non cambia in alcun modo il bilancio dei materiali nucleari presenti oggi all'interno dell'Iran.

In parole povere, l'Iran non è più vicino a produrre ipotetiche armi nucleari oggi di quanto non lo fosse prima dell'annuncio di Obama sulla struttura di Qom.

Si potrebbe adoperare l'argomento secondo cui l'esistenza di questo nuovo impianto dota l'Iran di una capacità di "autonomo sganciamento" nel produrre uranio altamente arricchito che potrebbe essere utilizzato nella fabbricazione di una bomba nucleare in una qualche fase successiva. La dimensione della struttura di Qom, sospettata di essere in grado di ospitare 3mila centrifughe, non è ideale per attività di arricchimento su larga scala necessarie a produrre quantità significative di uranio bassamente arricchito di cui l'Iran avrebbe bisogno per far funzionare i suoi reattori nucleari in progetto. In tal senso, si potrebbe sostenere che il suo unico vero scopo sia quello di riciclare rapidamente delle scorte di uranio bassamente arricchito in uranio altamente arricchito utilizzabile in un'arma nucleare. Il fatto che si riferisce che l'impianto di Qom sia situato dentro un'installazione militare iraniana non fa che rafforzare questo tipo di pensiero.

Ma questa interpretazione richiederebbe comunque la diversione di notevoli quantità di materiale nucleare fuori dal controllo degli ispettori dell'AIEA, qualcosa che sarebbe quasi immediatamente evidente. Qualsiasi deviazione significativa di materiale nucleare sarebbe una causa immediata di allarme, e ciò provocherebbe un'energica reazione internazionale, che includerebbe molto probabilmente un'azione militare contro la totalità delle infrastrutture nucleari iraniane conosciute.

Allo stesso modo, le 3mila centrifughe dell'impianto di Qom, anche quando iniziassero con il 5% delle scorte di uranio arricchito, dovrebbero operare per mesi prima di essere in grado di produrre abbastanza uranio altamente arricchito per un singolo dispositivo nucleare. In tutta franchezza, questo non costituisce una valida capacità di " autonomo sganciamento".

L'Iran, nella sua notificazione dell'impianto di arricchimento di Qom all'AIEA resa il 21 settembre, lo ha descritto come un “impianto pilota”. Dato che l'Iran ha già un "impianto pilota di arricchimento" in funzione presso la struttura notificata di Natanz, questa evidente duplicazione dello sforzo va nella direzione tanto di un programma parallelo di arricchimento nucleare a conduzione militare volto agli scopi più scellerati, quanto, più probabilmente, di un tentativo da parte dell'Iran di fornire profondità strategica e capacità di sopravvivenza al suo programma nucleare, a fronte di ripetute minacce di bombardare le infrastrutture nucleari pronunciate da USA e Israele.

Non dimenticate mai che gli scommettitori sportivi, davano 2:1 probabilità che Israele o gli Stati Uniti avrebbero bombardato gli impianti nucleari dell'Iran entro marzo 2007. Dopo aver l'asciato l'incarico, l'ex vice-presidente Dick Cheney ha ammesso che stava spingendo fortemente per un attacco militare contro l'Iran durante il periodo dell'amministrazione Bush. E il livello di retorica proveniente da Israele circa la sua intenzione di lanciare un attacco militare preventivo contro l'Iran è stato allarmante.

Mentre Obama potrebbe aver inviato segnali concilianti verso l'Iran in merito alla possibilità di riavvicinamento a seguito della sua elezione, nel novembre 2008, questo non era l'ambiente fronteggiato dall'Iran, quando aveva preso la decisione di ritirarsi dal suo impegno a notificare ogni nuovo impianto nucleare in costruzione . La necessità di creare un meccanismo di sopravvivenza economica di fronte alla minaccia reale di azione militare sia degli Stati Uniti sia di Israele è probabilmente la spiegazione più probabile che sta dietro la struttura di Qom.

La notificazione dell'Iran di questa struttura all'AIEA, che precede di diversi giorni l'annuncio di Obama, probabilmente è un riconoscimento da parte dell'Iran che questa duplicazione degli sforzi non è più rappresentativa di una politica avveduta da parte sua.

In ogni caso, l'impianto è ora fuori dalle ombre, e presto sarà sottoposto ad una vasta gamma di ispezioni dell'AIEA, rendendo discutibili le speculazioni circa le intenzioni nucleari dell'Iran. Inoltre l'Iran, nel notificare questa struttura, deve sapere che - poiché ha presumibilmente collocato delle centrifughe operative nell'impianto di Qom (anche se non è stato introdotto materiale nucleare) - ci sarà la necessità di fornire all'AIEA il pieno accesso alla capacità di produzione di centrifughe dell'Iran, in modo che un bilancio materiale possa essere acquisito per queste voci allo stesso modo.

Anziché rappresentare la punta di un iceberg in termini di scoperta di una segreta capacità di armi nucleari, l'emergere dell'esistenza dell'impianto di arricchimento di Qom potrebbe benissimo segnare l'avvio di un periodo di maggiore trasparenza da parte dell'Iran, che porti alla sua la piena adozione e attuazione del Protocollo aggiuntivo AIEA. Questo, più di ogni altra cosa, dovrebbe essere il risultato auspicato della "notificazione di Qom".

Gli appelli per sanzioni"paralizzanti" contro l'Iran da parte di Obama e Brown non sono certo le opzioni politiche più produttive a disposizione di questi due leader mondiali. Entrambi hanno espresso il desiderio di rafforzare il trattato di non-proliferazione nucleare.

L'azione dell'Iran, nel dichiarare l'esistenza della struttura di Qom, ha creato una finestra di opportunità per fare proprio questo, e dovrebbe essere sfruttata appieno nel quadro dei negoziati e delle ispezioni dell'AIEA, e non più per le spacconate e le minacce dei leader del mondo occidentale.

24 settembre 2009

Le cas de «Tripod II» et autres jeux de guerre le 11 septembre 2001

de Pino Cabras - Megachip

Nombreux étaient les exercices des appareils militaires et de sécurité américains qui se sont déroulés le 11 septembre 2001, que ce soit dans le ciel ou à terre, dans les organisations d’espionnage ou de sécurité, à l’intérieur des gratte-ciel ou en dehors.

Parmi eux, il y avait l’exercice Tripod II, une simulation d’attaque terroriste organisée pour le 12 septembre sur la côte occidentale de Manhattan.

Cette simulation comportait, avant la date du 11/9, l’installation sur un quai “Pier 92” de la rivière Hudson, d’un vaste centre de contrôle et de commandement à l’image de celui du Bureau des urgences de Manhattan (OEM), situé dans le bâtiment 7 du WTC et qui fut détruit lors de son effondrement.

L’OEM fut créé en 1996 par le maire de New York, Rudolph Giuliani, pour gérer la riposte de la ville à d’éventuelles catastrophes, y compris des attentats terroristes à grande échelle.

Dans les 5 années qui ont précédé le 11/9, l’OEM a régulièrement organisé des exercices impliquant toutes les agences : de la protection civile aux organes de sécurité en passant par la FEMA. À chaque fois, les simulations et les équipements étaient en place pendant plusieurs semaines. Des moyens impressionnants étaient mobilisés dans le cadre de mises en scène très réalistes. Rudy Giuliani assistait en personne à la plupart de ces “entrainements” (drills) qui permettaient de tester la ville face à des scénarios de film-catastrophe.
C’est Giuliani lui-même qui décrit le réalisme de ces gigantesques jeux de rôles : “En général nous prenions des photos de ces exercices, d’où il ressortait que le résultat était tellement réaliste que ceux qui voyaient ces clichés nous demandaient quand ces événements s’étaient produits” (extrait du livre Leadership, page 355).
Parmi ces scénarios-cauchemars : des attentats au gaz sarin à Manhattan, des attaques à base d’anthrax, un camion piégé à l’explosif.

Le 11 mai 2001, 4 mois exactement avant les vrais attentats de New York, s’est déroulée dans cette même ville une simulation d’une attaque utilisant la peste bubonique. La mise en scène fut tellement réaliste que l’un des participants déclara qu’« après à peine 5 minutes d’immersion dans cette simulation, tout le monde avait oublié qu’il s’agissait d’un exercice.”

De l’adrénaline pure, dans l’émotion frénétique de ceux qui participaient.

Et pour ces exercices on ne lésine pas sur les moyens. Les agences, à commencer par la FEMA, sont sur place longtemps à l’avance et en repartent bien après le coeur de la simulation. Tout est fait comme si c’était vrai, avec des centaines de personnes à l’oeuvre, en uniforme ou en civil, et qui travaillent pour différentes agences. Les participants, à commencer par Giuliani, nous expliquent que la frontière entre réalité et fiction devient indiscernable, en termes de perception et de moyens mobilisés.

Le cas d’un avion utilisé intentionnellement comme missile n’a pas officiellement été testé lors des simulations de l’OEM. Mais au-delà du fait que cela était envisagé comme cas d’incident “non intentionnel”, des exercices ont quand même été organisés pour des secours consécutifs à un impact d’avion de ligne sur un gratte-ciel.

Un exercice, seulement théorique, a été mené à peine une semaine avant le 11/9, avec élaboration de plans de continuité pour les activités du district financier du World Trade Center.

Lorsque le scénario terroriste du 11/9 se révéla dans toute son horreur, il fut facile à Rudolph Giuliani de s’en remettre aux équipements de l’exercice qui avait entre-temps été préparé sous le nom de Tripod II, celui basé au quai Pier 92, et mentionné plus haut. Le quai se trouve à seulement 6 km au nord-nord-ouest du World Trade Center, et à cette occasion il avait été organisé au préalable pour abriter un centre tri dans lequel les victimes recevraient les premiers soins.

