27 marzo 2009

I "Racconti del Terrore" nella Crisi

di Pino Cabras - da «Megachip»

Illustrazione di Victor Juhasz

I professionisti dell’ottimismo cercano di scorgere una ripresa, una luce in fondo al tunnel della Grande Crisi. Noi, che pure non siamo professionisti del pessimismo, ci limitiamo a osservare sgomenti l’inanità degli sforzi dell’amministrazione Obama, tesa a salvare il sistema senza avere soluzioni. Ancora dollari, migliaia di miliardi (ossia milioni di milioni) sono iniettati nel sistema finanziario in un’operazione disperata di costosissimo “mesmerismo”. Come il signor Valdemar descritto da Edgar Allan Poe, il sistema è morto ma la trance degli infiniti “salvataggi” in limine mortis ci fa giungere ancora le sue voci aspre e spezzate, mentre la decomposizione avanza. Il racconto di Poe si conclude così: «di fronte a tutti i presenti, non rimase che una massa quasi liquida di putridume ributtante, spaventoso.» Chiameremo così anche l’inflazione?

Nel giro di pochi mesi, gli Stati Uniti hanno incenerito il denaro di un po’ di generazioni a venire. Il problema della solvibilità dell’Impero più potente della Storia si presenterà ormai con un rendiconto ineludibile. A breve.

L’economista Paul Krugman, ancora fresco di Nobel, è sempre più sconfortato, di fronte alla coazione a ripetere del Tesoro USA. Uno dopo l’altro, i “bailout” senza fondo vanno a beneficio delle banche e delle assicurazioni. I cinesi cominciano a porre come un’urgenza assoluta la questione della valuta di riferimento mondiale. Il dollaro così com’è non ha più credibilità. Gli USA non puntano nemmeno ai prestiti, come hanno fatto nell’ultimo scellerato decennio. Pensano solo a oliare bene le stampatrici della zecca.

Per la Grande Depressione degli anni trenta la soluzione adottata dagli USA fu il “New Deal”, che fece riacquistare fiducia e speranza al grande malato, con un forte ancoraggio a Main Street anziché a Wall Street. Oggi si punta sulla finanza, nell’idea che ripristinando il credito privato tutta la macchina economica ripartirà. Si tratterebbe di bonificare dai veleni i bilanci delle banche, sgonfiare fino in fondo la bolla dei debiti di chi vive al di sopra dei propri mezzi nella classe media, e lasciare però le banche così come sono, perché presto o tardi riattiveranno il credito. Una cifra pari al PIL degli USA è già stata stanziata allo scopo, un quarto di essa è già stato speso, eppure il credito non riparte. La strategia non serve dunque a questo scopo.

Non c’è più nulla che possa essere in grado di puntellare ideologicamente le dottrine del mercato in piedi fino a pochi mesi fa. Appare solo il potere della Superclasse finanziaria globale in tutta la sua brutalità. L’economia, la vita di miliardi di persone, è di fatto sotto gli effetti di una coercizione istantanea e violenta, «extraeconomica». Di norma nel capitalismo sviluppato la classe dominante usa queste brutalità come «stato di eccezione», mentre fu invece uno dei mezzi principali adottati nel periodo della «accumulazione originaria», per dirla con Marx.

Oggi c’è invece una sorta di «decumulazione originaria», un crollo che non tutti affronteranno con gli stessi mezzi. La Superclasse sta già profittando della sua forza extraeconomica per decidere chi salvare e chi sommergere. Non si vuole salvare l’economia. Si vogliono strappare al tracollo – costi quel che costi – rapporti di forza e di potere. Come si tradurrà una parola come democrazia nel linguaggio delle locuste? Il verso che emettono, per ora, è sempre uno: “bonus”, a dispetto di tutto. Continuano così la loro vita da nababbi a spese anche dei nostri futuri nipoti, in nome della legalità contrattuale, difesa da squadre di avvocati e da terrificanti giornalisti economici, proprio mentre moltitudini di lavoratori rivedono i contratti e accettano decurtazioni per la dura congiuntura. Per essi, per i loro contratti da onorare, i milioni di milioni non ci sono.

La Superclasse ha stracciato qualsiasi contratto sociale e parla ancora di legalità, intanto che giustifica lo scandalo del permanere dei propri folli status e stili di vita. Il prossimo passo sarà abbattere anche questo ultimo ridicolo paravento. È vero sì che ci sono già un po’ di rivolte. In Europa dell’Est (l’effimera Nuova Europa decantata da Rumsfeld) son già caduti i governi di tre paesi. Ma non è che si parli troppo di queste ribellioni. Il mainstream informativo tronca e sopisce, e comunque le agitazioni non sono ancora all’altezza della crisi. Di questa crisi.

Così come pochi sanno che i primi 25 manager di hedge fund del mondo, nel 2008, alla facciaccia di tutti, hanno incamerato profitti per oltre 11 miliardi di dollari scommettendo sui disastri di questa o quella economia nazionale. Fra gli scommettitori troviamo il solito George Soros, con 1,1 miliardi di profitti in un anno. Equivalgono a 35mila dollari al secondo, anche il sabato e la domenica, anche quando dorme. Buonanotte.

Lo scandalo dei bonus, però, è solo la bistecchina sapientemente usata per ammansire i frodati e sviare la questione vera. I sovrani della grassazione finanziaria, aggrappati al loro «diritto» ai premi, e ululanti contro la “caccia alle streghe”, dovrebbero subire ben altro che la perdita dei bonus, perché gli impegni che avevano assunto non avevano copertura e quindi violavano eccome il diritto. Ma per ora in galera c’è solo il capro espiatorio, un caprone bello grosso per la verità, di nome Bernard Madoff.

Giusto scandalizzarci, insomma, ma non perdiamo di vista il fatto che il sistema non è stato riformato. Sebbene banche e assicurazioni importantissime siano ormai a tutti gli effetti nazionalizzate, sono tuttavia dominate dagli stessi soggetti privati che le avevano guidate fin qui e che continuano a ridistribuirsi cifre immani, lasciando che industrie e società intere vadano in malora. La AIG – la grande assicurazione che prima dei tanti salvataggi consecutivi non aveva copertura per le scommesse perdute dalle banche - ha trasferito denaro pubblico per oltre 150 miliardi a banche del calibro di Goldman Sachs, Société Générale, Deutsche Bank, Barclays, HSBC e cosi via. Si tratta di rimborsi integrali, 100 centesimi per un dollaro.

Rendiamoci conto dell’abominio: quel che viene pagato a spese della collettività non sono attivi di bilancio, bensì debiti di gioco. Naturalmente molti hanno perso tutto. Ma non certe banche. AIG è il signor Valdemar dei nostri giorni, non muore ma è morto, perché Goldman Sachs non può morire. Si va oltre il mesmerismo.

Vi aspettereste che aumenti la velocità di circolazione della moneta, che si dia respiro alle industrie e ai mutuatari strangolati. Illusi. Ecco invece Goldman Sachs lanciarsi nelle scommesse del momento, speculazioni letali contro alcune monete, riassicurazioni contro il rischio paese di certe economie nazionali. Ecco i banchieri puntare su aspettative di crolli che si autoadempiono, tutto come prima, per spolpare ancora quel che c’è da spolpare.

Obama ha minacciato fuoco e fiamme contro i bonus. Ma non ha reso illegali i terribili meccanismi della speculazione. Quelli rimangono tutti. Per i pescecani della finanza è un’amnistia di fatto, e la festa continua.

Il senatore indipendente Bernie Sanders, del Vermont, si è accorto dell’assurdità di avere parlamenti che si scannano per giorni nel discutere provvedimenti da qualche decina di milioni, rispettando le delicatezze dei bilanciamenti dei poteri, quando invece la Federal Reserve si inventa in un baleno stanziamenti da trilioni di dollari senza far sapere i destinatari. Il sistema bancario ombra beneficia di un vero e proprio governo ombra con un budget di gran lunga superiore a quello amministrato dai poteri costituzionali, ed è gestito con poteri dittatoriali e meccanismi segreti.

