30 dicembre 2008

Gaza. È terrorismo. È strage. Si può raccontare il crimine

di Pino Cabras - «Megachip»

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Nei giorni dell’atroce strage di Gaza l’orrore si condensa inevitabilmente sulle immagini e le voci delle vittime. Tanti piccoli tasselli che non riescono a ricomporre ancora il quadro della tragedia. Capire e riflettere in mezzo a tanta sciagura è difficile. Ma dobbiamo farlo, per ricostruire i fatti e il contesto.

Dopo anni di occupazione, l’11 settembre 2005, l’esercito israeliano ammainò la bandiera a Gaza, non appena fu completato il rapido sgombero delle colonie ebraiche sulla Striscia, troppo costose da tenere. Lunghe colonne di mezzi militari si allontanavano. Era il disimpegno unilaterale di Ariel Sharon: nessun riconoscimento politico che mettesse alla pari gli interlocutori palestinesi. Gli israeliani salutavano, ma non se ne andavano. Il mare e il cielo erano interamente sotto controllo israeliano. E che controllo.

In mare, la misera marineria palestinese non aveva più diritto a pescare nemmeno sulla battigia. Nessun molo funzionante, nemmeno per commerciare un po’ di derrate alimentari fresche.

In cielo, nel corso degli ultimi tre anni non si contano le azioni di bombardamento. In cielo, soprattutto, i jet con la stella di David hanno volato di proposito e di continuo a velocità supersonica, specie di notte, per creare insopportabili rumori. Un trauma senza posa che non ha risparmiato i bambini.

In terra, tutto il confine con Israele era una barriera chiusa e impenetrabile. Non bastava lo sfiato esiguo del confine con l’Egitto a trasformare questo territorio in qualcosa di diverso da una prigione. Serrato in via definitiva il passaggio di Karni, da cui potevano entrare le importazioni palestinesi sbarcate nel vicinissimo porto israeliano di Ashdod, pochi chilometri a nord, i palestinesi dovevano affidarsi ai porti egiziani di Port Said o Alessandria, a 200 chilometri l’uno, a 400 l’altro, con costi insostenibili per una popolazione già stremata. Questa era Gaza resa libera. La più grande prigione del mondo, un popolo intero, un milione e mezzo di persone. E più di ogni altra prigione, piena di innocenti.

Quando nel 2005 ci fu il “ritiro” unilaterale, uno sguardo spassionato alle circostanze avrebbe permesso di capire al volo che quello non era un refolo di speranza, ma la base per un aggravarsi della situazione. Sarebbe bastato rileggersi l’intervista concessa il 6 ottobre 2004 al quotidiano «Haaretz» da Dov Weisglass, braccio destro di Sharon, quando dichiarò che il cosiddetto piano di disimpegno da Gaza (che prevedeva anche la costruzione del muro in Cisgiordania) era solo una manovra diversiva intesa a fornire a Israele «una quantità di formaldeide sufficiente affinché non ci sia un processo politico con i palestinesi».

Un mese dopo, moriva Yasser Arafat, il padre della patria, presidente dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese. Gli esponenti della classe dirigente laica di al-Fatah, fino ad allora tenuta insieme dal carisma di Arafat, apparivano ormai nudi nei loro terribili difetti. Avevano rubato a man bassa e si costruivano ville palladiane in mezzo alla miseria dei Territori occupati, mentre non avevano risultati tangibili da offrire come frutto della loro negoziazione continuamente soverchiata dal pugno di ferro del governo israeliano e mestamente instradata verso un percepito collaborazionismo. Per contro cresceva nella popolazione il prestigio del "Movimento di Resistenza Islamico". Il suo acronimo arabo, Hamas, significa “zelo, entusiasmo”. I dirigenti di Hamas conducevano una vita frugale, intanto che in mezzo alle rovine tessevano reti di solidarietà materiale, una sorta di welfare residuale, ma infinitamente più credibile del disastro in cui sprofondava l’Anp.

Fu così che nel gennaio 2006 Hamas vinse le elezioni parlamentari palestinesi, con 76 seggi della camera su 132, mentre al-Fatah ne prese 43. Una vittoria autentica ed elettoralmente pulita, ma anche una variabile che nei calcoli delle potenze coinvolte non si considerava accettabile. Quando la democrazia ha due pesi e due misure.

Ancora Dov Weisglass, stavolta in veste di coordinatore di una squadra di governo che comprendeva anche i capoccioni delle forze armate e incaricata delle azioni anti-Hamas, commentò così subito dopo le elezioni l’intento di avviare una crudele stretta economica all’Autorità palestinese: «è come andare dal dietista: i palestinesi dimagriranno un bel po’, ma non moriranno mica». I presenti, tra cui Tzipi Livni, scoppiarono a ridere (vedi Gideon Levy, “As the Hamas team laughs”, «Haaretz», 19 febbraio 2006).

Weissglass in fondo è uno spiritoso. Nella famosa intervista ad «Haaretz» del 2004 aveva ben rimarcato quanta formaldeide servisse per imbalsamare le velleità di un accordo di pace: «noi abbiamo istruito il mondo, affinché capisca che non c’è nessuno con cui trattare. E abbiamo ricevuto un attestato... [che non c’è nessuno con cui trattare]. L’attestato sarà revocato solamente quando la Palestina diventerà come la Finlandia». La versione moderna delle calende greche, per chi osasse ancora vagheggiare due popoli in due stati.

I palestinesi della grande prigione non sono diventati finlandesi. Hanno subito fino in fondo la dieta, giorno dopo giorno. Nonostante la difficile tregua, la vite si stringeva sempre di più, venivano fatti passare sempre meno camion di aiuti, e nulla usciva dal campo della disperazione concentrata.

Gaza è il caso più disgraziato. Ma anche in Cisgiordania non si scherza. Il governo israeliano ha disposto la chiusura di decine di organizzazioni caritatevoli. La scusa è tagliare qualsiasi flusso che possa favorire Hamas. Quel che accade in realtà è la desertificazione di tutti i corpi intermedi, di tutte le formazioni sociali in seno alla popolazione palestinese, per lasciare spazio solo all’emergenza umanitaria in mano altrui. Magari in mano all’Onu, purché non rompa le scatole come faceva con Richard Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, un ebreo cui è ormai vietato entrare in Terra Santa per aver espresso forti critiche sulla politica di occupazione israeliana.