C’est Giuliani qui nous le rappelle lors de son témoignage devant la Commission d’enquête sur le 11/9: “La raison pour laquelle le centre Pier 92 a été choisi, est que le jour suivant, le 12 septembre, devait se dérouler un exercice de simulation. Des centaines de personnes se trouvaient là-bas, de la FEMA, du gouvernement fédéral, de l’état de New York, du Bureau de gestion des urgences, et tous s’apprêtaient à participer à une simulation d’attaque biologique. C’était donc l’endroit où devait avoir lieu l’exercice. Les équipements étaient déjà en place, et cela nous a permis d’y installer en quelques jours un centre de commandement trois fois grand comme celui du bâtiment 7 du WTC. Et c’est depuis là que s’est fait le reste du travail de recherche et de secours.

Nous avons évoqué le témoignage de Kurt Sonnenfeld, l’homme de la FEMA qui a confirmé, lui aussi, que son agence était déjà massivement présente sur place avant les attentats. Une catastrophe pour les mythographes casqués qui ont cherché à balayer de leur qualificatif de “conspirationniste” l’idée de l’arrivée anticipée de la FEMA. Ils ont chipoté sur les dates, puisque l’exercice devait commencer le 12 septembre et pas avant. Des centaines d’hommes déjà sur place depuis plusieurs jours: pour les mythographes, évidemment cela ne compte pas. Ils pensent donc qu’un méga-exercice comme Tripod II puisse se matérialiser en un instant, sans planification, sans logistique, sans agents de toutes sortes occupés depuis des jours à faire leur travail. Une hypothèse ridicule, contredite par un monceau de preuves, de déclarations et de témoignages. L’exercice pendant le 11 Septembre était une machine déjà en marche, et comment !
Évidemment, la mobilisation spécifique de la FEMA sur le lieu du désastre a nécessité des ordres de service après-coup.

Le cas de Tripod II devient d’autant plus significatif lorsqu’on remarque que c’était loin d’être un cas isolé.

La concomitance de tous ces exercices avec les vrais attentats, ceux du 11 septembre 2001 aux USA, comme ceux du 7 juillet 2005 au Royaume-Uni, ne peut pas être reléguée au rang de simple coïncidence. Il faudrait au moins approfondir, chose que les enquêtes officielles ont renoncé à faire. Combien savent que le matin du 11 Septembre, une agence de renseignements américaine, le NRO (National Reconnaissance Office), avait programmé un exercice au cours duquel un avion en perdition s’écrasait sur un de ses bâtiments ? Cette agence qui s’occupe de l’espionnage depuis l’espace dépend du Département de la Défense, et son personnel provient pour moitié de la CIA et pour l’autre moitié de la Défense. Au moment des événements – les vrais – il fut décidé d’interrompre l’exercice et de renvoyer chez eux les 3000 employés de l’agence de renseignements. Et l’effet le plus évident de cette évacuation des locaux de la NRO fut de rendre aveugle l’espionnage officiel précisément lorsqu’il aurait pu – et dû – contrôler les événements depuis l’espace. Qui donc est resté devant les écrans les plus importants de l’agence, à observer tout cela avec les yeux puissants des satellites ?

Et combien savent aussi qu’une partie significative des professionnels les plus qualifiés pour répondre aux attentats se trouvait à l’autre bout du pays, pour participer à un entrainement ? C’est le cas du Groupe mixte FBI/CIA d’intervention antiterroriste, déconnecté du scénario de ce jour-là, puisque distant de plusieurs milliers de km, occupé qu’il était par un exercice à Monterey (Californie). USA Today, dans son numéro du 11 septembre 2001, a raconté qu’”à la fin de la journée, à cause de la fermeture des aéroports dans tout le pays, le groupe d’intervention n’a pas pu trouver le moyen de retourner à Washington”. Avec pour résultat qu’au moment des attentats, la principale agence fédérale en charge de prévenir de tels crimes s’est trouvée décapitée. L’entrainement du groupe n’était pas seulement de nature théorique puisqu’il avait aussi concentré sur la côte californienne tous les hélicoptères et les véhicules légers dont elle disposait.

De nombreux éléments indiquent que les mandataires de ces attentats étaient parfaitement au courant de ces mouvements et qu’au moins une partie d’entre eux faisait partie intégrante de structures couvertes par les appareils d’État.

L’avantage d’une telle stratégie apparait tout à fait compréhensible et plausible, pour qui voudrait initier une véritable enquête sur des bases différentes des précédentes.

En premier lieu, il faut savoir que les militaires, les fonctionnaires ou les membres des Services secrets qui auraient en tête des actions subversives ne pourraient pas organiser des attentats sans se faire repérer. D’où la fonction première d’un exercice : il offre aux organisateurs la couverture idéale pour la mise en route de l’opération, et leur permet d’utiliser les fonctionnaires et les structures gouvernementales pour la mener à bien, tout en fournissant une réponse satisfaisante à toute question qui pourrait être posée sur des bizarreries ou des mouvements insolites de personnels. Pour que cela fonctionne, il faut nécessairement que le scénario de l’exercice se déroule sous couvert des vrais attentats.

En second lieu, si la date correspond avec celle de l’attentat, l’exercice permet de déployer légitimement sur le terrain des hommes portant l’uniforme de diverses agences de sécurité ou de secours. Placer parmi eux, sans éveiller les soupçons, ceux-là mêmes qui vont poser les bombes et coordonner les actions est chose relativement aisée.

En troisième lieu, le déroulement des exercices de simulation au même moment que les véritables attentats permet de veiller à la bonne exécution des réponses de la part des équipes – loyales – de sécurité et de secours, profitant de la confusion entre la réalité et la fiction. Les contradictions et la découverte de certains morceaux n’entament pas l’ensemble. Au contraire, elles aident à maquiller et à rendre la mosaïque incompréhensible. Le 11 Septembre – à un moment donné de la matinée – des dizaines d’avions détournés furent signalés, et des voix courraient annonçant d’autres attentats. Et donc, où envoyer les patrouilles ? Quels bâtiments protéger en premier ? On peut facilement imaginer le chaos que tout cela a pu déclencher dans le centre de commandement.

Les opérations de cette nature sont modulaires, et visent en même temps des objectifs interchangeables, qui sont autant de routes possibles vers le même résultat, toutes parcourues simultanément, et dont la régie, où qu’elle se trouve, n’a pas à choisir l’une ou l’autre des trames possibles, qui de toute façon avancent de concert.

Les personnes chargées d’exécuter seulement certains segments de l’opération, obéissent – souvent avec la plus totale bonne foi – a des ordres émanant de supérieurs hiérarchiques qui à leur tour n’en connaissent qu’un détail et non le plan dans son entier ni ses objectifs.

Tout ce que je décris ici fait partie de mécanismes utilisés lors d’actions des Services secrets, en particulier les opérations auxquelles participent les “bras de levier ” [1] et les opérations souterraines, et peut être démultiplié à l’occasion de grandes opérations terroristes servant de bases politiques à des guerres ou à de dramatiques changements de régime.

L’expérience italienne en matière de délits ayant eu un impact important – les affaires Mattei, Moro, et bien d’autres cas servant la “stratégie de la tension”, comme celui de Borselino – nous indique que derrière ces événements, on trouve la décision de petits groupes d’individus. Derrière chacun d’entre eux, on découvre que des hommes puissants agissaient au nom de calculs politiques et économiques bien précis. Dans certains cas, la couverture et le brouillage étaient préparés simultanément, pendant que des personnages appartenant à la mafia ou à des groupes terroristes s’exposaient en s’occupant utilement de la partie “action”. De nombreux épisodes qualifiés de “mafieux” ou de “terroristes” ont en fait une matrice bien différente. C’est là un type d’hypothèse d’investigation utilisé couramment, et souvent avec de bons résultats.

Cela peut s’appliquer aussi aux attentats du 11/9.

Face à la complexité d’un tel scénario, on oppose souvent le fameux “rasoir d’Occam”. Occam était un philosophe du moyen âge, et il disait dans son latin médiéval: « entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem ». Autrement dit, “inutile de multiplier plus que nécessaire les éléments”. Dans le langage du XXI siècle, on pourrait traduire par : “à égalité de facteurs, l’explication la plus simple est souvent la bonne”.

Et bien, oubliez Occam quand on parle de terrorisme. Dans le cas du 11/9, les éléments se sont multipliés, et comment ! Au-delà de toute nécessité envisageable par l’homme de la rue ou par la rédaction d’un journal.

Traduit de l’italien par GV

Références

1) Lire précédente ReOpenNews : "Nouvelles révélations sur les “corps séparés” des Services secrets : Les “bras de levier” de la stratégie de tension internationale" (sept 2009)


Note de ReopenNews : Lire aussi le remarquable livre de Webster Tarpley "La terreur fabriquée – Made in USA" documentant notamment les nombreux exercices militaires et de renseignement survenus le jour même du 11/9 aux États-Unis.
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Link originario italiano: Megachip.
Link en français: ReOpen911.info.
Link en castellano: Antimafiadosmil.com.

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ITA (qui), ESP (qui).

El caso de TRIPOD II y otros juegos de guerra del 11-S

de Pino Cabras - Megachip


Fueron numerosas las prácticas de dispositivos militares y de seguridad estadounidenses al amparo del 11 de septiembre de 2009, desarrolladas en cielo y tierra, en las bases militares y en la ciudad, en las sedes de los organismos de espionaje y de la seguridad, dentro y fuera de los rascacielos.