Il collasso globale e i piani di salvataggio hanno gli effetti di un golpe rivoluzionario senza precedenti. Sulle istituzioni si forma una banchisa polare che segue alla lentissima nevicata che pian piano, per decenni, ha tolto loro qualsiasi calore democratico: oggi – scrive Matt Taibbi su «Rolling Stone» - trova la sua consistenza finale «la conquista graduale del governo da parte di una ristretta classe di complici, che usavano il denaro per controllare le elezioni, comprare capacità d’influenza, e indebolire sistematicamente le regole e i limiti per la finanza». Il re è nudo, e se ne frega. L’usura sta compiendo la sua rivoluzione con ingordigia suicida.

Edgar Allan Poe non avrebbe potuto immaginare un “personaggio” altrettanto inquietante, così avido, incapace, sconsiderato e criminale quanto il capitalismo terminale. Un capitalismo così mortifero e ghiacciato da non poterlo ancora fissare in un concetto di “normalizzazione”, perché ci introduce comunque a un’epoca di pericolosa instabilità.

In che mani siamo, dunque? Taibbi è drastico: « Queste persone non sono altro che tizi che trasformano i soldi in soldi, al fine di fare più soldi ancora; tutto sommato sono assimilabili alle persone assuefatte al crack o ai maniaci sessuali che ti entrano in casa per rubare le mutande. Eppure è questa la gente nelle cui mani ora riposa l’intero nostro futuro politico.»

21 marzo 2009

Crollano i giornali. È l’alba di Beppe Grillo o della P2?

di Pino Cabras – Megachip


Immagine tratta da: http://www.segnalidivita.com
http://www.segnalidivita.com/beppegrillo.


Beppe Grillo si bea del crollo dei giornali, che perdono una valanga di copie e tantissima pubblicità, e ormai si avviano a un rapido declino, per molti la chiusura. Lui dice che in sostanza trionferà la Rete, e lì, finalmente, la qualità emergerà. I blog che faranno tanti contatti evolveranno darwinianamente verso un nuovo “modello di business” informativo. Per Grillo la crisi, su questo punto, è una buona notizia, anzi eccellente.
Anch’io prenderei come bersagli gli stessi personaggi che sbeffeggia Grillo. Ma essendo circospetto nei confronti delle sue brusche semplificazioni, tiro il freno a mano. Voglio capire meglio.








Il contesto individuato è giusto. Per anni l’informazione alternativa era fuori dal recinto, mentre ora non è più emarginabile. Sempre più spesso le testate “autorevoli” hanno bucato le notizie vere, mentre fuori succedeva un finimondo ben descritto da altri soggetti.

I silenzi dei grandi giornali contavano sulla potenza soverchiante del loro apparato. Ma ora i cedimenti ci sono, e arrivano tutti insieme. Traballa un intero sistema di potere, e il «Financial Times» arriva a scriverne il necrologio.
In qualche modo il mainstream informativo reagirà, statene certi. E anche Grillo lo sa, tanto che segnala pure lui i bavagli che si preparano a carico del web, quantunque ora egli esulti per il tramonto dei giornali stampati. Prima di gongolare anch’io voglio capire se il tramonto della stampa è l’alba della Rete libera e bella, o l’aurora dei piduisti.

Tutti vogliamo essere ottimisti, nel mezzo delle notizie da Grande Depressione. E quindi cerchiamo la buona notizia, proviamo a essere positivi. Tento di cogliere elementi analitici potenti nel ragionamento di Grillo.

In effetti crescono i luoghi di informazione indipendente. La novità c’è e le Caste stentano ad afferrarla, o fingono, sperando che la tempesta passi e si possa tornare allo status quo ante.

Giorno per giorno si scalfisce la supposta «autorevolezza» dei giornali e dei media «prestigiosi».
Lo smascheramento galoppa: le vecchie gazzette non vengono più ormai percepite come autorevoli ma come “ufficiose”. Praticano quel poco di libertà che calpesta i pascoli ristretti di una critica tollerata. Spazi ogni giorno più angusti.

È la vecchia storia del Palazzo con la P maiuscola, la storia di una complicità, una connivenza che lega il giornalista al potere politico ed economico. Il giornalista parla al e per il potente e il potente parla al giornalista per se stesso. Della società nessuno dei due parla, e perciò nessuno la rappresenta più.

Prendiamo la guerra in Iraq. Tutto un mondo indipendente ha raccolto i documenti che davano prova dello smisurato imbroglio delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, e sin dal primo istante ha ridicolizzato i presunti legami di Saddam con Al Qa‘ida sbandierati dall’Amministrazione Bush-Cheney. Erano i grandissimi media ad accettare le menzogne del potere e a dare una mano a una guerra costosa e insensata. Nel misurarsi con la guerra hanno fallito e hanno perso copie e spettatori. Ma non basta.
Bisogna andare più a fondo sulla tendenza in atto. Le guerre del 2008 e del 2009 (Ossetia e Gaza) ad esempio hanno mostrato una totale divaricazione dalla verità del mainstream informativo. Frotte di lettori disperati si allontanavano dai giornali bugiardi - che però ancora facevano massa critica - per dissolversi in direzione di una galassia dispersissima di fonti alternative, le quali erano in pieno boom ma incapaci di aggregare un robusto senso comune, un’opinione pubblica di peso che fosse in grado di vincere.

I media che seguono la corrente del grande conformismo devono fare ormai i salti mortali per dettare la gerarchia delle notizie. La trita politichetta nazionale in prima pagina, la notizia scomoda a pagina 26, tutto questo riusciva bene. Il direttore usava il soffio divino che faceva esistere o non esistere la notizia. Oggi comincia ad andare diversamente, il declino rapido appare certo, ma sono incerti gli esiti finali.

Un esercito di centinaia di migliaia di lettori si informa meglio dei direttori, e lo fa prima, ha già coperto di pernacchie le notizie false poi spacciate per vere, una marea.

Ma internet ci può bastare? E milioni di persone che non hanno mai cliccato nemmeno una pagina, chi le raggiunge, chi le informa? Chi va in TV a raccontare la più grande crisi economica del secolo?

Ai piani alti lo sanno, si pongono il problema. E noi, ce lo poniamo? Vedete un po’ cosa diceva nel 2005 Rupert Murdoch, il superpadrone dei media:

«Sono cresciuto in un mondo dell’informazione assai centralizzato, dove le notizie erano strettamente controllate da pochi direttori, che decretavano cosa potevamo e dovevamo sapere. Le mie due figlie giovani sarebbero nate nel mondo digitale.»

Poi aggiungeva: «Il cimento particolare, per noi immigrati digitali - molti dei quali in posizione di determinare come le informazioni vengono confezionate e diffuse – è di sforzarci nell’applicare la mentalità digitale a una nuova gamma di sfide. […] Dobbiamo comprendere che la prossima generazione che si trova ad avere accesso alle notizie, siano dai giornali o da qualsiasi altra fonte, ha diversi parametri di aspettative sul tipo di informazione da cercare, e sul come la ottiene, e da chi».

La crisi della stampa di oggi il “global tycoon” la vedeva già tutta nell’atteggiamento delle nuove generazioni digitali:

«Non vogliono più affidarsi a una figura divina che sta lì a dirgli dall’alto cosa sia importante; e per ampliare un pochino l'analogia religiosa, non vogliono di certo notizie presentate come vangelo. All'opposto, vogliono le loro notizie su richiesta. Vogliono il controllo sui loro media, anziché esserne controllati.»

Nessun sussiego in Murdoch. Non vedeva affatto il nuovo giornalismo partecipativo come «secondario» e parassita rispetto ai media ancora più importanti. Non paventava un giornalismo di qualità più bassa. Non vituperava il giornalismo di tipo nuovo perché conosceva i suoi polli nei media «autorevoli»: le loro fandonie, i loro ritardi, il loro snervante bilancino fra i poteri.

Lui più di tutti, Murdoch, sa che la stragrande maggioranza delle notizie che appaiono nei media mainstream trovano la loro fonte in tre sole agenzie internazionali, e nessuno si prende la briga di vagliarle, smontarle, riscontrarle davvero. Il resto sono trucchi per contrabbandare idee ricevute, che funzionano male, tanto che i lettori alla fine se la stanno filando.