Al solito, di fronte a vicende di guerra, i media occidentali più importanti manipolano pesantemente le notizie. Sono complici di quelle classi dirigenti che – dopo l’11 settembre - hanno fatto di tutto per distruggere un ordinamento giuridico internazionale che ammetteva norme non basate sul solo diritto di potenza, inquinare i punti di riferimento concettuali per la definizione di ciò che è aggressione o tirannia o resistenza, mentre potenti interessi imperialistici condizionano l’economia – vicina a un baratro finanziario – entro la gabbia delle priorità militari. Gli Stati Uniti non stanno sollevando alcuna obiezione, rispetto all’ennesima azione scellerata del governo israeliano. Ma anche le voci europee sono flebilissime.

Ernesto Balducci, quando nel 1991 scorreva il bollettino delle vittime nella Guerra del Golfo notava che a fronte di qualche centinaio di americani, c’erano centinaia di migliaia di morti iracheni: non più una guerra codificata dalla ragione e dal diritto, ma una strage. Credo che anche oggi la parola strage sia la più adatta a descrivere la scena di Gaza. Un’immane strage.
Fra i responsabili dell’eccidio c’è il ministro della difesa israeliano, l’ex premier Ehud Barak. Giustifica anche lui tutta questa ferocia pianificata in nome della lotta al terrorismo.

Pur essendo la parola ‘terrorismo’ una delle più usate nella politica degli ultimi anni, la sua definizione non ha affatto interpretazioni univoche. In molte occasioni i vertici di capi di stato e di governo hanno trovato difficoltà quasi insormontabili quando hanno cercato una definizione minima comune. Se si ragiona un po’ sulla questione, si scoprono tante sfumature che sottostanno alle definizioni polimorfe di un fenomeno sfuggente. A stento troverete fattispecie ben delineate, mentre vi imbatterete più spesso in parole che si adatterebbero tranquillamente alla descrizione di certi atti di guerra e di spionaggio che invece sono coperti da una qualche vernice di legalità.
Dimenticate per un minuto i bersagli di solito segnalati da politici e mass media, scordate l’iconografia di un gruppo di kamikaze che si auto-organizza. Troppo facile.

Provate invece a pensare a certe azioni fatte con la copertura di eserciti, Stati, organizzazioni non governative, servizi, multinazionali della security imparentate con il mondo dello spionaggio. Saranno diversi i gradi di visibilità della copertura dei governi, ma vedrete che quelle definizioni tornano indietro come un boomerang.

La prima grande ondata di attacchi aerei in Iraq nel 2003 venne chiamata «Shock and Awe». Non è facile tradurre questa espressione in due parole, per la densità di richiami che contiene. Normalmente i giornali italiani tradussero “colpisci e terrorizza”, “colpisci e sgomenta”, per mantenere la forza icastica dell’espressione e approssimarsi comunque al significato. Ma è interessante perdere un po’ dell’effetto per cogliere i significati di un’altra possibile traduzione: “sconvolgi e induci in soggezione”. Si coglie così non tanto la furia cieca del fanatico rozzo, quanto la risolutezza metallica del fanatico freddo, che distilla la ‘strategia della tensione’ in un blitzkrieg. Quante volte ritorna l’espressione ‘Terrorismo di Stato’ e di ‘Stato terrorista’, nella Grozny annientata dai carri armati russi, nel Libano devastato dall’aviazione israeliana, nelle lotte di potere in Pakistan, nella memoria degli anni di piombo italiani? A ogni buon conto, l’organo neocon italiano, «Il Foglio», ha plaudito anche stavolta in prima pagina alla rivendicata “strategia shock and awe”.

Cos’è dunque il terrorismo? Il terrorismo non è solo una questione di terroristi. In un certo senso ce lo dicono anche le Convenzioni di Ginevra. Anche se non definiscono la nozione di “terrorismo”, le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 si riferiscono a “misure di terrorismo” e ad “atti di terrorismo”. L’articolo 33 della IV Convenzione di Ginevra in modo esplicito vieta che la popolazione civile venga fatta oggetto di «pene collettive, come pure [di] qualsiasi misura d’intimidazione o di terrorismo». La vicenda di Gaza è un caso lampante di pena collettiva inflitta alla popolazione. E gli ultimatum che dicono “stiamo per bombardarvi”, lungi dal significare “vogliamo salvarvi la vita, spostatevi” sono atti d’intimidazione e induzione del terrore. Come stupirsi delle parole non prevenute di Richard Falk, pronunciate nel 2007, quando ancora l’assedio di Gaza non era giunto alle punte di crudeltà più recenti?
Falk dichiarava:

«È forse un’esagerazione irresponsabile associare il trattamento dei palestinesi alle pratiche di atrocità collettiva dei nazisti? Non credo. I recenti sviluppi a Gaza sono particolarmente inquietanti perché esprimono in modo sconvolgente un’intenzione deliberata da parte di Israele e dei suoi alleati di sottoporre una comunità umana nella sua interezza a condizioni di massima crudeltà che ne mettono in pericolo la vita. La suggestione che questo modello di comportamento sia un olocausto in erba rappresenta un appello disperatissimo ai governi del mondo e all’opinione pubblica internazionale affinché agiscano d’urgenza per impedire che queste attuali tendenze al genocidio finiscano in una tragedia collettiva».
L’articolo 4 del Secondo Protocollo Aggiuntivo delle Convenzioni di Ginevra stabilisce che contro tutte «le persone che non partecipano direttamente o non partecipano più alle ostilità […] siano proibiti in ogni tempo e in ogni luogo […] atti di terrorismo». Ancora una volta, senza arrivare alle definizioni “teologiche” di terrorismo, quelle della Guerra al Terrorismo per intenderci, il diritto internazionale ha cercato di codificare fattispecie precise. In entrambi i disposti delle Convenzioni di Ginevra si enfatizza che né singoli individui né la popolazione civile in quanto tale possono essere fatti oggetto di punizioni collettive che, fra l’altro, indurrebbero in essa una condizione di terrore.

Questo concetto si rafforza nel Primo Protocollo Aggiuntivo, laddove, all’articolo 51, è stabilito che «sia la popolazione civile che le persone civili non dovranno essere oggetto di attacchi» e che «sono vietati gli atti o minacce di violenza, il cui scopo principale sia di diffondere il terrore fra la popolazione civile.»