Entre estos estaba también la preparación del Tripod II, un simulacro de ataque terrorista organizado en vista del 12 de septiembre en la costa occidental de Manhattan.
Este simulacro ha implicado antes de esa fecha la instalación en un muelle del Río Hudson, el Pier 92, de un vasto centro de control y de comando configurado exactamente como la Office of Emergency Management (OEM), la que acabó destruída en el edificio 7 del World Trade Center.
La OEM había sido instituida en 1996, por el Alcalde de New York, Rudolph Giuliani, para organizar la respuesta de la ciudad a los acontecimientos catastróficos, incluidos eventuales atentados terroristas a gran escala.
En los cinco años que precedieron el 11/9 la OEM desarrolló regularmente prácticas que implicaban a todas las agencias: desde la protección civil, la FEMA, a los organismos de seguridad. Para cada una de las prácticas las instalaciones y los simulacros en sí, duraban en el complejo varias semanas. Fueron movilizados impresionantes medios, para escenarios muy realistas. Rudy Giuliani estuvo presente en muchas de esas prácticas militares que adiestraron la ciudad a escenografías de películas catastrofistas. Es el mismo Giuliani quien describe el realismo de estos gigantescos juegos de rol: “A menudo tomábamos fotografías de éstas prácticas y resultaban tan realistas que la gente que las veía llegaba a preguntar cuando se les mostraba las fotos si el evento se había verificado alguna vez” (del libro Leadership, pag. 355)
Entre los escenarios de pesadilla: atentados con el gas sarín en Manhattan, ataques a las bases con ántrax, camiones bomba.
El 11 de Mayo de 2001, exáctamente cuatro meses antes de los mega atentados de New York, hubo un simulacro de un ataque a la ciudad con la peste bubónica. El simulacro fue tan realista que uno de los participantes declaró que después de cinco minutos de estar inmersos en esa práctica todos habían olvidado que era un simulacro”.
Verdadera adrenalina, en el frenesí emotivo de quien lo está viviendo.
En estas prácticas no se escatiman los recursos. Las agencias, comenzando por la FEMA, permanecen en el campo antes y después del foco central de las prácticas. Todo es como si fuese verdadero, en medio de un centenar de personas, uniformadas y de civil, pertenecientes a distintos organismos, que estaban a la obra.
Los sujetos involucrados, comenzando por Giuliani, nos explican que el límite entre ficción y realidad resulta indistinguible, en términos de medios movilizados y de lo que se llega a percibir.
El escenario de aviones utilizados a propósito como misiles, no estaba contemplado oficialmente en los simulacros de la OEM. Pero más allá del hecho de que se elucubraron hipótesis de accidentes “no intencionales”, igualmente se desarrollaron prácticas que contemplaban intervenciones de socorro por consecuencias del impacto de aviones de línea en los rascacielos.
Una práctica, esta vez en teoría, se desarrolló apenas una semana antes del 11/9, con planes para la continuidad de las actividades desarrolladas en el distrito financiero del World Trade Center.
Cuando se manifestó en toda su horrenda grandiosidad, el escenario terrorista del 11/9, fue fácil para Rudolph Giuliani confiarse de las escenografías del otro atentado, que había sido preparado en el entretiempo, bajo el nombre de Tripod II, con base en el muelle citado anteriormente que se encuentra solo a 4 millas al noroeste del World Trade Center y en esa ocasión ya había sido predispuesto como un particular centro de atención en el cual las víctimas ficticias, serían puestas bajo primeros auxilios.
El mismo Giuliani lo ha recordado a la Comisión de investigación sobre el 11/9: “la razón por la cual fue elegido el Pier 92, fue porque para el día siguiente, 12 de septiembre, en el Pier 92 se debía desarrollar un simulacro. Allí se encontraron centenares de personas, del FEMA, del gobierno federal, del estado, de la State Emergency Management Office y todas se estaban preparando para un simulacro de un ataque bioquímico. Por lo tanto ese estaba por ser el lugar en el cual se pondría en marcha el desarrollo del simulacro. El equipamiento ya estaba allí, por lo cual logramos establecernos en un centro de comando en solo tres días, que resultaba ser dos veces y medio más grande que el centro de comando que perdimos en el edificio 7 del World Trade Center. Y fue de allí que el resto del trabajo de búsqueda y de socorro se completó.”
En otras ocasiones hemos hablado del testimonio de Kurt Sonenfeld, el hombre del FEMA que confirmó, también él, que su agencia ya estaba allí en actividad, antes de los atentados. Ábrete cielo. Los mitógrafos con el casco han intentado señalar con el habitual estigma de “conspiracioncitas”, la idea de la llegada anticipada del FEMA. Se encaramaron en las fechas, visto que el “drill” (prácticas militares), propio y verdadero debía comenzar el 12 de septiembre y no antes. Centenares de hombres, ya en el campo desde hacía días: para los mitógrafos evidéntemente no cuentan nada.
Por lo tanto consideran que una mega ejercitación como el Tripod II, pudiera materializarse de improviso, sin planificación, careciente de logística, sin la presencia de agentes de todo tipo, diseminados desde días anteriores, para desarrollar sus labores. Una hipótesis ridícula, enterrada por pruebas, declaraciones y testimonios.
Las prácticas durante el 11/9 fueron mucho más que una máquina puesta en marcha.
Obviamente la movilización específica del FEMA sobre el desastre ha tenido sus órdenes de servicio sucesivas.
El caso Tripod II se vuelve más significativo, cuanto más se nota que no era precísamente un caso aislado.
La concomitancia de muchos simulacros, con los verdaderos atentados, el 11/9 de 2001, en los Estados Unidos, como el 7 de julio de 2005 en el Reino Unido, no se puede relegar a la esfera de las meras coincidencias.
Habría por lo menos que profundizarla, lo cual las investigaciones oficiales han renunciado a hacer.
¿Cuántos saben que la mañana del 11 de septiembre una agencia de inteligencia de los Estados Unidos, la National Reconnaissance Office (NRO), había programado un simulacro durante el cual un avión perdido impactaba en uno de sus edificios? Esta agencia de inteligencia, que dirige el espionaje desde el espacio, depende del Departamento de Defensa y la mitad de su personal proviene de la CIA y la otra mitad de la Defensa. En correspondencia con los eventos, reales, se decidió interrumpir los simulacros y mandar a su casa a los tres mil empleados de la agencia. Ya que los locales del NRO fueron evacuados, el efecto más evidente fue el de obstaculizar el espionaje oficial cuando más necesidad había, en el momento en que se habría podido – y debido – controlar los eventos desde el espacio. ¿Entonces quién ha quedado frente a los monitores más importantes de la agencia, para ver las cosas bajo los potentes ojos de los satélites?
¿Y cuántos saben que una parte significativa de las figuras profesionales que habrían estado más capacitadas para responder en los atentados, se encontraban en adiestramiento en la otra punta del país? Es el caso del grupo mixto FBI/CIA de intervención antiterrorista, alejado del escenario de ese día, estando a miles de kilómetros de distancia, comprometido en una práctica de adiestramiento en Monterrey (California). “USA Today”, publicó el 11 de septiembre que “al final de la jornada, con el cierre de los aeropuertos en todo el país, el grupo de intervención no ha encontrado nunca el modo de regresar a Washington”. Con el resultado que al momento de los atentados, la principal agencia federal responsable de prevenir tales crímenes, fue decapitada. El adiestramiento del grupo no estaba solo presente en los papeles, porque también concentró en la costa californiana todos los helicópteros y vehículos y aeronaves ligeras, que tenían en dotación.
Muchos son los elementos que llevan a sostener que los mandantes de los atentados fueran muy conscientes de todos estos movimientos y que al menos algunos de ellos, fuesen parte integrante de estructuras encubiertas de los aparatos estatales.
La ventaja de una estrategia como esta resulta completamente incomprensible y plausible, si se desease dar inicio a una verdadera investigación sobre bases diferentes de las del pasado.
En primer lugar debemos considerar que militares, funcionarios gubernamentales o miembros de los servicios de inteligencia que tuviesen en mente acciones subversivas no podrían organizar atentados sin que les descubriesen. De ahí nace el motivo de una ejercitación que ofrece a los organizadores la cobertura idónea para poner en marcha la operación; les da la posibilidad de utilizar y de servirse de los funcionarios y de las estructuras gubernativas para realizarla y da una respuesta satisfactoria a cualquier pregunta que surgiese sobre anomalías o movimientos insólitos. Para que pueda funcionar, es claramente necesario que la escena del ejercicio, debe estar al lado del atentado proyectado.
En segundo lugar, si fuesen previstas en la fecha del atentado, las prácticas dan la posibilidad de distribuir legítimamente los hombres en el terreno, hombres vestidos con los uniformes de los servicios de seguridad o de primeros auxilios. Meter entre ellos aquellos que colocan las bombas o que coordinan los movimientos es relativamente fácil, sin que surjan sospechas.
En tercer lugar, el desarrollo de los ejercicios contemporáneamente con los verdaderos atentados desconcierta la respuesta a la altura de las circunstancias por parte de los servicios de seguridad o de auxilios leales debido a la confusión entre la realidad y la ficción. Las contradicciones y los descubrimientos de fragmentos individuales de los hechos no mellan el conjunto. Es más, ayudan a falsear y a volver incomprensible el mosaico. El 11 de septiembre –en un cierto momento por la mañana- decenas de aviones fueron señalados como secuestrados y circulaban voces de otros atentados. ¿Entonces a dónde había que enviar las patrullas? ¿Qué edificios había que proteger primero? Se puede imaginar el caos que todo esto ha podido suscitar en las salas de mando.
Las operaciones de esta naturaleza son modulares, miran a distintos objetivos copresentes al mismo tiempo e intercambiables, otros tantos caminos a disposición que lleven al mismo efecto y que se recorren simultáneamente hasta que el centro de coordinación, donde quiera que se encuentre, no elija una trama diferente entre las distintas tramas pre-concebidas que entretanto avanzan a la par.
Las personas encargadas de cumplir solo algunas partes de la operación obedecen –muchas veces en perfecta buena fe- a las órdenes de personalidades superiores a ellos que a su vez conocen solo un detalle, pero no toda la planificación ni sus objetivos.
Estoy describiendo mecanismos normálmente utilizados en acciones de los servicios secretos, que se exasperan cuando entran en acción “las manos largas y las operaciones de cobertura, hasta que se agiganta en ocasión de grandes operaciones terroristas usadas como base política para dramáticos vuelcos constitucionales y para las guerras.
La experiencia italiana de los delitos de gran impacto público –Mattei, Moro, varios casos de estrategia de la tensión, Borsellino- nos dice que detrás de ellos había decisiones de estrechos grupos de individuos. Detrás de cada uno de esos casos había potentados que actuaban en nombre de cálculos políticos y económicos precisos. En ciertas acciones se prepara simultáneamente la cobertura y el despiste, mientras personajes internos de la mafia o de grupos terroristas resultan ser segmentos de la acción muy útiles, muy expuestos. Varios episodios definidos mafiosos o terroristas tienen más bien otra matriz. Es un tipo de hipótesis investigativa que se adopta normálmente, a menudo con buenos resultados.
Se puede aplicar incluso en los hechos del 11/9.
Respecto a la complejidad de un escenario así, se invoca la llamada “cuchilla de Occam”. Occam era un filósofo medieval que decía en su latino “entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem”. Es decir “los elementos no hay que multiplicarlos más de lo necesario”. En términos del siglo XXI podemos traducirlo así: “con factores pares, la explicación más sencilla tiende a ser la más exacta”.
Bien, olvidaros de Occam cuando se habla de terrorismo. En el caso del 11/9 los elementos se han multiplicado y ¡cómo!, más allá de lo que el hombre de la calle o la redacción de cualquier periódico puedan pensar.