È anche vero che per un lettore che diserta l’edicola ce ne sono due che aprono le pagine delle versioni online dei quotidiani, ma la qualità della lettura è diversa, e anche l’impatto economico sulle testate è incomparabile, per via della fruizione pubblicitaria e degli schemi di abbonamento. L’attuale modello online non basta a ripagare i costi di redazioni che coprano un ampio spettro di notizie con standard di qualità accettabili.

È stato triste in questi anni osservare come i siti dei grandi quotidiani abbiano trasformato - gradualmente ma inesorabilmente - la loro homepage. Hanno affiancato alla colonna delle notizie “serie” una seconda colonna di gossip. Questa era dapprima esile e statica, poi si è via via allargata, si è riempita di aggiornamenti continui, richiami, frizzi e lazzi, mentre erodeva millimetro dopo millimetro l'altra colonna, contaminandola con un tono sempre più fru fru. I lettori in più sul web se li sono guadagnati in questo modo. Ma non hanno portato soldi né autorevolezza.

Murdoch nel mentre è entrato in campo con prepotenza anche sul digitale, assicurandosi il gigantesco portale MySpace e marchiando la strada che condurrà verso pochi oligopolisti la vita digitale di miliardi di esseri umani, i loro consumi, i gusti, i modi di vivere, consegnati così ai marketers che disporranno di sofisticate schedature personalizzate, ottenute gratis e con spensierata imprevidenza di massa.

Qual è il futuro della democrazia? Cosa sarà la politica nei prossimi decenni? Sarà internet a liberarci fra quarant’anni, regalando un trionfo a Beppe Grillo per la festa dei suoi cento anni, circondato dai vapori ideologici dei suoi vecchi amici visionari e ipersemplicisti della Casaleggio Associati? Oppure il flusso delle comunicazioni prenderà la strada di chi controlla Facebook e i suoi fratelli? Oggi l’entusiasmo per le novità è forte, abbastanza da far rimandare la risposta a queste domande, quasi certamente una risposta che sarà dura con le illusioni.

Nel frattempo si preferisce guardare al fermento, la corsa all’Eldorado delle tecnologie “libere”. Il fermento c’è sul serio, non è solo un abbaglio.
Spesso c’è un ritorno – in via elettronica – a un certo giornalismo delle origini. Quello che si affacciava nel discorso pubblico prima che la comunicazione diventasse il tramite timoroso e umiliato della pubblicità. Ora che questa crolla, si trascina tutto un sistema, nel frattempo diseducato fino all’irresponsabilità.

Quel giornalismo ideale a volte lo abbiamo visto rappresentato nei fumetti di Tex, dove vedevamo il direttore di periodici che si chiamavano «Tucson Gazette» o «Sonora Herald», il quale scriveva artigianalmente i suoi pezzi, li stampava lui stesso, circondato da giovanotti svegli, un po’ reporter un po’ strilloni. Un giornalismo di carta vetrata, urlato, parzialissimo, esposto, senza reti protettive, capace anche di striduli errori, eppure efficace, utile: era il mestiere che il giornalismo “autorevole” di oggi non sa più fare.

Questa umiltà e parzialità faceva bene alla crescita di uno spirito democratico. O almeno ci provava seriamente. Somigliava più alla satira - quella vera, non gli sfottò - che a un editoriale azzimato come Gianni Riotta. Esagerare consentiva di approssimarsi alla verità.

Non è esistita nessuna età dell’oro del giornalismo, sia chiaro. Eppure c’è come una memoria di un qualcosa di diverso che si oppone alla deriva di oggi e fa diffidare del giornalismo controllato e disinformativo, che ora crollerà.

Perciò, nel nostro piccolo, pensiamo un altro tipo di informazione, ad altri giornali e siti e blog, a un altro tipo di TV. Siamo qui ad aprire il vaso di Pandora. Una cosa che può nascere solo dal basso.

Il punto però è questo. A dispetto dell’ottimismo di chi si entusiasma del web non dobbiamo nasconderci le ombre.

Le continuità ideologiche con l’era apparentemente defunta del neoliberismo sono più forti di quanto si pensi. Il flusso delle comunicazioni è il nuovo luogo virtuale in cui si narra il mondo contemporaneo e si ridefiniscono le sovranità. L'esaltazione acritica di questo flusso, giudicato come lo spazio in cui avviene lo scambio “alla pari” tra soggetti trasmettitori e soggetti riceventi, appare come una nuova ideologia tesa a legittimare i nuovi poteri, tutti da sottrarre ad ogni vincolo. Per i neoliberisti il mondo è il mercato-mondo. La libertà è la libertà dei commerci. Il cittadino è il consumatore sovrano nelle sue scelte dentro il libero mercato. Come diceva quasi vent’anni fa il teorico dei media Armand Mattelart, «nella sua lotta contro tutte le forme di controllo (escluse le proprie, quelle della libera iniziativa), promanino esse dallo stato o dalla società civile organizzata, il neoliberismo si rivela una sorta di neopopulismo. Per questo esso ha il bisogno ricorrente di richiamarsi alla rappresentatività dei consumatori, che assumono così la veste di parti di mercato.» Mi sembrano considerazioni ancora fresche, e ritraggono con precisione i populisti di oggi, in buona e in malafede.

Saranno ancora le dottrine d’impresa ad avere molta più forza di tutti nella ristrutturazione dei mercati della comunicazione. Un'impresa che si muove in uno spazio in cui deve individuare segmenti transnazionali di consumo e forme culturali universali, ma anche nicchie di mercato locali e particolari alle quali parlare con il cosmopolitismo manageriale. Il mondo diventa solo uno spazio da gestire. La psicologia del cittadino consumatore viene già studiata a fondo. Si studia come spende, come reagisce alle campagne pubblicitarie, come si muove nel supermercato o nelle mall delle chincaglierie elettroniche, da quali luci e colori viene colpito, come rapporta i suoi valori personali alle offerte del mercato. Si taylorizza il consumo. È il trionfo del marketing. Con Facebook miliardi di agnelli vanno volontariamente al macello delle schedature. Sempre Mattelart afferma che «il fatto che l'impresa e la libertà d'intrapresa siano divenute il centro di gravità della società ha ridistribuito le gerarchie, le priorità e il ruolo degli altri soggetti. Ciò che è cambiato, in breve, è l'insieme dei modi di produrre il consenso, di cementare la volontà generale.» E aggiunge una citazione del sociologo Michel Vilette: «La dottrina management ha contaminato tutti i segmenti della società configurandosi come modello culturale universale.»

Si dispiega un'idea gestionale della politica in cui le imprese sono comunque al centro. Le nuove élites si autorappresentano e non delegano ad altri la mediazione politica. Non si pongono obiettivi democratizzanti, non sentono la necessità dei riequilibri territoriali, non pensano a forme di integrazione per i conflitti sociali ed etnici. Quando Grillo dice niente mediazioni loro annuiscono tranquillamente.

Per la dottrina management il controllo sociale non è più un problema politico. E' un problema socio-tecnico. Più poliziotti privati a tutelare il quartiere ricco dalle rivolte dei quartieri degradati. Più telecamere nelle strade, più schedature elettroniche, più farmaci Prozac antitristezza. Ma anche più sorveglianza informatica nel lavoro, più strumenti di persuasione per “amministrare il pensiero”. Chi se ne frega dei quotidiani che muoiono.
I candidati occhieggiano dai loro spot: «Metti un manager alla guida della città».
«I liberali possono star tranquilli: anche il Grande Fratello sarà privatizzato», profetizzava Christian De Brie nel 1994.

Se ogni utopia si collegava a un archetipo di città ideale, la mancanza di utopie genera una nuova ecologia metropolitana. Non domina il Grande Fratello quanto il Micro Fratello: lo scanner alla cassa dell'ipermercato che misura la reattività del consumatore alle campagne di persuasione, gli automatismi diffusi e impersonali della burocrazia che possono decidere le condizioni di concessione del credito o l'ammissione a un impiego, le banche-dati che tramite controlli incrociati possono costruire rapide schedature dei nostri profili personali, i profili che spontaneamente sono regalati.
Il gioco sociale diventa così misurabile. I marketers fanno le loro scorrerie infliggendoci nuovi bisogni. Le banlieues intanto esplodono. L’assenza di quotidiani che parlino di tutto questo non pare ancora bilanciata da un’opinione pubblica in grado di raggiungere una consistenza collettiva altrettanto forte.