Qualche azzeccagarbugli del diritto umanitario proverà a confondere le acque, giocando fra le definizioni di politica interna e internazionale degli interventi militari. Ma il disposto ricompare quasi alla lettera nel Secondo Protocollo Aggiuntivo: la qualificazione del conflitto come internazionale o interno non ha grande rilevanza.

La strage di Gaza è una misura di terrorismo. Un atto di terrorismo. Affermare che si volevano colpire i soldati di Hamas è una giustificazione sottile come la carta velina. I poveri poliziotti massacrati nel giorno del loro giuramento non erano certo persone che “partecipano direttamente alle ostilità”. Erano parte di una fragile infrastruttura di sicurezza interna del territorio. Fragile come il miraggio del misero stipendio– cosa rara in un luogo in cui ormai tutti sono disoccupati - che forse li allontanava dallo spettro della denutrizione toccata in sorte ai loro connazionali. In tutto e per tutto vittime civili anche i poliziotti morti, come i bambini morti nelle macerie delle scuole.

Che l’obiettivo fosse distruggere qualsiasi dimensione civile dei territori, lo dimostra in modo flagrante la disintegrazione dell’Università. Che si aggiunge alle devastazioni inflitte anni addietro a tutte le infrastrutture palestinesi. Sono rimasti i forni, senza elettricità e senza pane.
Nelle indecenti corrispondenze di molti giornali e telegiornali si asseconda il concetto che l’incursione delle forze armate israeliane servirà a distruggere la percezione di utilità di Hamas nella popolazione civile. Ridurre tutti alla disperazione per rovesciare Hamas, insomma. Di fronte a questo intendimento, ci basta rispolverare la definizione ufficiale di “terrorismo” adottata dal Dipartimento della Difesa Usa: «Il terrorismo è l’uso calcolato della violenza o della minaccia di violenza per indurre paura, intesa a coartare o intimidire stati o società nonché al perseguimento di obiettivi che sono generalmente politici, religiosi e ideologici».

Non vi piace? Volete quella dell’Fbi? Eccola: «Il terrorismo è l’uso illegale della forza o della violenza a danno di persone o proprietà per intimidire o coartare un governo, la popolazione civile o un loro segmento, seguendo obiettivi politici o sociali».
Definizioni troppo americane? Torniamo in Europa, allora. La Decisione quadro sulla lotta contro il terrorismo, adottata dal Consiglio Europeo il 13 giugno 2002 lo definiva come «ogni atto terroristico commesso, da uno o più individui, contro uno o più Stati, intenzionalmente, o tale da arrecare pregiudizio a un’organizzazione internazionale o a uno Stato. Deve trattarsi di atti terroristici commessi con l’intenzione di minacciare la popolazione e di ledere gravemente o distruggere le strutture politiche, economiche o sociali di uno Stato (omicidi, lesioni personali, cattura di ostaggi, ricatti, fabbricazione d’armi, attentati fatti eseguire da terzi, minaccia di porre in atto simili azioni …)».

Ecco, sfumiamo i termini statuali dei soggetti, andiamo agli atti concreti. Siamo lì. Siamo nell’ambito di fattispecie che definiscono forme di azione violenta e illegale, tali da mettere in pericolo la popolazione civile, e quindi indurre una condizione di “terrore” diffuso così da ottenere alcuni risultati di tipo politico.

Possiamo certo riconoscere questa definizione anche a carico di chi lancia i razzi Kassam, che lo spudorato corrispondente del Tg1 definisce missili, ma che sono poco più che delle catapulte, dagli effetti drammatici ma strategicamente trascurabili. Ma perché non riconoscerla a carico di chi invece – tranne le sue bombe atomiche – ha usato sinora tutto il resto di un armamentario spaventoso e senza proporzione?

Questa critica dura e senza sconti alle classi dirigenti israeliane e ai loro alleati significa avere la volontà o la velleità di distruggere Israele? No, è la semplice opposizione alla ‘normale’ e spregiudicata politica di potenza di uno Stato guerresco contemporaneo. Uno Stato che – al pari degli altri Stati – non deve essere considerato in odore di santità né pervaso da fumi demoniaci, ma semplicemente valutato con tutto l’arsenale della critica razionale, per quello che fa e che progetta, per il potere che ha e per lo scontro che il suo potere genera.

Relativizziamo, anche in questo caso.

Il processo di costruzione di Israele come nazione non si è risparmiato indicibili crudeltà e ingiustizie, ma è stato così anche per gli Stati-nazione più forti che conosciamo. La Francia che passa per guerre civili e religiose e accresce la sua economia a spese delle colonie, la Spagna della "limpieza de la sangre" e della Conquista, gli Stati Uniti con la Nuova Frontiera che schiaccia i nativi, la Russia che edifica un impero con impressionanti democidi, la Germania che prende le misure del mondo con enormi massacri e genocidi, la Cina che calpesta le minoranze, la stessa nostra Italia che si unifica con grandi tributi di sangue e dove Cristo è più o meno sempre fermo a Eboli. Dietro tante epopee nazionali c’è un terribile bagno di sangue, che dovrebbe spingere a non demonizzare, ma semplicemente a riconoscere il crimine quando esso si manifesta con tanta capacità di devastazione. In questo caso, oltre al diritto alla vita delle persone, oltre al diritto del popolo palestinese, oltre al diritto internazionale, è in gioco la pace a livello globale, per l’insieme di relazioni che si disputano nello scenario mediorientale. Cui si aggiunge la pericolosissima tradizionale unilateralità del governo israeliano, ancora una volta “pares non recognoscens”, ora in una polveriera più sconvolta.

E, per come si stanno comportando i mass media, è in gioco la possibilità di raccontare ancora delle verità sulla barbarie.

Denunciare la strage di Gaza con una capacità di esecrazione equivalente a quella consumata per la strage di Mumbai. Si può?

Contrastare subito le aggressioni, adesso, non con invisibili autocritiche “a babbo morto”, come è avvenuto per l’aggressione della Georgia all’Ossetia del Sud. Si può?

Non lasciar passare in cavalleria terrificanti crimini di guerra, come si è fatto per Bush che candidamente ha ammesso che la devastazione dell’Iraq è nata da falsi pretesti. Si può? Si può farlo ora?