Link originario italiano: Megachip.
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21 settembre 2009

Intrigo internazionale e funghi atomici su Teheran. Alta tensione



di Giulietto Chiesa - da Megachip

E’ possibile che qualche cosa di molto importante sia accaduto e stia accadendo, “sotto il tappeto”, in preparazione e in connessione (forse per anticiparla e impedirla) con la clamorosa decisione di Obama di rinunciare al sistema missilistico in Europa (con radar nella Repubblica Ceca). Non solo decisione cruciale, ma soprattutto devastante per i piani israeliani.

La motivazione usata da Obama, infatti, si basa sulla valutazione congiunta delle agenzie americane, dei servizi segreti, che l’Iran non possiede, né potrà possedere in un futuro prevedibile, né l’arma atomica, né la capacità di costruire vettori capaci di portarla a destinazione negli Stati Uniti.

E’ noto che, al contrario, Israele considera questa eventualità non solo possibile ma ravvicinata e che è intenzionata a stroncarla, a qualunque costo, e in qualunque modo.

La scelta di Obama è dunque, al tempo stesso, una dura presa di distanza dalla leadership di Israele. Una svolta senza precedenti per gli Stati Uniti d’America. Questa è la premessa per inquadrare quanto qui racconterò sulla base delle informazioni disponibili e cercando di ripulirle dagl’inquinamenti di cui sono striate.

E non c’è da stupirsene perché la materia scotta, in tutti i sensi.

Forse c’entra anche, in tutto questo, la misteriosa storia della Arctic Sea, la nave battente bandiera maltese ma con equipaggio russo di 13 persone, sparita il 28 luglio scorso, assaltata da strani “pirati” al largo delle coste portoghesi, nell’Atlantico.

Ma partiamo dagli ultimi avvenimenti e cerchiamo di mettere a posto un difficile mosaico.

Il 14 settembre scorso tutti i media russi e il New York Times danno notizia di un gravissimo incidente nella base militare di Tambov, circa 400 chilometri a sud-est di Mosca. Citando la Reuters, che a sua volta citava l’agenzia Ria-Novosti, che a sua volta citava una fonte di alto livello dei servizi segreti russi, il New York Times informa che “cruciali documenti segreti possono essere stati distrutti dal fuoco” in un incidente in cui hanno perso la vita ben cinque ufficiali di guardia. L’edificio appartiene “ai servizi segreti” e ospitava “documenti segreti di speciale importanza” per la sicurezza nazionale della Russia. “L’incendio – proseguiva il dispaccio della Reuters – ha seriamente colpito la zona segreta dell’edificio”, investendo “circa 400 metri quadri”. Il vice ministro della difesa, colonnello-generale Aleksander Kolmakov, accorre sul posto insieme ad alti ufficiali dei servizi segreti. Il tutto sarebbe accaduto alle 10 del mattino del giorno precedente, domenica 13 settembre.

Qui finiscono le notizie ufficiali e cominciano quelle ufficiose. Ma interessanti anche dopo essere state depurate. C’è un sito sul web , abbastanza noto, che dispone di discreti e provati contatti con fonti russe che vogliono far sapere “altro”. Si chiama

http://www.whatdoesitmean.com/index1275.htm e ospita spesso analisi firmate con nome femminile, Sorcha Faal. Non so chi sia, ma dal contesto e dal contenuto si possono dire due cose: c’è del vero in quello che dice, anche se l’insieme va preso con cautela.

Da questa analisi emergono cose sconcertanti. L’incendio non sarebbe stato un incidente. Si sarebbe trattato di un attacco di commandos contro “i bunker che ospitano la Direzione Generale dell’Intelligence russa”. Quali commandos? Non viene detto, ma si capisce che si tratta di un lavoro di alta specializzazione. Uno o più gruppi armati che , “in meno di 15 minuti” sarebbero stati in grado di “ penetrare nel perimetro di sicurezza, disattivare i sistemi antincendio e attaccare il bunker dei documenti con armi incendiarie”.

Sorgono molte domande. Chi ha inviato i commandos? Erano russi? E, se non erano russi, come potevano essere arrivati nel cuore della Russia, percorrendo – si presume in volo – diverse centinaia di chilometri senza essere rilevati e contrastati? In Russia tutto è possibile, ma neanche in Russia si fanno miracoli.

Esiste un nesso tra questo episodio e altri eventi occorsi nelle ultime settimane? Forse si può tentare di collegarne alcuni. Facciamo un salto indietro di qualche giorno. L’8 settembre il Jerusalem Post scrive che il premier Netanyahu è sparito verso destinazione ignota. Il 9 un altro giornale israeliano precisa una notizia sensazionale: Netanyahu è volato segretamente a Mosca a bordo di un aereo privato. Perché? Come? Il sito sopra citato fornisce importanti dettagli che sembrano derivare da una fonte dei servizi segreti russi. Seguiamo il racconto di Sorcha Faal.

Netanyahu si sarebbe precipitato a Mosca, senza neppure preavvertire il governo russo, per chiedere “l’immediata restituzione” di “tutti i documenti, dell’equipaggiamento e degli agenti del Mossad catturati dai commando russi e americani” che avevano ripreso il controllo della Arctic Sea dopo che un commando composto da israeliani e agenti fuori controllo (“rogue agents”, dice Sorcha Faal) della CIA aveva assaltato la nave, impadronendosene per diverse ore, forse giorni. Qui le domande si affollano. E anche i dubbi.

Ma non è, assai probabilmente, un’invenzione peregrina. La fonte dell’FSB che racconta la vicenda aggiunge particolari straordinariamente interessanti e anche molto precisi. Nella Direzione Generale dell’FSB di Tambov vi sarebbero stati “tutti i files operativi” compilati dall’FSB, il servizio segreto russo, concernenti la famosa Blackwater, la corporation privata cui Bush e Cheney affidarono importanti incarichi di sicurezza in Irak e non soltanto, e cui la Cia (come risulta ora dall’inchiesta aperta negli Stati Uniti), commissionò l’incarico degli assassini mirati per liquidare i leader e i militanti di rilievo di Al Qaeda. Che i servizi segreti russi tenessero e tengano sotto osservazione questa attività è del tutto logico. Sarebbe illogico pensare il contrario. Resta da capire cosa e come possano avere scoperto. Ma cosa c’entra Netanyahu?

Torniamo dunque al suo viaggio segreto a Mosca. Il 10 settembre, nel pomeriggio, insieme agli altri membri del club di discussione Valdai, di cui faccio parte, incontro il ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov. Mosca è piena di voci su quel viaggio e la domanda è inevitabile. Lavrov non conferma ma nemmeno smentisce. E ovviamente non dice chi ha incontrato Netanyahu e perché. Ma dichiara che Mosca non ha violato nessuna delle regole internazionali del commercio di armi e che ha fornito all’Iran, in passato, solo “armi rigorosamente difensive”. Nel frattempo fonti israeliane, subito riprese da diversi giornali occidentali e anche russi, diffondono l’informazione secondo cui, a bordo della Arctic Sea ci sarebbe stato non un carico di legnami preziosi, ma un carico di missili S-300 destinati all’Iran. Gli S-300 sono missili anti-missile, cioè arma difensiva.