Il gioco politico si presta così al marketing plebiscitario e neopopulistico. «La libertà politica non può fermarsi al diritto di esercitare la propria volontà», asserisce Mattelart. «Il problema sempre più fondamentale è quello del processo di formazione di tale volontà.»

Le corporation diventano soggetto politico primario e proiettano la propria organizzazione-mondo come il tipo di organizzazione ideale, la propria comunicazione come l'unica proponibile, il proprio leader con il suo corredo mitologico aziendale come il solo leader universale. Mano a mano cadono gli ostacoli che separano le incarnazioni statuali del potere dalla concreta egemonia conquistata dall'impresa-mondo nelle casematte della società civile. I magnati della comunicazione raccolgono i frutti di un lungo lavoro di trasformazione della cultura operato da parte dei propri intellettuali organici.
E forse anche chi si innamora troppo della Rete lavora generosamente per il Re di Prussia, che nel frattempo sfronda anche lui le intermediazioni, decentralizza molto, ma centralizza le risorse strategiche, e un domani vorrà concentrare la censura tecnologica.

Perciò è urgente costruire strumenti forti di comunicazione per non regalare tutto alle oligarchie e alle false coscienze.

19 marzo 2009

Due secondi che resteranno nell'infamia

di Dwain Deets - Architects and Engineers for 9/11 Truth
Traduzione di Manlio Caciopo per «Megachip»

La mezza ammissione del NIST: ancora un'altra pistola fumante sull'11/9.

Il Senato USA terrà un’audizione questa settimana per la ratifica del candidato a Segretario del Commercio, il Governatore Gary Locke. Questa carica dell'esecutivo sovrintende all'Istituto Nazionale per gli Standard e le Tecnologie (NIST), l'agenzia governativa incaricata di indagare e riferire in merito alla distruzione dell'edificio 7 del World Trade Center. Il NIST ha cercato di evitare di ammettere che ci sia stata alcuna accelerazione a caduta libera quando l'edificio venne giù l'11 settembre 2001. Lungo tutta la loro bozza di relazione finale, del 26 agosto 2008, a quasi sette anni dall'evento, gli autori principali della relazione NIST hanno tenuto fermamente la loro posizione sul fatto che non si sia verificata una caduta libera.

Una volta che il NIST ha ospitato i commenti sulla sua bozza di relazione, è stato più o meno costretto ad accettare le indiscutibili spiegazioni basate sui video disponibili al pubblico che dimostrano che la caduta libera si era verificata. David Chandler, un insegnante di fisica delle scuole superiori e ricercatore di Architects and Engineers for 911 Truth, ha fornito il più interessante argomento in un video visto numerose volte su YouTube.

Nella loro relazione finale divulgata il 20 novembre 2008, gli autori del rapporto NIST hanno dichiarato di aver effettuato un esame più dettagliato, e di aver trovato un periodo di 2,25 secondi in cui il centro della linea del tetto mostra una «caduta libera per circa 8 piani.» Chandler aveva misurato un periodo di 2,5 secondi. Ai fini pratici, il periodo di tempo può essere assimilato a due secondi.

Il rapporto NIST non definiva il significato di un piombare a caduta libera. Il significato è che durante tale periodo di caduta libera, tutta l'energia gravitazionale (altresì nota come energia potenziale) viene convertita in energia di movimento (altrimenti nota come energia cinetica). Non c'è energia disponibile per produrre altro lavoro, come ad esempio rompere le colonne strutturali o scagliare via pezzi strutturali. La Figura 1 raffigura questi punti.

Il NIST ha cercato di nascondere al pubblico la sua ammissione della caduta libera, non elencandola nella descrizione delle modifiche effettuate in risposta alle osservazioni del pubblico. Ammettere la caduta libera porta direttamente alla domanda: «quale fonte di energia ha eliminato gli otto piani della struttura dell'edificio»? Evidentemente gli autori del NIST non volevano essere trascinati su questo terreno. Il grafico sottostante (figura 2) parla da sé. Hanno cercato di nascondere il loro brusco cambiamento di posizione: sul fatto che il WTC7 sia effettivamente crollato in caduta libera per due secondi. Le sole forze gravitazionali non bastano a spiegare come mai l'edificio sia venuto giù.

Le due figure allegate sono da intendersi come ausilio per spiegare la questione NIST-caduta libera a persone non tecniche che possono esser influenti. È necessario che i senatori statunitensi e il Governatore Locke ricevano queste informazioni all'inizio di questa settimana cosicché la questione possa essere trattata con senso di responsabilità nel corso dell’audizione di ratifica.

Se il Presidente Obama mantiene la sua promessa di restituire alla scienza il suo giusto posto – cioè al di sopra della politica – vi è una possibilità che questi due secondi vivano davvero nell'infamia, con un pieno riconoscimento di quanto ci raccontano sulla natura degli attacchi dell'11/9, la Pearl Harbor del XXI secolo. Se, invece, lui e il suo eventuale Segretario del Commercio seppellissero questi due secondi e il loro chiaro significato, l'infamia suppurerà e si diffonderà in modo sotterraneo, continuando a minare la comprensione di quel che è realmente accaduto l'11/9.



Figura 1




Figura2


Articolo originale: Two Seconds That Will Live in Infamy, ae911truth.org.

16 marzo 2009

Il punto di vista di un generale russo: 11 settembre, una provocazione mondiale

Gen. Leonid Ivashov * - da Reseau Voltaire
versione italiana su Megachip [QUI]


Leonid Ivashov

Il generale russo in congedo Leonid Ivashov, ex capo delle forze armate della Russia, è una delle persone meglio informate al mondo, non solo per l’alta carica che a suo tempo ricoprì e gli permise di godere di una serie di strumenti sofisticati (i satelliti artificiali, l’intelligence militare, squadre di analisti e altre reti di informazioni segrete), ma anche perché oggi è vicepresidente dell’Accademia di Geopolitica a Mosca. Ma ciò che risalta nel generale Ivashov è la sua trasparenza e onestà al momento di parlare di questioni politiche del potere mondiale che influenzano l’umanità, sulle quali altre persone del suo rango rimarrebbero in silenzio per ragioni di Stato.
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L’esperienza dell’umanità dimostra che il terrorismo compare ovunque si voglia che si produca un aggravamento delle contraddizioni in un momento determinato, dove i rapporti in seno alla società iniziano a peggiorare e dove l’ordine sociale subisce dei cambiamenti, laddove sorga l’instabilità politica, economica e sociale, dove si scatenano i potenziali di aggressività, dove decadono i valori morali, dove trionfano il cinismo e il nichilismo, dove si legalizzano i vizi e dove la criminalità si sviluppa rapidamente.

I processi legati alla globalizzazione creano le condizioni favorevoli per questi fenomeni estremamente pericolosi. Provocano una nuova divisione della mappa geopolitica del mondo, una ridistribuzione delle risorse del pianeta, violano la sovranità e cancellano le frontiere degli Stati, smantellano il diritto internazionale, distruggono la diversità culturale, impoveriscono la vita morale e spirituale.

Credo che adesso possiamo parlare di una crisi sistemica della civiltà umana. Essa si manifesta in modo particolarmente acuto sul piano dell’interpretazione filosofica della vita. Le sue manifestazioni più spettacolari hanno a che fare con il significato che si attribuisce alla vita, all’economia e al campo della sicurezza internazionale.
L’assenza di nuove idee filosofiche, la crisi morale e spirituale, la deformazione della percezione del mondo, la diffusione di fenomeni amorali contrari alla tradizione, la competizione per l’arricchimento illimitato e il potere, la crudeltà, portano l’umanità al declino e, forse, alla catastrofe.