Raccontare che i razzi Kassam di questi giorni non c’entrano nulla, perché anche «Haaretz» riferisce che l’attacco era pianificato da mesi e mesi. Si può?

Se non si fa disinformazione, si può.

Aggiornamento:
Il presente articolo è stato riportato anche su «AntimafiaDuemila», «Marco-Ferri.com», «AriannaEditrice», «AltraInformazione», «SudTerrae», «Clarissa».

29 dicembre 2008

Il tragico sogno della rigenerazione


Un volume dello storico Emilio Gentile ricostruisce il contesto sociale, culturale e antropologico della Prima guerra mondiale


di Gianluca Scroccu
da «L'Unione Sarda» Lunedì 29 dicembre 2008

“È uscito dalla trincea, aveva fatto appena quattro metri, ed è stato steso. Era impossibile andare a cercarlo. Abbiamo assistito a tutta la sua agonia, chiamava i compagni per nome. Chiamava sua moglie, chiamava la sua bambina. Tutti piangevano. Mai, nella mia vita, sono stato tanto sconvolto. Questa guerra di trincea è fatta di piccoli assassini”.

Sono le drammatiche parole con cui il pittore Fernand Léger descriveva, nell'ottobre del 1914, tutta la follia disumana di quella guerra che, nelle sua immaginazione e in quella di tanti altri suoi coetanei, avrebbe dovuto rigenerare e rafforzare l'onnipotenza dell'uomo del XX secolo, e che invece avrebbe fatto cadere il mondo nell'abisso di un orrore sino ad allora sconosciuto. Il contesto sociale, culturale e antropologico nel quale si sviluppò il massacro della Grande Guerra è stato ora ricostruito dallo storico Emilio Gentile nel suo saggio L'apocalisse della modernità. La Grande Guerra per l'uomo nuovo (Mondadori, pp. 308, € 27).

Tra i massimi studiosi a livello mondiale del fascismo e del processo di sacralizzazione della politica in età moderna, l'autore rievoca, con una straordinaria acutezza facilitata da una scrittura coinvolgente e da un ricco apparato iconografico, quel clima che all'inizio del Novecento attraversò l'Europa portando tanti intellettuali ad invocare una guerra generatrice di una nuova visione del mondo. Se infatti l'Esposizione Universale di Parigi del 1900 aveva rappresentato la celebrazione della scienza e di una nuova umanità, si erano sviluppate parallelamente tendenze fortemente critiche che avevano sottoposto ad una dissacrazione corrosiva l'ottimismo della Belle Époque, facendo nascere un pessimismo che avrebbe lacerato l'anima di molti europei e che, soprattutto attraverso il pensiero di Nietzsche, avrebbe diffuso e alimentato l'idea che una catastrofe di immani proporzioni avrebbe potuto rappresentare il passaggio fondamentale per arrivare ad un superuomo finalmente capace di realizzare una rigenerazione totale dell'umanità.

L'elemento irrazionale, a cui si accompagnava la profezia di questa nuova fine del mondo, avrebbe ispirato in quei quindici anni del secolo i sogni e le opere di tanti grandi della letteratura e delle arti figurative. Anche loro si convinsero che quella che appariva come una sostanziale fragilità della modernità, di cui il naufragio del Titanic del 1912 aveva rappresentato l'elemento più forte sul piano simbolico, sarebbe stata superata soltanto da un grande conflitto.

Furono le giovani generazioni, come opportunamente mette in luce l'autore, ad essere imbevute maggiormente di quell'attesa quasi messianica; molti ragazzi scelsero di partire come volontari, convinti che quella guerra segnasse l'inizio di un nuovo corso della storia.
L'odio e l'orrore, invece, divennero da subito l'elemento caratterizzante della vita di trincea, alimentando quei processi sempre più forti di sacralizzazione della politica, generati anche dalla violenza e dalla feroce contrapposizione guidata dalla dialettica amico/nemico, che avrebbero poi caratterizzato gli scenari europei nell'immediato dopoguerra.

La sola modernità che sopravvisse all'immane carneficina fu quella della centralità di armi sempre più potenti, affiancata dal rafforzamento del controllo dello Stato sulla vita dell'individuo.

Alla fine, da quella “apocalisse della modernità” si sarebbe generata l'era dei totalitarismi, e con essa l'ulteriore, immenso sacrificio della libertà e della vita di milioni di uomini e donne innocenti.

24 dicembre 2008

Le premonizioni della Grande Crisi

di Pino Cabras – da «Megachip»



Si sprecano le parole di sorpresa per la Grande Crisi in corso. Se ne parla il più delle volte come di un evento improvviso e imprevedibile.
In realtà c’era già chi riusciva a intravedere il tracollo, anche senza andare a spulciare le vecchie carte americane dei soliti ottimi Nouriel Roubini e Joseph Stiglitz. Prendiamo ad esempio il compianto Paolo Sylos Labini.

In un appassionato intervento a un convegno della Cgil nell’ormai lontano 2002 il grande economista italiano fece una lucida analisi sull'imminente indebolimento del dollaro e l’insostenibilità del debito pubblico e privato negli Stati Uniti. Una disamina ricca di dati precisi, cui corrispondevano analisi poi rivelatesi esatte. Un anno dopo, al momento di ripubblicare quell’opera, Sylos Labini scriveva: «esprimevo gravi preoccupazioni sulle prospettive dell’economia americana, che condiziona fortemente le economie degli altri paesi e, in particolare, quelle europee. La mia diagnosi fu giudicata da molti pessimista, ma i fatti, finora, mi hanno dato ragione. Oggi la mia diagnosi è ancora più pessimista, ma, giusta o sbagliata che sia, essa si fonda non su intuizioni o sul fiuto, bensì su un’analisi approfondita.» La chiave giusta di quello studio era proprio la profondità. Conviene leggerlo per intero, è una lettura veramente istruttiva: [QUI]