Notizia strana. La Russia avrebbe mandato in giro, lungo una rotta lunghissima (dall’Oceano Artico, nell’Atlantico, via la Manica, fino alle Canarie, ma per andare dove?), un carico delicatissimo, esponendo la sua merce a ogni rischio (come poi sarebbe avvenuto), senza poterla tenere sotto controllo. Basta guardare le carte geografiche per capire che Mosca può inviare in Iran ciò che vuole attraverso il Mar Caspio, su cui si affacciano i suoi porti e quelli iraniani. Dunque notizia improbabile. Sicuramente il carico della Arctic Sea era molto importante, ma non era quello che dicono gli israeliani. E non era diretto all’Iran ma – ecco la novità di Sorcha Faal -“agli Stati Uniti”.

Ecco perché all’operazione di ricupero della Arctic Sea avrebbero preso parte anche gli Stati Uniti, con uomini e, soprattutto, informazioni sulla localizzazione della nave.

Secondo la ricostruzione citata la Marina Militare russa, con il concorso di unità della marina finlandese e dei servizi americani, avrebbe prelevato tre missili, dotati di testata nucleare, dopo averli recuperati dal relitto del Kursk, il sommergibile nucleare affondato nel 2001 in circostanze misteriose nell’Artico. Tragedia nella quale persero la vita 118 marinai e ufficiali russi. All’epoca i russi avevano incaricato del recupero dei cadaveri del Kursk due compagnie danesi, la Mammoet e la Smit International, ma senza il permesso di toccare i missili. Si trattava di missili nucleari tattici P-700 Granit, in grado di affondare navi di grandi dimensioni, per esempio portaerei.

Secondo fonti della intelligence militare russa, il GRU, i missili sarebbero stati caricati sulla Arctic Sea, e diretti verso gli Stati Uniti per essere affidati alla US Nuclear Security Administration che ne doveva curare lo smantellamento nell’impianto Pantex, in Texas. Il tutto in base agli accordi di disarmo dello START 2.

La Arctic Sea, con un carico ben più importante del legname, viene attaccata da “commandos non identificati” . Ovvio che non si tratta di comuni pirati. Qui ci sono in campo servizi segreti potenti, in grado di mettersi di traverso niente meno che a un’operazione congiunta russo-americana. Mosca reagisce con veemenza inusitata. Il comandante in capo della Marina, Vladimirr Visotskij dichiara pubblicamente che “tutte le navi e i natanti della marina russa nell’Atlantico sono stati inviati alla ricerca della nave sparita”. Il 18 agosto il ministro della difesa russo, Anatolij Serdiukov annuncia che le forze navali russe, “in cooperazione con il Comando Spaziale della Marina USA” hanno “ripreso possesso” della Arctic Sea. Fonti anonime dei servizi russi parlano di “terroristi della CIA con falsi passaporti estoni, lettoni, e russi. C’è un’altra fonte, non anonima, russa, che racconta altre cose. Si tratta di Mikhail Voitenko, direttore di una rivista specializzata in incidenti marittimi, la Sovfracht, il quale fa sapere che la Arctic Sea non era una qualunque nave da trasporto, ma era dotata dei più moderni mezzi di localizzazione e di comunicazione. Per giunta, al momento dell’assalto dei “pirati”, la nave si sarebbe trovata in acque dove “perfino i cellulari funzionavano”. Perché non ci fu allarme subito? Il mistero s’infittisce. Mikhail Voitenko, dopo avere troppo parlato, scappa in Turchia e dichiara di essere sotto grave minaccia di vita.

Qui dobbiamo tornare a Netanyahu perché il sito sopra citato mette direttamente in relazione i servizi segreti israeliani con la vicenda della Arctic Sea. Vediamo come. Fonti questa volta del ministero degli esteri russo rivelano che l’aereo privato su cui viaggiava Netanyahu aveva un piano di volo che prevedeva l’atterraggio a Tbilisi, Georgia ma che (l’episodio deve essere avvenuto tra l’8 e il 9 settembre) all’improvviso, in vicinanza dello spazio aereo russo, il pilota chiede “urgentemente” di poter atterrare a Mosca, specificando che ha a bordo il primo ministro israeliano Netanyahu. Il permesso è accordato e l’aereo atterra nella base militare di Kubinka, non lontano dalla capitale.

Sempre stando al racconto di Sorcha Faal, all’aeroporto di Kubinka arriva in tutta fretta il presidente russo Dmitrij Medvedev, che incontra non solo un Netanyahu furibondo ma un’intera delegazione israeliana, composta dal generale Meir Kalifi, ministro per gli Affari Militari e Uzi Arad, consigliere per la Sicurezza Nazionale d’Israele. La richiesta, perentoria, a Medvedev è “un’immediata restituzione di tutti i documenti, dell’equipaggiamento e degli agenti del Mossad” catturati dai russi e dagli americani a bordo della Arctic Sea. A quanto pare Medvedev, già irritato per il mancato preavviso, per la insolita procedura, e per i toni degli ospiti, replica che “l’investigazione è in corso” e che “la Russia non è pronta a dare alcuna prova a nessuno”. Con ogni probabilità si è parlato anche d’altro e qui il racconto diventa del tutto inverificabile. Uno degli argomenti in questione, per altro probabilmente, sarebbe stata una richiesta di chiarimento circa le armi che la Russia starebbe fornendo all’Iran. Il tutto in connessione con un possibile attacco israeliano sulle installazioni nucleari iraniane. Sorcha Faal mette tra virgolette frasi di Netanyahu di incredibile gravità, del tipo che “la Russia dovrebbe pararsi il sedere” e non essere sorpresa quando “nubi a forma di fungo cominceranno ad apparire sopra Teheran”.

La reazione di Medvedev non viene riferita. Ma sia Medvedev che Putin in quei giorni, anche negl’incontri con i membri del Club Valdai, hanno ripetutamente ribadito l’inaccettabilità di ogni azione di forza contro l’Iran e la necessità di uno sviluppo della via negoziale.

Non sarà inutile qui ricordare chi era uno dei due accompagnatori di Netanyahu a Mosca, Uri Arad. L’attuale Segretario alla Sicurezza Nazionale di Israele è persona non grata negli Stati Uniti. Lo è da quando risultò, nel 2006, che era direttamente implicato nel cosiddetto AIPAC Espionage Scandal (AIPAC sta per American Israeli Public Affair Committee). In quel processo, largamente coperto dalla stampa americana, emerse che importanti documenti della politica americana verso l’Iran venivano passati a Israele, attraverso l’AIPAC e personalmente Uri Arad, da un funzionario del Dipartimento della Difesa, Lawrence Franklin. Questi fu condannato a 13 anni per spionaggio a favore di uno stato straniero; condanna poi tramutata in 10 mesi di arresti domiciliari. Ebbene, viene riferito che Uri Arad fu protagonista di uno scandalo aggiuntivo quando Hillary Clinton incontrò Netanyahu a Gerusalemme. Hillary e i suoi consiglieri furono sconcertati di vedere Arad al fianco di Netanyahu e, per evitare un incidente diplomatico, proposero che all’incontro assistessero solo tre persone per parte. Netanyahu non fece una piega e chiese all’ambasciatore israeliano a Washington, Sallai Meridor, di allontanarsi, e tenne con sé Uri Arad. Meridor si dimise qualche giorno dopo e un portavoce di Netanyahu spiegò in seguito che la presenza di Arad era “indispensabile per la questione iraniana”. Quanto fosse indispensabile lo dimostra la posizione di Arad in materia: “massima deterrenza”, nel senso che Israele “deve minacciare e colpire ogni e qualsiasi cosa abbia importanza in merito”, a cominciare “dai leader” per finire “ai luoghi sacri”.

(Editoriale di Paul Woodward, 18 marzo 2009. http://warincontext.org/2009/03/18/editorial-we-want-the-land-not-the-people).

Cosa ci sia di vero nelle rivelazioni (guidate dai servizi segreti militari russi) secondo cui tra i files distrutti a Tambov c’erano anche quelli che “confermavano” le accuse contro i servizi segreti USA e israeliani, formulate dal generale Mirza Aslam Beg, ex capo di stato maggiore dell’esercito pakistano, secondo cui “mercenari privati” della Blackwater (ora rinominata Xe) sarebbero stati “gli organizzatori degli attentati contro l’ex primo ministro libanese Rafik Hariri e contro Benazir Bhutto”.

In ogni caso, concludendo, si può dire con certezza che il viaggio di Netanyahu a Mosca c’è stato. E che una cosa del genere si fa soltanto se sono in gioco eventi drammatici.

Si capisce che Netanyhau aveva una gran fretta, una settimana prima che Obama annunciasse che l’Iran non costituisce, al momento, una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti. Resta da capire qual’era lo scopo dell’assalto alla Arctic Sea e come mai i servizi segreti israeliani si sono esposti così apertamente in una operazione ostile nei confronti di Stati Uniti e Russia. E resta, ovviamente, da investigare l’assalto (se di assalto si è trattato) alla base segreta russa di Tambov, solo cinque giorni dopo il burrascoso incontro di Kubinka.

Fonte: Megachip, QUI.


17 settembre 2009

Via da Kabul, dove è sempre strage

di Pino Cabras – da Megachip.

L'inutile guerra afghana in un solo colpo ha ucciso sei italiani. Non siamo abituati a fare i conti con questi prezzi, e perciò la notizia per giorni occuperà le prime pagine. Potrebbe occupare assai meno spazio togliendo le tante cose inutili: la retorica, il cordoglio stereotipato, fino alle analisi sbagliate di questo o quell'esponente del Governo e del Partito Democratico.