La preoccupazione così come la mancanza di prospettive di vita e di sviluppo in cui sono bloccati molti popoli e Stati costituiscono un importante fattore di instabilità a livello mondiale.
L’essenza della crisi economica si manifesta nell’implacabile lotta per le risorse naturali, negli sforzi delle grandi potenze mondiali, in particolare gli Stati Uniti d’America, così come di alcune multinazionali, volti a sottomettere ai loro interessi i sistemi economici di altri Stati e prendere il controllo delle risorse del pianeta, in particolare le fonti di approvvigionamento di idrocarburi.

La distruzione del modello multipolare che garantiva l’equilibrio delle forze nel mondo ha causato anche la distruzione del sistema di sicurezza internazionale, delle norme e dei principi che reggevano i rapporti tra gli Stati e il ruolo delle Nazioni Unite e del suo Consiglio di Sicurezza.

Oggi gli Stati Uniti si arrogano il diritto di decidere il destino degli altri Stati, di commettere atti di aggressione, di assoggettare i principi della Carta delle Nazioni Unite alla propria legislazione. Furono proprio i paesi occidentali che, attraverso le loro azioni e l’aggressione contro la Repubblica federale della Jugoslavia e contro l’Iraq e nel permettere in forma evidente l’aggressione israeliana contro il Libano, con minacce a Siria, Iran e altri paesi, a scatenare un’enorme energia di resistenza, di vendetta e di estremismo, che hanno rafforzato il potenziale del terrore prima di rivoltarsi, come un boomerang, contro lo stesso Occidente.

L’analisi dell’essenza dei processi di globalizzazione, come pure delle dottrine politiche e militari degli Stati Uniti, dimostra che il terrorismo favorisce il raggiungimento degli obiettivi di dominazione mondiale e la sottomissione degli Stati agli interessi dell’oligarchia mondiale.
Ciò significa che (il terrorismo) non è di per se stesso un attore della politica mondiale, bensì un semplice strumento, il mezzo per instaurare un nuovo ordine unipolare con un unico centro di comando a livello mondiale, per cancellare le frontiere nazionali e garantire il dominio di una nuova élite mondiale. Ed è proprio quest’ultima l’attore principale del terrorismo internazionale, il suo ideologo e il suo “padrino”.

Essa inoltre si sforza di rivolgere il terrorismo contro altri Stati, compresa la Russia.
Il bersaglio principale nel mirino della nuova élite mondiale, è la realtà naturale, tradizionale, storica e culturale che ha gettato le basi delle relazioni tra gli Stati e dell’organizzazione della civiltà umana in Stati nazionali, dell’identità nazionale.

L’attuale terrorismo internazionale è un fenomeno che consiste, per strutture governative e non governative, nell’utilizzare il terrore come un mezzo volto a raggiungere obiettivi politici terrorizzando, destabilizzando la popolazione a livello socio-psicologico, demotivando le strutture del potere statale e creando condizioni che consentano di manipolare la politica dello Stato e il comportamento dei cittadini.

Il terrorismo è un modo di fare la guerra in maniera non convenzionale. Parallelamente il terrorismo, in combinazione con i mass media, si comporta come un sistema di controllo dei processi mondiali.

È precisamente la simbiosi tra i mass media e il terrore a creare le condizioni favorevoli a grandi sconvolgimenti nella politica mondiale e nella realtà esistente.

Se si esaminano in tale contesto gli eventi accaduti negli Stati Uniti l’11 settembre 2001, si potranno raggiungere le seguenti conclusioni:
- L’attentato terroristico contro le torri gemelle del World Trade Center ha cambiato il corso della storia mondiale distruggendo definitivamente l’ordine mondiale derivante dalla accordi di Yalta-Potsdam;
- Ha slegato le mani a Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele, consentendo loro di intraprendere azioni nei confronti di altri paesi, in aperta violazione delle norme ONU e degli accordi internazionali;
- Ha stimolato lo sviluppo del terrorismo internazionale. Peraltro, il terrorismo si presenta come uno strumento di resistenza radicale ai processi di globalizzazione, come mezzo di lotta di liberazione nazionale, di separatismo, come mezzo di risoluzione dei conflitti tra le nazioni e le religioni e come strumento di lotta economica e politica.
In Afghanistan, in Kosovo, in Asia centrale, nel Medio Oriente e nel Caucaso, constatiamo che il terrorismo serve anche a proteggere trafficanti di droga, destabilizzando le aree lungo le loro rotte.

È dimostrato che in un contesto di crisi sistemica mondiale il terrorismo si è trasformato in una sorta di cultura della morte, nella cultura della nostra quotidianità.
Irrompe nella prospera Europa, tormenta la Russia, agita il Medio Oriente e l’Asia orientale. Fa in modo che la comunità internazionale si assuefaccia all’ingerenza violenta e illegale negli affari interni degli Stati e alla distruzione del sistema di sicurezza internazionale. Il terrore genera il culto della forza e assoggetta ad essa la politica, il comportamento dei governi e della popolazione.

La cosa più spaventosa è che il terrorismo ha un grande futuro a causa della nuova spirale di guerra che ormai si delinea per la ridistribuzione delle risorse mondiali e il controllo delle aree chiave del pianeta. All’interno della strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, approvata quest’anno dal Congresso USA, l’obiettivo apertamente dichiarato della politica di Washington è quello di «assicurare l’accesso alle regioni chiave del mondo, alle comunicazioni strategiche e alle risorse globali», prendendo come un mezzo per raggiungere l’obiettivo la realizzazione di attacchi preventivi contro qualsiasi paese.
Dal punto di vista del Congresso, gli USA possono quindi adottare una dottrina di colpi nucleari preventivi, che suona tanto come terrorismo nucleare.

Ciò implica l’utilizzo su larga scala di sostanze nocive e di armi di distruzione di massa. Non ci sarà nessun scrupolo al momento di determinare i mezzi da utilizzare per rispondere ad un attacco. Sarà solo questione di scegliere i mezzi.

La provocazione per mezzo di un atto di terrorismo diventa un mezzo per raggiungere obiettivi politici su scala globale, regionale o locale. Così come una provocazione organizzata nella località di Rachic (in Kosovo, Serbia), finì per dar luogo al cambio di regime politico in Serbia e al crollo della Repubblica federale di Jugoslavia, mentre serviva come pretesto per l’aggressione della NATO e alla separazione del Kosovo dalla Serbia. Si tratta in questo caso di una provocazione a livello regionale. Lo stesso può essere detto a proposito della recente provocazione che ha portato all’aggressione israeliana contro il Libano nel luglio 2006.
Le esplosioni di Londra, i disordini a Parigi nel 2005-2006, sono provocazioni che hanno avuto ripercussioni sulla politica locale e sull’opinione pubblica in Gran Bretagna e Francia.

Dietro a praticamente ogni atto di terrorismo si nascondono potenti forze politiche, imprese transnazionali o strutture criminali con obiettivi mirati. E quasi tutti gli atti terroristici, escluse le attività di liberazione nazionale, sono in realtà provocazioni. Anche nel caso dell’Iraq, le esplosioni nelle moschee sunnite e sciite non sono altro che provocazioni organizzate secondo il principio “divide et impera”. Lo stesso vale per la presa di ostaggi e l’uccisione di membri della missione diplomatica russa a Baghdad.

L’atto terroristico commesso per fini di provocazione è vecchio come il mondo. Proprio delle provocazioni terroristiche servirono come pretesto per lo scatenamento delle due guerre mondiali.

Gli eventi dell’11 settembre 2001 sono stati una provocazione mondiale. Si può anche parlare di un’operazione su scala mondiale. Operazioni di questo tipo in genere permettono di risolvere varie questioni globali in una singola occasione. Si possono definire come segue:
1. L’oligarchia finanziaria globale e gli Stati Uniti hanno ottenuto il diritto non formale di usare la forza contro uno Stato.
2. Il ruolo del Consiglio di Sicurezza è stato svalutato. Ora svolge sempre di più il ruolo di organizzazione criminale complice dell’aggressore e alleato della nuova dittatura fascista mondiale.
3. Grazie alla provocazione dell’11 settembre, gli Stati Uniti consolidarono la loro posizione di monopolio mondiale, ottennero l’accesso a qualsiasi regione del mondo così come alle sue risorse.