Contrariamente a quegli economisti-sacerdoti che in questi ultimi anni hanno officiato i riti e i dogmi neoliberisti, Sylos Labini usava la memoria plurisecolare delle scienze economiche, interessandosi ai cicli economici prosperi e a quelli recessivi o perfino depressivi del capitalismo: «Da almeno due anni avevo notato alcune rassomiglianze fra la situazione che si era determinata in America negli anni Venti del secolo scorso, un periodo che sboccò nella più grave depressione nella storia del capitalismo, e la situazione che si andava delineando oggi in America», ricordava Sylos Labini. « Il motore dello sviluppo ciclico è costituito dalle innovazioni: più sono importanti, più sono diffuse le occasioni di investimento che offrono e più dura la fase di prosperità. Al tempo stesso, però, sono più vigorose le ondate speculative, più frequenti sono gli errori dei manager e più crescono i debiti, le cui dimensioni, cessata la prosperità, condizionano la durata della crisi.»
Certo, Sylos Labini non era tanto di moda, nelle pagine economiche della nostra grande stampa, compresa quella economica.
Si preferiva dar retta ai signori del ‘rating’, quelli che ancora pochi giorni prima che Lehman Brothers sprofondasse nel gorgo dei debiti, quest’anno, le attribuivano uno sconsiderato AAA. Per loro era una bestemmia pensare che i manager potessero commettere errori, per giunta «più frequenti».

L’analogia con gli anni venti non finiva qui. L’altra grande affinità (dalle conseguenze enormi, ricordava Sylos Labini) era la disuguaglianza distributiva: «si indebolisce la domanda di beni di consumo e vengono alimentate le operazioni speculative e i debiti contratti per finanziarle.» Ecco le bolle speculative, che nel capitalismo di oggi diventano più grosse del PIL mondiale e si contagiano istantaneamente.
Sylos Labini non riteneva che quei debiti fossero una scatola nera misteriosa, da tralasciare. Rivendicava anzi la necessità di una «teoria dell’instabilità finanziaria fondata sull’indebitamento». Nel mondo bastava una mano a contare, oltre a lui, gli economisti che se ne occupavano. Ma era in ottima compagnia: fra questi c’era Paul Krugman, un signore che poi nel 2008 ha vinto il Nobel per l’Economia.

Al centro della riflessione era la nuova fabbrica dei debiti, gli Stati Uniti. L’insostenibilità dei tanti modi d’indebitarsi compresenti nel sistema statunitense, per i comuni cittadini come per il sistema-Paese, era evidente a uno sguardo attento. Il Nobel dell’economia Joseph Stiglitz lo faceva in qualche modo notare, ma rimaneva anche lui inascoltato. Stiglitz ricordava che nel gli USA prendevano a prestito dal resto del mondo oltre due miliardi di dollari al giorno: «è improbabile che si possa andare avanti così; […] rimane vero che qualsiasi cosa sia insostenibile non è sostenibile per sempre».

Il mainstream preferiva amplificare le enunciazioni autogratificanti dell’amministrazione Bush che vantavano una crescita economica sostenuta del prodotto interno lordo USA. Invece la qualità dell’occupazione era in decadimento, la produzione interna crollava e l’economia nel suo complesso si riorientava verso la guerra. Il debito con l’estero già da anni era a un livello critico, senza precedenti per un paese industrializzato. I giornali ignoravano perfino allarmi del Fondo Monetario Internazionale (FMI), che vedevano in questa situazione – ad oggi precipitata – un serio pericolo per l’economia mondiale.
Non ammaestrati dalla crisi delle borse dopo la bolla della New Economy, i media riportavano acriticamente i comunicati trionfali diffusi a fine 2003 dal Dipartimento del Commercio USA, proprio nel momento in cui i tassi d’interesse erano minimi e partiva la bolla immobiliare, così come decollavano alla grande i fondi d’investimento che si portavano in pancia una finanza opaca e incomprensibile che rendeva illeggibili i rischi e i debiti, la finanza dei derivati e delle «posizioni su veicoli di investimento strutturati». Con un rialzo dell’8,2% del PIL per il terzo trimestre, si magnificava il fatto che il paese non avesse mai conosciuto una crescita così forte da 19 anni. La stampa salutava «il ritorno della crescita negli Stati Uniti».
Sylos Labini smontava già allora pezzo per pezzo questa euforia irresponsabile.
Alle osservazioni dell’economista possiamo aggiungere il nostro senno di poi. Intanto aumentava la disoccupazione. Ma soprattutto l’entusiasmo rimuoveva due questioni di eccezionale importanza. E cioè il fatto che le performance di crescita del PIL erano legate a una spirale d’indebitamento e a una riallocazione della enorme spesa pubblica in direzione del settore militare. L’incapacità operativa di fronte all’uragano Katrina – che nel 2005 spazzò via New Orleans – è uno dei più terribili sintomi di questa riallocazione delle priorità. Obama punterà molte carte sulla manutenzione. Aumenterà la domanda aggregata di beni e darà segni tangibili di cura del bene comune.

La base della crescita degli Stati Uniti prima del Grande Crollo borsistico del 2008 si è fondata finanziariamente sull’indebitamento. Mentre negli anni della presidenza di Bill Clinton si arrivò addirittura a un forte surplus, nel 2002, per la prima volta dal 1997 gli USA scontarono di nuovo un deficit di bilancio. Era all’1,5% nel 2002, al 3,5% nel 2003, al 4,2% nel 2004. L’aumento delle spese militari non si bilanciava nemmeno con i pesanti tagli sociali, come l’abbattimento del sistema di assistenza sanitaria Medicare. Negli ultimi mesi del 2008 questi parametri impazziscono. È come se si buttassero banconote dagli elicotteri. Il deficit schizza verso l’alto, la massa monetaria esplode, e per il momento viene accalappiata dalla più tipica “trappola della liquidità” keynesiana. Ma è una bomba a tempo.

Possiamo solo immaginare quale sarebbe stato lo sguardo di Sylos Labini di fronte al pauroso grafico che segue, che mostra l’aumento della base monetaria negli Stati Uniti a partire dalla prima guerra mondiale. Alti e bassi, com’è ovvio. Eppure mai - neanche durante la costosissima seconda guerra mondiale - la Federal Reserve aveva osato espandere la crescita della base monetaria a tassi del 300% su base annua, come è avvenuto nel 2008. Praticamente un asintoto.



Tutta questa immane massa di moneta resta oggi disperatamente congelata nei buoni del tesoro statunitensi. Poiché oggi questi buoni perdono meno rispetto ad investimenti alternativi, le banche li comprano, anche per mostrarsi meno avventuriste rispetto al passato. Il fatto è che se i buoni del tesoro a breve non rendono o addirittura fanno perdere qualcosa, tanto vale ricorrere al vecchio materasso: non guadagni interessi da una banconota, ma di sicuro non ne perdi. Nessuno presta denaro, e questo per ora si traduce in deflazione. Ma per quanto? L’acquisto dei titoli del debito pubblico statunitense è l’ennesima bolla, forse la più devastante delle “bolle atomiche”.