Ci sarà invece poco spazio per l'unica riflessione che ora conta: come andarsene?

La notizia della strage di Kabul ha raggiunto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel corso della sua visita ufficiale in Giappone. Probabile che interromperà il viaggio per rendere onore ai caduti con un solenne funerale di Stato. Tutti si aspettano questo da lui, che di suo non è tipo da sottrarsi ai rituali di un mondo politico che piange molto ma pensa poco. Sarebbe un atto coraggioso se invece continuasse la visita a Tokyo. Lì si è appena insediato il nuovo governo, formato per la prima volta da un partito, il Partito Democratico (quello giapponese, che è un'altra cosa), il quale da tempo pone l'urgenza di cambiare totalmente approccio alla guerra afghana, persino a partire dalla sua giustificazione originaria, gli attentati dell'11 settembre 2001, le cui versioni ufficiali sono messe in dubbio dai suoi massimi esponenti. Un coraggio che dalle nostre parti non si è meritato neanche un trafiletto.

E così continua l'immane spreco, di vite, di risorse, di prospettive. Recentemente, su «Asia Times», il giornalista d'inchiesta Pepe Escobar ha fatto un'analisi spietata sulle prospettive della guerra in Afghanistan: «dal novembre del 2001 al dicembre del 2008 l'amministrazione Bush ha bruciato 179 miliardi in Afghanistan, la NATO 102 miliardi. L'ex capo della NATO Jaap de Hoop Scheffer disse che l'Occidente avrebbe mantenuto le proprie truppe in Asia Centrale per 25 anni. Il capo di Stato maggiore britannico, Generale David Richards, lo corresse: gli anni sarebbero stati 40. Potete contare sul fatto che nel 2050 i taliban – “cattivi”, in forma e immuni al surriscaldamento globale – combatteranno ancora contro Enduring Freedom.»

Non sappiamo se la guerra durerà sino ad allora, anche perché ignoriamo se sarà considerato ancora sostenibile continuarla.

Il generale Stanley McChrystal chiede altri 45mila soldati statunitensi da aggiungere ad altri 52mila americani, e ai 68mila mercenari presenti da marzo 2009. Non stiamo includendo nel conto decine di migliaia di soldati NATO. Una simile strategia implica che in breve tempo saranno impantanati in Afghanistan più americani di quanti fossero i sovietici nel pieno dell'occupazione di quel paese oltre vent'anni fa. Tra le promesse facili di Berlusconi ora abbiamo il suo sonoro «yes» a Barack Obama, quando questi gli ha chiesto di raddoppiare il contingente italiano, dopo otto anni di una “Guerra al Terrore” che finanche la maggioranza dei cittadini americani considera praticamente senza sbocchi, cioè persa.

Una strage, Kabul come Nassiriya, sveglierà invece la retorica, le piazze da intitolare ai “nostri martiri”, in un'ottica tutta provinciale che non coglie che, da quelle parti, di Nassirya ne succedono quattro al giorno. Servirà una grande operazione di verità sulla missione in Afghanistan. Una missione di guerra, che nessuno sforzo orwelliano né la trita ampollosità di Napolitano può più mascherare – ancora oggi - come una «missione internazionale per la pace e la stabilità».


16 settembre 2009

11/9: La verità avanza, nonostante tutto

di Giulietto Chiesa - Megachip.

Sono trascorsi 8 anni da quel tragico 2001 e ancora non conosciamo la verità su quello che accadde l’11 settembre. Invero sappiamo sempre di più, ma per conto nostro, tutti quelli che caparbiamente insistono per cercare la verità, mentre il mainstream continua a tacere, seppure le crepe nel muro del silenzio aumentino.

Chi, come noi, dubitò fin dall’inizio sulle versioni che via via vennero fornite al pubblico dalle autorità americane fu immediatamente bollato come “complottista” (ed è stato questo, in questi anni, l’epiteto più gentile) e, naturalmente, “antiamericano” Cioè furono definiti complottisti quelli che cercavano di smascherare il complotto, non quelli che lo costruirono. Per quanto concerne l’antiamericanismo, si tratta del solito trucco - tecnicamente diversion - di far guardare il dito che indica la Luna invece della Luna.

Eppure i nostri dubbi (parlo al plurale perché sono dubbi condivisi, stando ai sondaggi, dal 53% degli stessi americani) non solo non sono stati dissipati, ma sono col tempo diventati una serie di certezze, mentre altri dubbi, e interrogativi, sono emersi in gran numero su cose che prima non sapevamo, non avevamo visto, non sospettavamo neppure che esistessero. Questo grazie al fatto che in tutto il mondo esistono dei punti di rilevazione, di analisi e raccolta dati, che continuano incessantemente a funzionare e a comunicare ciò che scoprono.

Non intendo qui ripercorrere tutte le analisi che noi (i creatori del Film “Zero”, gli autori del libro “Zero” insieme a migliaia di altri) abbiamo promosso e realizzato. So bene che attorno ad essere vi sono state e vi sono accese discussioni e che piccoli drappelli di più o meno sprovveduti e interessati debunkers sono operativi nel tentativo, spesso maldestro - quasi sempre con intenti calunniatori e non di verità – di contestarle.

Ma io voglio fare riferimento ai dati nuovi che sono emersi dopo il lavoro della Commissione che fu istituita con legge speciale alla fine del 2002 (vincendo l’aspra resistenza della Casa Bianca di Bush, Cheney, Rumsfeld, Rice) e che emise il suo ridicolo e al tempo stesso gravissimo verdetto – adesso lo sappiamo con assoluta certezza – alla fine dell’estate del 2004.

Mi riferisco soprattutto a tre libri, tutti e tre usciti negli Stati Uniti, ad opera di autori americani, in due dei tre casi protagonisti personalmente, nel terzo caso di un osservatore qualificato e tanto “imparziale” da sfiorare in più punti la soglia dell’ingenuità, se non del ridicolo. E tuttavia molto bene documentato per quanto concerne i fatti reali. Cioè, proprio per la sua apparentemente candida decisione di non concedersi nemmeno le più ovvie e inevitabili deduzioni, straordinariamente interessante e rivelatore.

Parlo – a proposito di questo terzo autore – del volume di oltre 500 pagine (edizione italiana) scritto da Philip Shenon, uscito nel 2008 e rimasto per settimane in testa alle classifiche di vendita negli Stati Uniti con il titolo “The Commission”. Shenon è corrispondente del «New York Times», è considerato uno dei più autorevoli reporter investigativi statunitensi, e non ha certo scritto quello che ha scritto senza consultarsi con il suo giornale e con il suo editore, dai quali aveva ricevuto l’incarico di seguire, passo passo, il lavoro della Commissione. Dunque Philip Shenon esprime l’opinione e i sentimenti di una parte non secondaria dell’establishment e del giornalismo americano.

Quanto sia pesante il contenuto di ciò che scrive lo dice il titolo che l’autore ha consentito venisse dato all’edizione italiana (Piemme, Milano 2009): “OMISSIS - Tutto quello che non hanno voluto farci sapere sull’11 settembre”. Ma tornerò su alcune “rivelazioni” più avanti. Non senza avere rilevato (ecco perché ho messo le virgolette) che si tratta di un riconoscimento tardivo e reticente di molte cose che noi avevamo rivelato, senza virgolette, assai prima di Shenon. E quando dico “noi” dico i moltissimi, in Italia, ma soprattutto negli Stati Uniti, che ci hanno preceduto e accompagnato in questi anni nella ricerca della verità sull’11 settembre.

Gli altri due libri citati sono “Against all Enemies” (2002) di Richard Clarke, colui che guidò l’intera materia della caccia a bin Laden, con Clinton, fino ai primi mesi di Bush Junior, il coordinatore della lotta al terrorismo e che fu seccamente liquidato da Condoleeza Rice appena arrivata al potere. E “Without Precedent” (2006), i cui autori sono niente meno che Kean e Hamilton, i due presidenti della Commissione che produsse il definitivo (e, ripeto, sbalorditivo) rapporto finale della Commissione, il “9/11 Commission Report” (Da ora in avanti Report). Di questi due ultimi volumi, solo il libro di Clarke è uscito in edizione italiana.

Ebbene, è proprio Hamilton, democratico, che denuncia ora, a misfatto compiuto, come la Commissione sia stata fuorviata da “informazioni non attendibili”, e sia stata impedita nell’accesso a documenti essenziali all’indagine, inclusi i verbali degl’interrogatori di Khaled Sheikh Mohammed (KSM). Scrive Hamilton: “Noi (…) non avemmo alcun modo di valutare la credibilità dell’informazione del detenuto. Come potevamo affermare se un tale di nome Khaled Sheikh Mohammed (…) ci stava dicendo la verità?” (“Without Precedent”, pag 119). Adesso, nel 2009, sappiamo che quella confessione fu estorta con la tortura e dunque che essa non ha alcuna validità, di fronte a nessun tribunale, nemmeno di fronte a un tribunale militare americano.

Ma anche nella sua palese invalidità di principio, quella confessione contiene una presunta “verità” alla quale gl’inquirenti della CIA hanno detto di credere (e non stupisce visto che, con ogni probabilità, essi stessi l’hanno inventata, estorcendola con la tortura all’inquisito). Questa verità contraddice platealmente l’attribuzione della paternità degli attentati dell’11 settembre a Osama bin Laden, visto che KSM confessa la paternità di questa e di una trentina di altre operazioni terroristiche in ogni parte del mondo, fino alla famosa “Operazione Bojinka”. Nello stesso tempo Osama, il most wanted terrorist non è accusato dall’FBI per gli attentati dell’11 settembre ma solo di quelli delle due ambasciate americane in Africa, del 1998. E, in ogni caso, nessun procedimento penale è mai stato aperto nei suoi confronti. E sono passati undici anni!