Lo sviluppo di una operazione-provocazione si sviluppa sempre con la necessaria presenza di 3 elementi:
- chi ordina che si realizzi,
- l’organizzatore
- chi la esegue.

Nel caso della provocazione dell’11 settembre, e contrariamente all’opinione dominante, “Al Qa’ida” non poteva ordinarne la realizzazione, né organizzarla, poiché non disponeva delle risorse finanziarie (enormi) che richiederebbe un’azione di tale entità.
Tutte le operazioni che ha realizzato questa organizzazione sono azioni a livello locale e piuttosto primitive. Non dispone delle risorse umane, né di una rete di agenti sufficientemente sviluppata nel territorio statunitense, in grado di farle penetrare le decine di strutture pubbliche e private che garantiscono il funzionamento del trasporto aereo e vegliano sulla sua sicurezza.
Pertanto, Al Qa’ida non avrebbe potuto essere l’organizzatore di questa operazione (altrimenti a cosa servono l’FBI e la CIA?).

Invece, potrebbe sì esser stato un semplice esecutore di questo atto terroristico.

A mio parere, potrebbe essere stata l’oligarchia finanziaria globale a ordinare l’esecuzione di questa provocazione, per instaurare una volta per tutte «la dittatura fascista globale delle banche» (espressione del noto economista americano Lyndon LaRouche) e garantire il controllo delle risorse limitate a livello mondiale nel settore degli idrocarburi.
Si tratterebbe inoltre di garantire a se stessa il predominio mondiale per un lungo tempo.

L’invasione dell’Afghanistan, un paese ricco di giacimenti di gas, quella dell’Iraq e forse anche dell’Iran, paesi con riserve petrolifere di livello mondiale, così come l’istituzione di un controllo militare sulle rotte strategiche del trasporto del petrolio e il radicale aumento del prezzo di quest’ultimo sono tutte conseguenze degli eventi dell’11 settembre 2001.

L’organizzatore dell’operazione può essere stato un consorzio ben organizzato e abbondantemente finanziato e composto di rappresentanti (passati e presenti) dei servizi segreti, di organizzazioni massoniche e addetti dei trasporti aerei.

La copertura mediatica e giuridica la garantirono organi di stampa, giuristi e politici al soldo. Gli esecutori furono scelti sulla base della loro appartenenza etnica alla regione che possiede le risorse naturali di importanza mondiale.

L’operazione fu realizzata con successo, gli obiettivi furono raggiunti.
Il termine “terrorismo internazionale”, quale principale minaccia per l’umanità, irruppe nell’agenda politica e sociale quotidiana.

Questa minaccia è stata identificata con la persona di un islamista, cittadino di un paese che ha enormi risorse in materia di idrocarburi.

Si è distrutto il sistema internazionale costruito all’epoca in cui il mondo era bipolare, e sono state alterate le nozioni di aggressione, di terrorismo di Stato e di diritto alla difesa.

Il diritto dei popoli alla resistenza di fronte all’aggressione e contro le attività sovversive dei servizi segreti stranieri così come il diritto di difendere i propri interessi nazionali vengono calpestati. Invece, si danno tutte le garanzie alle forze che cercano di stabilire una dittatura mondiale e di dominare il mondo.

Ma la guerra mondiale non è ancora finita. L’hanno provocata l’11 settembre 2001 ed è solo il preludio dei grandi eventi che stanno per accadere.

Il generale Leonid Ivashov
Il generale in congedo Leonid Ivashov è stato capo delle Forze armate della Federazione russa, oggi vicepresidente dell’Accademia dei problemi geopolitici. È stato capo del dipartimento Affari generali del Ministero della Difesa dell’Unione Sovietica, segretario del Consiglio dei ministri della Difesa della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), capo del Dipartimento di Cooperazione Militare del Ministero della Difesa della Federazione russa. Alla data dell’11 settembre 2001 ricopriva la carica di Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate Russe.

Testo originale in lingua spagnola.
Fonte: Red Voltaire / Agenzia IPI.
URL: http://www.voltairenet.org/article159257.html

Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras

15 marzo 2009

Hersh: Cheney comandava una squadra di omicidi politici in stile SS

di Paul Joseph Watson - Prison Planet.com

Traduzione a cura di Paolo Maccioni e Pino Cabras per «Megachip» [QUI] .


Il premiato reporter investigativo Seymour Hersh ha sganciato un'altra delle sue bombe questa settimana, quando ha rivelato che l'ex vice-presidente Dick Cheney disponeva di una sua unità di assassinio politico in stile SS che faceva capo direttamente a lui.

Martedì [10 marzo 2009] Hersh, dinanzi alla platea della University of Minnesota, ha affermato: «Non avevo ancora parlato di ciò dopo l’11/9, ma la CIA era profondamente coinvolta in attività all'interno della nazione contro persone ritenute nemiche dello Stato. Senza averne alcuna autorità giuridica. Non sono stati ancora chiamati a rispondere di questo».

Hersh poi è passato a descrivere in che modo il Comando congiunto delle operazioni speciali (JOSC) è stato un unità di assassinio politico che ha compiuto omicidi politici all'estero. «Si tratta di un braccio speciale della nostra comunità delle operazioni speciali che si muove in modo indipendente», ha spiegato. «Non devono fare rapporto a nessuno, tranne che nel periodo Bush-Cheney, quando riferivano direttamente all'ufficio di Cheney. Il Congresso non ha alcun controllo su di esso.»

La rivelazione che Cheney disponeva di una sua unità privata di assassinio non raffigura un quadro troppo lontano dalla famigerata SA (Sturmabteilung) di Hitler, la tanto temuta ala paramilitare del partito nazista, che fu utilizzata per colpire, torturare e uccidere gli oppositori politici del partito nazista nella Germania degli anni Trenta né dalle Waffen-SS, che successivamente furono utilizzate in guerra per compiere esecuzioni e crimini di guerra.

Le SA furono più avanti prese di mira da Hitler nel corso della Notte dei Lunghi Coltelli, una brutale purga volta a eliminare degli avversari politici sia all’interno che all’esterno del partito nazionalsocialista. Centinaia di persone furono liquidate a sangue freddo dalla Gestapo e dalle SS.

Significativamente, i tribunali e il governo tedeschi rapidamente spazzarono via secoli di leggi che proibivano le esecuzioni stragiudiziali per dimostrare la loro fedeltà a Hitler. Le Waffen-SS furono ritenute non perseguibili, nonostante fossero flagrantemente coinvolte in crimini di guerra patenti e in corso, così come in omicidi a livello interno.

Il Comitato congiunto delle operazioni speciali, l’unità di assassinio in capo a Cheney, è anche descritto come un settore di operazioni 'extra-legali'.

«Si tratta essenzialmente di un circuito esecutivo per gli assassinii, ed è andato avanti a oltranza», ha affermato Hersh. «Sotto l'autorità del Presidente Bush, si sono introdotti in certi paesi senza parlare con l'ambasciatore né con il capo della stazione CIA, e lì hanno rintracciato delle persone prese da un elenco, le hanno uccise e poi se ne sono andati. Questa cosa è continuata, in nome di tutti noi».

Ed è ancora in corso. Nessuno dei capovolgimenti degli ordini esecutivi di Bush da parte di Obama dice nulla circa l'abolizione del Comitato congiunto delle operazioni speciali. Di fatto, l’unità speciale è parte integrante degli ampiamente intensificati bombardamenti di Obama e delle altre incursioni in Pakistan.

Articolo originale: [QUI]

12 marzo 2009

“Adotta una crisi dimenticata”. La critica di Medici Senza Frontiere alle notizie introvabili

di Pino Cabras - da «Megachip»



Quanti morti deve contare un’alluvione in Bangladesh per guadagnarsi un trafiletto a pagina 17, schiacciato però dai resoconti di un reality? Vecchia questione, che le redazioni risolvono aderendo a un presunto gusto medio, quello che ai diecimila asiatici morti poveri preferisce il gossip.