Nel corso del 2009 gli Stati Uniti per poter sperare di reggere in qualche modo dovranno emettere nuovi titoli per un valore di 2 trilioni (due milioni di milioni) di dollari. I compratori sono ormai pochi e stanno fuori dagli Stati Uniti. Pretenderanno che ci sia un certo rendimento. Ecco perché non è da escludere che si avvii la macchina trituratrice dell’inflazione, in grado di far collassare il sistema basato sul dollaro. Quando la bolla scoppierà potrà interagire con le altre terribili bolle compresenti e da tutti temute. Salteranno in aria gli hedge funds. Non potranno reggere molti soggetti finanziari che emettono carte di credito, per le troppe insolvenze dei debitori (un buco previsto con valori che oscillano intorno ai cento miliardi di dollari).
Non dimentichiamo che il valore nozionale dei derivati finanziari - ossia futures, options, swaps, tutta la materia cosiddetta “Over the Counter” (OTC) in gestione fuori dai bilanci supera varie volte il PIL di tutto il mondo.

Non parliamo dell’esplosione del debito estero. In questo quadro, un’anomalia pur gigantesca rischia di apparire poca cosa.

Le tendenze convergono dunque per l’indebitamento privato e per quello pubblico. Nel 2004, secondo l’Ufficio di Bilancio del Congresso, il debito avrebbe dovuto spingersi fino a 14mila miliardi entro il 2014. L’ex Ministro del Tesoro Paul O’Neill – oggi una figura molto critica nei confronti dell’amministrazione Bush, perfino sul punto dell’11 settembre – aveva fatto proiezioni ancora più pessimistiche. Tutte queste previsioni hanno avuto una brusca accelerazione.

È prevedibile che ancora per un po’, la “bolla estrema” riesca daccapo ad assorbire buona parte dell’extra-risparmio dei paesi con attivo delle partite correnti.
Fino al 2000 i risparmiatori del resto del mondo finanziavano la crescita degli investimenti americani. Dopo l’11 settembre la crescita dei consumi. Ora sono chiamati a finanziare la crescita dei debiti che tentano disperatamente di salvare il sistema in panico, mentre si prosciuga la possibilità di finanziare investimenti produttivi.
Se non si troveranno più acquirenti per questi titoli si stamperà moneta. Il famoso elicottero di Ben Bernanke che volteggerà a lanciare banconote su Main Street.

Un altro economista che non si era fatto ammaliare dal mainstream, lo statunitense Robert Freeman, nel 2004 – mentre osservava l’aumento eccessivo del debito che sormontava di gran lunga la solvibilità del paese – si chiedeva quali possibili strategie d’uscita avrebbe potuto usare l’amministrazione statunitense.
Sopra tutte le strategie, ciascuna con le sue specifiche controindicazioni (aumentare le imposte, stampare dollari, privatizzare gli asset nazionali e svenderli all’estero in un perfetto contrappasso del Washington Consensus, rifiutarsi di onorare i debiti secondo una sorta di ‘soluzione bolscevica’) Freeman vedeva una strategia più estrema: il saccheggio: «Quando il rimborso del debito di una nazione diviene così imponente che diventa impossibile rassicurare i creditori, questo paese deve cercare una qualche sorgente di ricchezza, non importa quale sia la fonte.»
Non dimentichiamo che la vera uscita dalla Grande Depressione avvenne con una guerra mondiale.

Nella brochure della UK Defence Conference, tenutasi a Londra il 10 settembre 2007, sul tema “Defence in 2020 and beyond” (La Difesa nel 2020 e oltre, ndt), il testo riassumeva le sfide affrontate – anche con errori – in materia di politica di Difesa, e proiettandosi sul 2020 lasciava cadere, come se niente fosse, la seguente frase: «Il Joint Doctrine and Concepts Centre delle forze armate britanniche prevede un collasso generale dell’ordine globale nel prossimo decennio, e altri pensatori strategici sono parimenti pessimistici.»
Il Joint Doctrine and Concepts Centre è l’organo più importante di pianificazione e valutazione preventiva delle forze armate del Regno Unito. Con una certa noncuranza ci ha informati sul fatto che i grandi strateghi intendono prepararsi al peggio.

Di sicuro c’è un senso paralizzante di attesa anche nei piani alti della finanza. In un’intervista a «El Pais» del 21 dicembre 2008, il governatore della Banca di Spagna, Miguel Ángel Fernández Ordóñez, lamenta che «la sfiducia è totale» e teme un collasso generale, nel momento in cui la velocità di circolazione della moneta è spaventosamente bassa.

Molti elementi portano a fare previsioni, ma non sono in gioco soltanto variabili strettamente finanziarie. Da sempre in molti raccomandano “Never Bet Against FED”, mai scommettere contro la banca centrale federale degli USA.

Allora torniamo all’opera di Paolo Sylos Labini. Era una critica competente dei difetti del sistema, ma conteneva molti apprezzabili elementi di prudenza che non spingevano la sua analisi sino a studiare la scena ancora ipotetica di un crollo sistemico. Esprimeva semmai un ragionamento sull’intervento pubblico, che avrebbe prodotto grandi risultati se fosse stato applicato per tempo. Abbiamo invece visto che l’improvvisa corsa allo statalismo da parte delle ex vestali del liberismo è stata disordinata e sbigottita.

Sylos Labini citava la prospettiva, deprimente, fatta da John Maynard Keynes nella sua Teoria generale, quando osservava che «una caratteristica preminente del sistema economico nel quale viviamo è che […] esso sembra capace di rimanere in una condizione cronica di attività inferiore al normale per un periodo considerevole, senza una tendenza decisa verso la ripresa o verso la rovina totale».