Eppure, nonostante questa massa di incongruenze, il Rapporto lo indica come il responsabile dell’11 settembre. Hamilton, nel suo libro, tace completamente sull’intera questione. Sulla quale il deputato democratico giapponese, Yukihisa Fujita gli ha inviato una lettera con esplicite domande (che qui verranno tra poco richiamate) su questa e altre faccende concernenti incongruenze e omissioni contenute nel Rapporto, ma non ha ricevuto alcuna risposta. Mentre altre, molte domande rimangono aperte a minare alla radice tutta l’inchiesta.

Tra queste il ruolo giocato dal Direttore Esecutivo della Commissione, Philip Zelikow. L’elenco delle malefatte provate di Zelikow è opera di Philip Shenon ed è davvero impressionante. Shenon non ha inventato niente; ha intervistato «quasi due terzi degli 80 membri dello staff» della Commissione e ha raccolto «le dichiarazioni di quasi tutti i dieci commissari». Otto per la precisione perchè due di loro, i repubblicani Fred Fielding e James Thompson, rifiutarono di farsi intervistare. Shenon spiega anche perché «in qualsiasi rapporto sul lavoro del governo, soprattutto per quanto riguarda i servizi segreti e le informazioni classificate, è quasi sempre necessario ricorrere a fonti che non possono essere identificate per nome». Esse infatti «avevano ottime ragioni perché i loro nomi non comparissero. Dopo che la Commissione chiuse i suoi battenti nell’agosto 2004, molti membri dello staff ripresero i rispettivi lavori alla CIA, al Pentagono, o nelle agenzie governative e avrebbero rischiato di perdere il posto, o addirittura di finire sotto processo, se si fosse scoperto che avevano parlato con un giornalista».

Con ciò, sia detto per inciso, facendo giustizia della domanda più sciocca con cui spesso mi è toccato di scontrarmi: «Come è possibile che nessuno (dei tantissimi che hanno preso parte all’operazione) abbia parlato?», poiché l’operazione di insabbiamento e falsificazione è sempre parte integrante dell’insieme , come in tutte le operazioni di terrorismo di Stato, possiamo affermare che la risposta corretta nega la domanda. Infatti c’è un sacco di gente che “ha parlato”, eccome ha parlato! E ci sono stati decine di testimoni che hanno parlato, ma sono stati cancellati. E altre decine di testimoni a conoscenza dei fatti non hanno potuto parlare perché qualcuno ha deciso di non ascoltarli. Così il grande pubblico non ha saputo nulla perché molto è stato eliminato dal pubblico discorso prima ancora di venire pronunciato , ma anche perché attorno alle dichiarazioni di coloro che, accidentalmente, hanno potuto parlare, è stato innalzato un muro di silenzio, che il mainstream informativo ha rispettato scrupolosamente.

Torniamo dunque all’ingegnere esecutivo di questa altamente sofisticata operazione di diversione e d’inganno: il già citato Philip Zelikow. Il quale fu nominato alla guida della Commissione in chiara violazione della legge che la istituiva, che escludeva categoricamente tutti coloro che avessero avuto conflitti d’interesse, cioè che potessero essere in qualche modo collegati con l’Amministrazione di Washington. È evidente, già da questo dettaglio che la Commissione avrebbe dovuto indagare in quella direzione. Ma non indagò e, per quel poco, lo fece proteggendo coloro che avrebbero dovuto essere obbligati a dare le informazioni essenziali e non le diedero.

Zelikow aveva un mare di conflitti d’interesse.

Da Shenon veniamo a sapere che Zelikow non rivelò, o nascose:

a) I suoi stretti rapporti, precedenti e in atto, con Condoleeza Rice (scrissero perfino un libro insieme).

b) La sua partecipazione come consigliere della Rice nella transizione al nuovo Consiglio per la Sicurezza Nazionale.

c) Di essere l’autore – sempre su incarico della Rice – del documento del 2002 che tracciò le linee della nuova Strategia della Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti, includendovi l’idea dell’attacco preventivo e che fu usato da Bush per giustificare la guerra contro l’Iraq.

d) Che non cessò mai – sebbene avesse promesso di farlo – i suoi contatti con la Casa Bianca. Ci sono le prove (Shenon, “The Commission”, pagg. 106-107; 173-174) che continuò a consultarsi con Condoleeza Rice e con Karl Rove, principale aiutante di Dick Cheney.

Da Hamilton sappiamo anche (“Without Precedent, pag 270) che Zelikow

a) Aveva già scritto per conto proprio uno schema del Rapporto, prima ancora che la Commissione cominciasse i suoi lavori, mentre sappiamo da Shenon (pag 389) che

b) questo schema era molto dettagliato con “titoli dei capitoli, sottotitoli e sotto-sottotitoli” e che l’esistenza di questo schema fu tenuta segreta perfino allo staff della Commissione, per non parlare dei dieci commissari che furono tenuti all’oscuro di tutto.

Sappiamo ancora da Hamilton (pag 281) che

a) era Zelikow a decidere cosa si doveva e cosa non si doveva investigare, mentre da Shenon sappiamo che

b) Zelikow riscrisse personalmente tutti i capitoli «dall’inizio alla fine».

Sulla base di tutto questo, e di molto altro che qui non possiamo riassumere, Shenon si permette uno dei rari momenti in cui esprime un giudizio riassuntivo personale: Zelikow «era una talpa della Casa Bianca, che passava informazioni all’Amministrazione sulle scoperte della Commissione». E che «si servì della Commissione per promuovere la guerra contro l’Iraq».

Sempre da Shenon veniamo a sapere che «lo staff della Commissione sapeva che la Rice aveva mentito (…) per quasi un anno sul contenuto» del PDB (Presidential Daily Briefing) del 6 agosto 2001 dove la CIA annunciava a breve un attacco terroristico in tutto e per quasi tutto simile a quello che sarebbe avvenuto un mese dopo.

Alla luce di tutto questo, e di molto altro come vedremo tra poco, resta il mistero di come sia possibile che qualcuno ancora creda alla sincerità del Rapporto. Senza dimenticare, per altro, che sia Kean che Hamilton, a loro volta, come ben risulta dall’indagine di Shenon, erano responsabili di avere affidato a Philip Zelikow il controllo totale delle indagini ed essi stessi abbiano dimostrato, con i loro comportamenti pratici, con i loro voti, con le loro omissioni, di essere in combutta con la Casa Bianca.

Basti pensare che nessun mandato formale di comparizione fu spiccato fino al 14 ottobre 2003 (cioè i due presidenti si erano messi d’accordo con Zelikow e la Casa Bianca, che non avrebbero disturbato nessuno costringendolo a testimoniare e a fornire documenti essenziali all’indagine). Basti ricordare che nessuno dei più alti responsabili dell’Amministrazione fu sentito sotto giuramento; che Kean e Hamilton accettarono sistematicamente i limiti che Bush e Cheney, tramite Zelikow e l’attorney general Gonzales, ponevano al rilascio dei documenti essenziali. Nessuno stupore, dunque se il Comitato dei familiari delle vittime conclude (Shenon, pag 283 edizione italiana) che «la commissione ha seriamente compromesso la possibilità di condurre un’indagine indipendente, completa e libera».

Ma ancora non è tutto. Hamilton (pag 261) scrive che ufficiali del NORAD in «pubbliche udienze» della Commissione «diedero una descrizione falsa dell’11/9», che «confinava con l’intenzione di voler ingannare». Si noti la delicatezza di quel “confinava”.

In realtà risulta dagli atti e dall’analisi che il NORAD mentì platealmente alla Commissione dopo averle nascosto, per mesi e mesi, le registrazioni di cui disponeva e che erano assolutamente essenziali per capire la dinamica degli avvenimenti.

Inoltre si aggiunga (Shenon, pag. 205) che Zelikow, oltre alle altre evidenti operazioni di copertura e distorsione già sottolineate, era stretto amico di Steven Cambone, a sua volta «l’aiutante più vicino a Donald Rumsfeld». Nonostante tutto questo la Commissione, segnatamente i due presidenti Kean e Hamilton, non fa una piega e accetta i nastri del NORAD che scagionano il Pentagono (perché da essi risulterebbe che la Difesa non era stata informata per tempo dalla Federal Aviation Administration) senza neppure porsi la questione se quei nastri potessero essere stati falsificati. Ingenuità o complicita?

La lista delle menzogne, dimostrate tali dai documenti ma accettate come fatti dalla Commissione e finite direttamente nel Rapporto scritto da Zelikow e firmato da Kean e Hamilton, è lunga e dettagliata. Una di queste riguarda i movimenti di Donald Rumsfeld quella mattina. Secondo Richard Clarke, Rumsfeld stava partecipando, di persona, a una video conferenza alla Casa Bianca che era cominciata alle 9:15 circa. Il rapporto dice invece che, in quei minuti, Rumsfeld era nel suo ufficio e andò alla Casa Bianca solo dopo le 10:00. Il Rapporto ignora la versione di Clark, sebbene il suo libro, “Against all Enemies”, fosse già in vendita dal 2002. Cioè Zelikow non crede a Richard Clarke. Ma rifiuta di esaminare le registrazioni di quella video conferenza, che avrebbero dimostrato qual era la verità. Tutto inspiegabile, o spiegabile solo con la volontà di coprire i comportamenti del segretario alla Difesa.