Solo che ultimamente si esagera, soprattutto in Italia, dove la tv schiaccia tutta l’informazione e la politica.

Lo ricorda Medici senza frontiere (Msf), la grande organizzazione medico-umanitaria internazionale che interviene nelle zone critiche del pianeta, flagellate da guerre e malattie. Da noi poco o nulla si è detto delle catastrofi somale e birmane, e ben poco anche sulle guerre civili nella Repubblica Democratica del Congo, giusto per stare all’anno scorso.

Il consuntivo presentato a Roma l’11 marzo 2009 da Msf su come il 2008 sia stato raccontato dalla tv italiana mostra uno dei lati più preoccupanti dell’emergenza informativa: il crescente provincialismo e il debordare del gossip o delle cronache sul maltempo. Le nostre banali influenze invernali divengono “notizie” che surclassano le epidemie che falciano l’esistenza di chi si ammala dalla parte sbagliata del globo. I conti li ha fatti l'Osservatorio di Pavia. Il sontuoso sposalizio di Flavio Briatore ed Elisabetta Gregoraci ha avuto l’onore di 33 tg nazionali, spesso con forti richiami nella titolazione, gli stessi tg che concedevano solo 12 deboli richiami alla grave epidemia di colera in Zimbabwe.

«È nostro dovere raccontare ciò che vediamo sul territorio, e per il quinto anno di fila presentiamo il nostro rapporto», ha ricordato il direttore generale di Msf Italia Kostas Moschochoritis.

Mirella Marchese, dell'Osservatorio di Pavia ha elencato la ‘top ten’ dei silenzi e delle sottovalutazioni, dieci vicende che coinvolgono l’esistenza di milioni e milioni di persone.

Silenzio sulle fughe di massa per i raid statunitensi in Pakistan nord-occidentale; silenzio sulla grave situazione sanitaria in Myanmar; oblio sul colera nello Zimbabwe; ignoranza pressoché totale sulla guerra civile congolese; oscuramento su fame e profughi in Somalia. E poi, chi sa qualcosa di preciso sulla denutrizione dei bimbi di Haiti, Bangladesh e Costa d'Avorio? Chi ha sentito qualcosa del collasso sanitario in Etiopia?; Al di là della parola Darfur, cosa sappiamo del Sudan dalle nostre tv? E del baratro epidemiologico aperto dall’invasione dell’Iraq?

I dati dell’Osservatorio di Pavia sulle notizie internazionali dei tg italiani mostrano impietosamente una tendenza. Se nel 2006 i tg avevano appena il 10% di notizie attente a questi temi, nel 2008 sono precipitati al 6%. Mediaset ha guidato la corsa della distrazione. Studio Aperto dedica ad esempio appena il 2,9% delle notizie. Il padrone, che vuole tv rassicuranti, ne sarà rassicurato.

Su altre crisi c’è stata più attenzione, è vero. Il Medio Oriente, ad esempio, ha coperto il 19% delle notizie. Tuttavia, anche quelle vicende vengono filtrate con la chiave 'domestica' del dibattito politico in Italia o con la cronaca delle violenze senza spiegazione del contesto.

Capita lo stesso per i luoghi più sfigati. Ci vuole il rapimento di qualche italiano o il volto familiare di George Clooney per smuovere qualche frazione del palinsesto in direzione dell’Africa, prima di dimenticare di nuovo tutto.

Di qui la campagna di Msf, patrocinata dalla Federazione nazionale stampa italiana (Fnsi), “Adotta una crisi dimenticata”.

A quotidiani, periodici, programmi radiotelevisivi e organi online è chiesto l’impegno di riferire di una o più crisi dimenticate nel corso dei prossimi 12 mesi, fino al prossimo rapporto. Molte testate importanti hanno aderito. Tra esse ritroviamo anche i maggiori quotidiani, che però si tengono ben strette, anzi sempre più larghe, le colonne del gossip nelle loro edizioni online, sempre più rutilanti e invadenti, a signoreggiare il rumore di fondo del blob pubblicitario.

Roberto Natale, presidente Fnsi contesta l'idea del gusto medio del pubblico televisivo come naturalmente disinteressato a questi argomenti. In capo ai direttori individua una grande responsabilità educativa.

Il collasso della raccolta pubblicitaria e la crisi galoppante dei vecchi modelli di business informativo – ora che infuriano i segni della depressione economica - potrebbe essere un’occasione per un ritorno alla realtà.

Le crisi dimenticate offrirebbero molti spunti per capire anche la Grande Crisi in corso.
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Leggi il rapporto sulle Crisi dimenticate e le modalità per aderire alla campagna “Adotta una Crisi Dimenticata”.

Scarica il Rapporto in formato pdf: [QUI] .
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9 marzo 2009

Gulliver legato dalle guerre inutili

di Pino Cabras - da «Megachip»


L'ex capo delle forze speciali britanniche Sas (Special Air Service) in Afghanistan, il comandante Sebastian Morley, 40 anni, denuncia quanto la campagna militare contro i Taliban sia «inutile». Gli ricorda l’esordio di un’altra guerra che fu da subito in un vicolo cieco: «È l'equivalente dell'inizio della guerra del Vietnam», lamenta Morley in un'intervista al «Daily Telegraph», la prima dopo le sue dimissioni nell’estate 2008, seguite alla morte di quattro suoi uomini che viaggiavano in una Land Rover Snatch, un mezzo obsoleto pensato per la guerriglia urbana nell’Ulster ma totalmente inefficace per proteggere i soldati contro le IED usate nell’insidioso terreno afghano.

«Il numero delle vittime e il logoramento delle truppe non possono che aumentare», prevede Morley.

Trattandosi di una guerra «inutile», il governo britannico ha «le mani sporche di sangue» per via della sua indifferenza alla protezione dei propri uomini in campo. «Teniamo piccole porzioni di terreno nella provincia di Helmand», la zona dell’Afghanistan meridionale di competenza britannica. «Le operazioni che stiamo conducendo sono davvero senza senso. È proprio folle pensare che teniamo quel terreno o che abbiamo alcuna influenza su quel che accade poco oltre le basi».
Insomma, già a mezzo chilometro dai fortini in cui si rintanano i soldati di Sua Maestà, non c’è più alcuna influenza sullo stato delle cose.
«Usciamo in operazioni, ci azzuffiamo con i Taliban e rientriamo al campo per il tè. Non controlliamo il territorio. I Taliban sanno dove siamo. E sanno molto bene quando siamo rientrati al campo», commenta amaramente Morley.

Del resto, non è che per le truppe statunitensi le cose vadano molto diversamente. «Al mondo non sfugge il fatto sufficientemente chiaro che la maggior parte delle nostre forze sono bloccate in Iraq e in Afghanistan», aveva detto già nell’aprile 2007 Daniel Serwer, del think tank US Institute for Peace: «quando Gulliver è legato a terra, tutti lo capiscono».
È in questo contesto che – mentre sfuma la disastrosa utopia bellicista dell’era Bush – si possono comprendere le aperture di Barack Obama e la sua disponibilità a trattare con i Taliban. Il tutto avviene troppo tardi. Se solo si fosse ascoltato il generale Fabio Mini, quando nel 2007 commentava: «La legittimazione fra avversari avviene nel momento in cui si combattono e non nel momento in cui si parlano. Il ruolo di avversario non comporta nessuna accettazione diretta o indiretta dei rispettivi scopi e metodi . Anzi proprio nel riconoscimento delle reciproche posizioni sta sia la possibilità di trovare un punto di accordo sia la definitiva chiarificazione del disaccordo.»

A Gulliver ormai conviene scendere a più miti consigli.

Ma chi lo dice a La Russa e a Fassino, che certo non hanno avuto il coraggio né il realismo degli ufficiali che hanno guardato alla realtà effettuale?

8 marzo 2009

I costituzionalisti: i memorandum del terrore di Bush sono “l’essenza autentica della tirannia”

di David Edwards e Muriel Kane - RawStory.com
versione italiana di Milena Finazzi per Megachip.info (qui)


Fonte dell'immagine: http://mbouffant.blogspot.com/2008_12_28_archive.html

Dal momento della pubblicazione, avvenuta lunedì [2 marzo 2009] di nove memorandum legali fino ad allora secretati che sanciscono il diritto del Presidente di ignorare la Costituzione nell’ambito della lotta contro il terrorismo, gli esperti hanno pressoché unanimemente denunciato le loro argomentazioni giuridiche e le loro conclusioni.