Quale soluzione pubblica, dunque? Per Sylos Labini «Il problema centrale, che a mio parere rende incerta e probabilmente lontana la ripresa, è quello dei debiti a lungo termine, ossia degli immobilizzi. Non credo che convenga riesumare la formula IRI, come pare voglia fare il Giappone. Forse bisognerà pensare a un’altra soluzione, in cui tuttavia l’intervento pubblico svolga pur sempre un ruolo di rilievo per rendere sostenibili i debiti a lungo termine, promuovendo attivamente, nello stesso tempo, misure per la ripresa. Si potrebbero ottenere effetti importanti attraverso un accordo fra i principali paesi industrializzati volto a stimolare l’espansione reciproca dei mercati: penso a una serie coordinata di trattati commerciali, che fra loro s’intarsino e promuovano una politica opposta a quella del protezionismo emulativo (beggar-my-neighbour policy), adottata dai paesi industrializzati negli anni Trenta e ripescata da Bush con le sue misure protezionistiche. Per uscire dalla crisi penso anche a misure di tipo keynesiano, con un forte aumento delle spese pubbliche in deficit e tagli fiscali.»

Ora, noi possiamo immaginare come una politica di questo tipo, sebbene sospinta dalla necessità, potrebbe essere resa inefficace dalle strutture corrotte del potere di un paese come l’Italia, in deficit di morale e perciò segnato in troppe sue fibre da amoralità, immoralità e demoralizzazione.
Sylos Labini ricordava che comunque era necessaria una grande e mobilitante riforma intellettuale e morale, perché «tale strategia comporterebbe l’impegno di tante e tante persone per attività, retribuite e volontarie, e potrebbe offrire ideali degni di essere perseguiti dalle nuove generazioni, in luogo dell’ossessiva caccia ai soldi che oggi domina e immiserisce la vita sociale dei paesi sviluppati: i giovani hanno un bisogno addirittura biologico di ideali.»

Il 2009 inaugurerà una crisi durissima che colpirà pesantemente il lavoro. Non ci sono ricette per uscirne magicamente. Siamo entrati in un territorio senza mappe, dove non funzionano i GPS. È il momento in cui riacquistano dignità pensieri e idee trascurate, nonché studiosi di straordinario spessore, che ridanno un’anima alla “scienza triste”, l’economia. Sylos Labini è fra questi. E ci sarebbe anche un autore da lui citato, Irving Fisher, un economista eclettico che aveva studiato a fondo il problema del debito e della velocità di circolazione della moneta (proprio quel che oggi si è quasi fermato). Fisher era arrivato a scrivere un librettino di straordinario interesse («Stamp Scrip») che conteneva la proposta di instaurare la moneta deperibile, un sistema con le banconote bollate. Fisher propose a Franklin D. Roosevelt si sperimentare il sistema in dimensione nazionale. Ogni banconota andava bollata ogni settimana, recando un bollo pari al 2% del valore facciale. Era impossibile speculare con una simile moneta, intaccata dal punto di vista della funzione di riserva di valore, ma sicuramente si risvegliava la velocità di circolazione. Alcuni esperimenti realizzati in Austria avevano funzionato così bene da essere spenti bruscamente dalle autorità monetarie.
Il Congresso bocciò un disegno di legge che proponeva l’adozione del sistema.
Si badi che Fisher non era un “eretico”, ma un economista capace di inserirsi bene nel sistema. Soprattutto aveva una conoscenza profonda dell’economia, capace di scardinare le pretese dogmatiche di “teologi” di scarsa scienza. Altre sue proposte andavano in direzione di una finanza più ancorata alla dotazione materiale dell’economia, senza i sostituti monetari che l’ingegneria finanziaria è in grado di creare in totale contiguità con poteri forti e intrinsecamente criminali.

Mentre aspettiamo Godot, cioè la nuova Bretton Woods, le banche centrali lanciano la loro liquidità dagli elicotteri, non tanto al cittadino comune, quanto ai soliti speculatori. Basterebbe una legge di un solo articolo per porre fine allo scempio. Ma il Grande Casinò vive alla giornata, e rinvia ancora, di poco, il conto più salato, che intanto iniziano a pagare milioni di persone.

Aggiornamento del 28 dicembre 2008:
Il presente articolo è stato ripreso anche su
«ComeDonChiscotte» e su «AriannaEditrice».

22 dicembre 2008

Gli avvocati: Cheney e Rumsfeld in tribunale per l’11/9? Difficile ma non impossibile

di Stephen C. Webster – da www.rawstory.com

da
«Megachip»



Quando ricevette una medaglia al valore per le lesioni subite durante l’attacco al Pentagono dell’undici settembre 2001, April Gallop fu definita una "eroina" dall’agenzia di stampa dell’esercito USA. Ma è improbabile che gli organi di stampa del governo le riservino un entusiasmo del genere per la seconda volta.

Lunedì scorso (15 dicembre 2008, ndt), April Gallop, che ha prestato servizio militare presso il NISA (Network Infrastructure Services Agency) come specialista amministrativa, ed il suo avvocato William Veale hanno intentato una causa civile contro l’ex-ministro della Difesa Donald Rumsfield, il vicepresidente Dick Cheney e l’ex-generale dell’Aeronautica statunitense Richard Myers, capo degli Stati Maggiori Riuniti durante gli attentati del 9/11.
La Gallop accusa i tre imputati di aver partecipato ad un’associazione a delinquere con lo scopo di facilitare gli attacchi e di aver occultato il pericolo al personale del Pentagono, contribuendo fattivamente alle lesioni che lei e suo figlio di due mesi hanno riportato durante l’attentato. Nel testo della causa si citano anche altri anonimi che sarebbero stati a conoscenza degli attentati.
Questa storia è stata rivelata in esclusiva da RAW STORY. Il testo integrale delle dichiarazioni è reperibile a questo link.