La stessa cosa avviene con la descrizione del Rapporto circa i movimenti del generale Richard Myers, che comandava la difesa aerea degli Stati Uniti in quelle ore. Clarke è precisissimo in merito (pagg. 4-5 del suo libro) raccontando che Myers partecipò alla video conferenza e citando addirittura le sue parole, pronunciate alle 9:28: «Otis ha lanciato due uccelli verso New York. Langley sta cercando ora di mandare in volo altri due». Ma di tutto questo non c’è traccia nel Rapporto che afferma invece che Myers era in quel momento in Campidoglio, a colloquio con uno dei futuri membri della Commissione, il democratico Max Cleland. Il mondo di Washington è piccolo. Sarebbe bastato chiedere conferma al commissario Cleland per sbugiardare Richard Clarke. Ma Zelikow non ha perso tempo. Clarke è stato cancellato senza fare alcuna verifica: né interrogando Cleland, né esaminando la registrazione della video conferenza.

Stessa, identica operazione per quanto concerne i movimenti del vice presidente Dick Cheney. Il Rapporto contraddice qui non solo Clarke ma anche il Segretario ai Trasporti Norman Mineta, e perfino quanto Cheney in persona raccontò a Meet the Press cinque giorni dopo l’11 settembre. Yukihisa Fujita, nella citata lettera a Hamilton, espone con precisione implacabile tutte le incongruenze temporali contenute nel Rapporto. E formula la domanda: come mai Hamilton e Kean, data la comprovata disonestà di Zelikow (che essi, come emerge dal libro di Shenon, già perfettamente conoscevano), non solo non hanno rivisto il Rapporto, ma, dopo la sua pubblicazione, non hanno reso pubblico il loro eventuale dissenso?

A queste domande non è venuta, per ora, alcuna risposta. Ma noi possiamo qui riassumere ciò che emerge: Zelikow ha intenzionalmente oscurato le posizioni e i movimenti delle tre figure chiave dell’Amministrazione e della Difesa degli Stati Uniti in quel momento a Washington: Cheney, Rumsfeld e Myers.

Infine (ma ripeto che queste sono solo gocce nel mare delle falsificazioni intenzionali e preterintenzionali) c’è la faccenda delle telefonate via cellulari partite dagli aerei dirottati. Queste telefonate fecero il giro del mondo, aggiungendo angoscia e sconcerto alla già tremenda emozione generale. Dunque furono molto importanti ai fini della creazione dell’opinione pubblica, anzi della paura e dell’indignazione collettiva. Il Rapporto le considera valide, cioè le legittima. Ma, ciò facendo, mostra di ignorare del tutto un documento dell’FBI che afferma che ci furono «soltanto due» telefonate da cellulari dai quattro aerei dirottati. Entrambe dal volo UA-93 (quello che “cadde in Pennsylvania”: una da una hostess e un’altra da un passeggero che chiamò il numero 911. Questo rapporto dell’FBI fu reso pubblico nel 2006 durante il processo contro Zakharias Moussaoui ed è leggibile su internet (http://www.vaed.uscourts.gov/notablecases/moussaoui/exhibits/prosecution/flights/P200054.html). Conosceva la Commissione questo rapporto quando chiuse i suoi lavori, nell’estate del 2004? C’è un file , anche questo leggibile su internet (http://www.archives.gov/legislative/research/9-11/staff-report-sept2005.pdf), datato 26 agosto 2004, dal quale emerge (cito qui il testo della lettera di Yukihisa Fuijta a Kean e Hamilton) che «la Commissione aveva ricevuto il documento nel 2004 perché questo report dello staff parla anch’esso di soltanto due telefonate da cellulari, sebbene l’opinione comune (in quel momento, ndr) fosse ancora che molte telefonate da quel volo (UA-93, ndr) , inclusa quella di Tom Burnett, fossero state fatte da cellulari».

Il deputato giapponese così continua: «Se voi replicherete, alla luce del fatto che questo rapporto dello staff è datato 26 agosto, che la Commissione lo ricevette dall’FBI solo dopo la pubblicazione del Rapporto, perché non rendeste nota una vostra pubblica dichiarazione in merito a questa rilevante nuova circostanza? Perché lei (signor Hamilton, ndr) non ne ha riferito in “Without Precedent”? O si tratta di un altro pezzo di informazione che vi fu sottratto da Philip Zelikow?»

La faccenda delle telefonate da cellulari è più clamorosa e rivelatrice di quanto possa sembrare a prima vista, perché moltiplica il numero dei bugiardi e del falsi testimoni che dovrebbero essere nuovamente interrogati, questa volta sotto giuramento e, se del caso, incriminati.

Uno di questi è, con ogni evidenza, Ted Olson, marito di Barbara Olson, il quale raccontò a stampa e televisioni di avere ricevuto ben due telefonate cellulare della moglie, a bordo del volo AA-77, la seconda delle quali tra le 9:16 e le 9:26. Il Rapporto ufficiale prende tutto per buono, ma il rapporto citato dell’FBI è categorico: non ci fu alcuna telefonata da cellulare dal volo AA-77 (quello del Pentagono). Barbara Olson tentò una sola chiamata che, in base ai tabulati, risultò disconnessa. La sua durata fu infatti di zero secondi.

Tutto quanto fin qui scritto non è farina del sacco dei “complottisti”, a meno di non considerare tali Richard Clarke, o lo stesso Hamilton, per non parlare di Philip Shenon. Per quanto concerne quest’ultimo, dopo averlo sentitamente ringraziato per il suo lavoro, si potrebbe solo aggiungere che spesso dà l’impressione di essere caduto dal pero, tanta è l’ingenuità con cui descrive i calcoli cinici dei protagonisti, di Zelikow, di Kean, di Hamilton.

Ma, forse, più che ingenuità, si tratta di prudenza e di autocensura, per non dover poi affrontare le domande più gravi che sgorgano dalla sua stessa documentazione. È chiaro che egli sostiene la tesi della tremenda incompetenza delle diverse amministrazioni che ebbero a che fare con l’11 settembre, e non intende andare oltre. Ma quello che scrive è comunque sufficiente per gettare nel cestino l’intero Rapporto di Philip Zelikow. E sarebbe sufficiente anche per l’apertura di una serie di procedimenti penali.

Grazie a Shenon per questo. Per il resto la sua pur preziosa raccolta palesa i limiti del giornalismo americano d’inchiesta. Basti la storia, che Shenon racconta - evitando accuratamente di approfondirla – dei due “piloti” presunti del volo AA-77: Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mindhar. Risulta che erano sulla lista TIPOFF del Dipartimento di Stato, di circa 60mila nomi, come “potenziali terroristi”. Lista che risulta essere stata in possesso della FAA e delle compagnie aeree americane. Eppure i due erano entrati negli Stati Uniti con i loro nomi e vi avevano vissuto per quasi un anno. Come possa essere accaduto Shenon non se lo chiede. Forse sarebbe stato utile chiederlo alla CIA, segnatamente agli addetti dell’agenzia che facevano entrare terroristi negli USA a partire dal Consolato americano di Jedda, in Arabia Saudita.

Ma anche qui si arriva all’assurdo, alla farsa: i due avevano vissuto a San Diego, California, nell’appartamento di uno “storico informatore” dell’FBI. Guarda com’è piccolo il mondo: due già sospettati di terrorismo non solo entrano con i loro nomi negli Stati Uniti, ma vanno a finire in casa di Abdusattar Sheikh, che Shenon, in un altro passaggio del suo libro, definisce «informatore di lungo corso dell’FBI».

È ancora possibile parlare, come fa Shenon, di “incompetenza”? È sufficiente questa “incompetenza” per spiegare il silenzio dell’FBI non solo per poco meno di un anno prima dell’11 settembre ma anche per più d’un anno dopo l’11 settembre?

O si può avanzare l’ipotesi di complicità? E non ce n’è abbastanza per aprire un procedimento penale contro Abdusattar Shaikh? Ma dov’è andato a finire costui? Risulta che non fu nemmeno interrogato. Risulta che l’FBI si oppose al suo interrogatorio.

Su altri versanti risulta che il senatore Bob Graham, del Comitato del Senato per l’intelligence, aveva svolto indagini (esistette, prima della famosa Commissione, un’altra indagine del Congresso, sulla quale è caduto il silenzio) dalle quali emergeva che «alcuni funzionari del governo saudita avevano avuto un ruolo nell’11 settembre». Erano 28 pagine di un rapporto assai dettagliato che però «rimasero secretate per motivi di sicurezza nazionale». La Commissione non chiede neppure di vederle. Michael Jacobson, ex legale dell’FBI e funzionario dello staff agli ordini di Philip Zelikow, aveva scoperto che i due “dirottatori” non si nascondevano neppure: «il nome l’indirizzo e il numero di Hazmi si trovavano nell’elenco telefonico di San Diego». Dagli archivi locali dell’FBI è emerso che i due erano sotto controllo, perché si sa che furono ricevuti e ricevettero denaro da un “misterioso” espatriato saudita, Omar al-Bayoumi. Costui non fu mai sentito dalla Commissione. Jacobson scoprì che l’FBI sapeva che i soldi per i due terroristi arrivavano direttamente dalla principessa Haifa al-Faysal, moglie dell’ambasciatore saudita a Washington. Nel Rapporto non c’è traccia di tutto questo.

Come si suol dire, tre indizi convergenti sono quasi una prova. Qui, di indizi convergenti, ne abbiamo decine.

Fonte: QUI.