«Questi documenti forniscono la definizione stessa della tirannia», ha affermato martedì il prof. Jonathan Turley, docente di diritto costituzionale nel corso di un’intervista a Keith Olbermann della MSNBC. «Questi documenti racchiudono tutto quello che un despota di bassa lega potrebbe desiderare».



Turley ritiene tuttavia che le rivelazioni peggiori debbano ancora arrivare. «Questi memorandum non provengono dal nulla», rileva. «Il punto è scoprire quali sono state le loro conseguenze. Sappiamo, tra le altre cose, che hanno generato un programma di tortura. ... Penso che presto ci renderemo conto che queste sono appena le fondamenta di un edificio assai più grande ancora tutto da scoprire».



Il Dipartimento di Giustizia ha già dichiarato di considerare possibile la pubblicazione di ulteriori pareri legali dell’era Bush.Turley ha inoltre criticato aspramente John Yoo, l’ex avvocato del Dipartimento di Giustizia, responsabile di molte delle più estreme rivendicazioni del potere esecutivo. «Non riesco a ancora credere che possa aver prodotto un lavoro del genere», afferma incredulo Turley. «È veramente pessimo in termini di analisi giuridica. ... È assai esemplificativo, penso, dell’enorme tragedia di un individuo molto brillante che ha lavorato molto, molto intensamente per soddisfare il presidente e per dirgli quello che voleva sentirsi dire».



Turley, tuttavia, potrebbe sottostimare l’influenza di Yoo. Nel 2007, il giornalista Charlie Savage aveva fatto rilevare che l’Office of Legal Counsel [l’Ufficio degli Affari Legali del Dipartimento della Giustizia USA, Ndt] era privo del suo capo durante le cruciali settimane immediatamente successive all’11/9, e che ciò lasciava Yoo libero di dare attuazione alle sue idee.



«Era molto conservatore,» Savage dice di Yoo, «e si è fatto un nome nella comunità accademica scrivendo articoli per riviste giuridiche e presentando relazioni in occasione di eventi durante i quali assumeva provocatoriamente delle posizioni revisioniste circa la sfera di competenza del potere esecutivo. ... Comunque, quando [Yoo] divenne il vice responsabile dell’Uffico degli Affari Legali con delega alla Sicurezza Nazionale e agli Affari Esteri e dopo l’11/9 rimase senza capo, si ritrovò a poter mettere in pratica le sue teorie, stilando pareri consultivi riservati nei quali suoi lavori degli anni Novanta venivano citati come fonti autorevoli.»



Turley conclude riaffermando il suo scetticismo nei confronti del piano promosso dal senatore democratico del Vermont Patrick Leahy volto a creare una “commissione verità” mirante ad indagare sui misfatti dell’era Bush e, rivolgendosi ad Olbermann, afferma: «Spetta al resto di noi dire che, se il Presidente Obama ritiene che nessuno si trovi al di sopra della legge, abbiamo bisogno di un procuratore speciale e di un’inchiesta – non di un’altra commissione».





Articolo originale: David Edwards and Muriel Kane, Turley: Bush terror memos are 'very definition of tyranny', RawStory.com.

Traduzione di Milena Finazzi per Megachip: [QUI]

3 marzo 2009

La controglobalizzazione affonda l’UE a 27

di Pino Cabras - da «Megachip»



Non sappiamo se l’Europa del “Trattato di Lisbona” sia finita in questi giorni al vertice europeo straordinario di Bruxelles, se era già finita prima, o se dovremo fissare un’altra data in un futuro ravvicinato. Poco importa, sono convenzioni, che si intrecciano con l’imprevedibilità delle costruzioni giuridiche europee e soprattutto con l’imprevedibilità della loro possibile decostruzione. Sappiamo però che tutto l’impianto su cui si era fondato l’allargamento europeo sta precipitando a una velocità spaventosa nel gorgo della più grande depressione economica mai vista.

Dico mai vista, pensando perfino ai ritmi dell’altra Grande Depressione. Nel 1931 la produzione industriale europea calava del 5%. Oggi il calo è tre volte più intenso. Con la differenza che a quel tempo la bolla bancaria e parabancaria non si misurava in multipli del prodotto interno lordo dei singoli paesi, come oggi vediamo per i paesi della Vecchia Europa (non dà conto parlare di quelli della Nuova Europa, sull’orlo della bancarotta ).
La controglobalizzazione galoppa sulle ali degli attuali e dei prossimi fallimenti di banche, da soli in grado di innescare il default di interi stati.

Colpisce l’impotenza dei protagonisti politici dei vari paesi europei. Non c’è neanche il tempo di godersi lo svanimento repentino di certe sfrontatezze dei governanti di Polonia, Repubblica Ceca o Ucraina, che avevano giocato a fare i campioni dell’americanismo e oggi sono con il cappello in mano, a chiedere soccorso dove pure piove a dirotto. Perfino la fine catastrofica di quell’arroganza mi sgomenta, perché è il segno di come ora possano essere annichiliti in un istante tanti punti di riferimento, negativi e positivi.

Le classi dirigenti adesso in campo non sono state selezionate dalla crisi, ma dal suo esatto contrario. Vengono da un sistema che non riusciva più nemmeno a contemplare qualcosa di diverso da una molle espansione indefinita. Com’è che recitava il mantra del Consiglio europeo di Lisbona? Diventare entro il 2010 «l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.»

Riascoltate tutte queste parole una per una, e guardate come ormai invece i governi puntino solo a salvare il salvabile, senza sapere come farlo, con quali priorità, con quali effetti a catena. Nel marasma, si ritorna entro perimetri più domestici, tanto nelle scelte dei governi, quanto negli orientamenti popolari. Gli aiuti nazionali alle banche scontano l’enorme prezzo di lasciare a se stesse le economie estere in cui quelle banche avevano investito, per concentrare la speranza di far ripartire il credito alle imprese, quelle che rimarranno, dentro il proprio paese. La controglobalizzazione, appunto.
A questo punto sarebbe abbastanza azzardato fare qualsiasi previsione su quel che accadrà in questo anno terribile. Nella testa dei governanti risuonano parole d’ordine senza più significato, ancora legate alla fase dell’egemonia neoliberista angloamericana. La sinistra europea è parimenti spiazzata. Qui e lì si cerca di ristudiare in fretta e furia una qualche forma di intervento statale.

Gli USA di Obama cercano di raggiungere un’enorme massa critica d’intervento pubblico in grado di deviare il corso delle cose. Contano sulla residua affidabilità della loro capacità d’indebitarsi senza fallire, coperti dallo status garante della superpotenza. Il gioco reggerà finché i buoni del tesoro USA saranno acquistati. Una scommessa che vinceranno o perderanno quest’anno. E se vincono sarà a scapito di altri soggetti che emetteranno debito.

Altrettanta massa critica non si vede ancora nell’intervento europeo. L’Europa non permetterà il default dell’Est, perché sarebbe davvero una catastrofe. Ma ignora ancora come impedirlo. Gli automatismi e le rigidità eurocratiche sono comunque in rapido declino. Se nascerà un intervento coordinato dal peso autenticamente continentale, certo non passerà per la Commissione ma per il Consiglio europeo. Se fra qualche anno ci sarà ancora l’Euro a far da scudo, certo avverrà per una disponibilità al sacrificio dei paesi meno a rischio default, solo che oggi non la danno a vedere. Sono tanti i “se” che queste classi dirigenti vissute in tempi molli non sanno dipanare nei tempi duri.

Sulla situazione europea ecco un'intervista del 2 marzo 2009 a Giulietto Chiesa sulla Tv russa in lingua inglese Russia Today:

1 marzo 2009

Il nucleare non è la strada del futuro

PANDORA TV
Il nucleare non è la strada del futuro
Intervista a Serge Latouche