«Tutto è accaduto molto rapidamente. Pensavo che ci stessero bombardando» ha dichiarato la Gallop in un rapporto pubblicato nell’ottobre del 2001.
Dopo aver soccorso un suo collega, la donna ha iniziato a setacciare le macerie fumanti del suo ufficio alla ricerca della figlia, Elisha. Dopo averla estratta dai detriti, ha attraversato i corridoi invasi dal fumo fino a raggiungere il prato esteriore, in cui è crollata.
Nonostante la gioia di essere sopravvissuta, la Gallop è «ancora inferocita con il nemico: me la pagheranno». Sono passati molti anni ed ora si aspetta che questo pagamento arrivi tramite una causa civile.
«Ero molto seccata dalla frequenza delle esercitazioni anti-incendio e dalle evacuazioni simulate» dichiarò la Gallop al George Washington Blog in un’intervista del 2006. «Capitavano sempre quando avevo altro da fare. Ciononostante l’undici settembre, proprio il giorno in cui tutte le nostre vite erano in pericolo, non è suonato un solo allarme.»
April ha subito un lieve lesione cerebrale, ma ancora lotta con la sindrome post-traumatica e la perdita di udito. Anche sua figlia ha subito una lieve lesione cerebrale che è degenerata in un deficit dell’apprendimento.
Per ciò che riguarda la ricostruzione dell’attentato, i ricordi della Gallop si discostano dalla versione ufficiale. «Le mie dichiarazioni sono state travisate in molte occasioni. Questo accade quando si hanno secondi fini. Per la cronaca, ecco la mia versione dei fatti: mi trovavo nell’anello E. Dall’interno dell’edificio, e senza alcun indizio su cosa fosse successo all’esterno, mi parve che fosse stata detonata una bomba. Siamo stati costretti a fuggire dalla struttura prima che ci cascasse addosso. E non ricordo di aver visto alcun rottame aereo. Ovviamente non ho idea di che aspetto abbia un aereo dopo l’impatto con un edificio. Ma penso che avrei notato almeno qualche frammento inusuale, qualcosa che almeno somigliasse ad un pezzo di aereo».
«Non vogliono si avvii un’indagine conoscitiva», ha dichiarato l’avvocato Veale. «Se riuscissimo a superare la loro mozione iniziale, tesa a stralciare le dichiarazioni della mia cliente, otterremo un’incriminazione. In questo caso, avremmo ottime probabilità di arrivare fino in fondo a questa faccenda. La legge è dalla nostra parte.»

La causa ha qualche possibilità?

RAW STORY ha chiesto il proprio parere ad avvocati esperti in cause civili contro il governo federale. «Le quindici pagine del reclamo sembrano il prodotto di un’indagine approfondita, che dimostra con dovizia di particolari l’esistenza di un’associazione a delinquere che coinvolge gli imputati. Questo sodalizio mirava a causare gli attentati o permettere che avessero luogo e ci colpissero mentre eravamo totalmente impreparati» ha dichiarato Gerald A. Sterns, dello studio legale Sterns & Walker di San Francisco. «Abbiamo già svolto processi per associazione a delinquere e permane un fondo di dubbio su cosa sia successo quel giorno e soprattutto sul perché. È stato un punto di svolta positivo per la presidenza Bush, che fino ad allora si era dimostrata tutt’altro che notevole, sopratutto a causa della sua controversa ascesa alla carica pochi mesi prima.»
Secondo ciò che afferma il sito di Sterns & Walker, lo studio rappresenta i sopravvissuti di incidenti aerei o altri disastri di una certa entità. Lo studio «è stato coinvolto in quasi tutte le principali cause seguite a incidenti aerei, e centinaia di altri processi civili con accuse ad imputati eccellenti», compresi gli Stati Uniti d’America.
«La causa della Gallop ha un precedente simile. Sfortunatamente per la parte lesa, può essere un indizio del suo destino. Si tratta del caso di Valerie Plame, un ex-agente della CIA la cui copertura è stata fatta saltare di proposito da Dick Cheney e, probabilmente, altri funzionari della Casa Bianca. La rivelazione è stata una rappresaglia per alcune affermazioni poco gentili fatte dal marito della Plame, il quale stava indagando sulle affermazioni di Bush riguardo all’ipotetico acquisto, da parte di Saddam Hussein, di materie prime per armi di distruzione di massa da uno stato africano» dice Sterns. «La Plame ha intentato una causa contro Cheney ed altri per averle distrutto la carriera.»
Ed aggiunge: «A prescindere dalla nostra disposizione verso questi individui ed il loro impatto sugli Stati Uniti, temiamo che la signora Gallop rimarrà molto delusa da questo suo tentativo di ottenere risposte per via giudiziaria.»
La profezia pessimista di Sterns è stata sdrammatizzata da Phillip L. Marcus, un avvocato del Maryland, specializzato in proprietà intellettuale e leggi sul copyright. Marcus ha discusso con RAW STORY del caso Bivens vs. Six Unknown Federal Narcotics Agents, un processo in cui la Corte Suprema ha decretato che il governo può essere oggetto di cause civili se si prefigura la violazione di un diritto costituzionale, anche se non esiste alcuno statuto federale a supporto di un’azione legale di questo tipo.
«La giurisdizione è un grosso ostacolo alla parte lesa, ma ci sono due strade per aggirarla» ha affermato Marcus, «la prima è la Dottrina Bivens (per cui, se i fatti dimostrano una grave trasgressione da parte di agenti federali, esiste una sorta di giurisdizione del diritto federale; senza di essa, le violazioni del Bill of Rights non potrebbero oggetto di causa civile) e la seconda è la 28 USC sec. 1331, ovvero il Federal Tort Claims Act (FTCA). Veale ha lanciato accuse straordinarie. Normalmente, se ci si limita a segnalare un quantitativo sufficiente di fatti significativi, la corte non accetta una linea difensiva basata sulla giurisdizione. Ma con accadimenti così singolari, il giudice vorrà stabilire se esistono le prove necessarie per applicare la giurisdizione Bivens o il FTCA, prima di lasciare che Veale proceda con quella che sarà un’indagine conoscitiva colossale – tonnellate di documenti, deposizioni sotto giuramento di Cheney, Rummy e molti altri, sia imputati che semplici testimoni. Scommetto che questa faccenda proseguirà per altri quattro o cinque anni. Ci sarà materiale per molti altri articoli.»

Segue il testo integrale dei pareri di entrambi gli avvocati sulla causa di April Gallop.

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In che circostanze gli Stati Uniti o qualcuno dei suoi funzionari, agenti o impiegati possono essere ritenuti civilmente responsabili in un tribunale? Può il potere giudiziario ricompensare i danni in un processo civile che mira a dimostrare non tanto l’erroneità dei comportamenti, ma l’attività criminale di membri del governo? Le risposte a queste domande possono rivelarsi complesse, ma è chiaro che la causa della Gallop non ha molte chance di successo. Questo processo, che si svolgerà nel Distretto Orientale di New York, riflette le frustrazioni di moltissimi americani. La donna, infatti, chiede i danni al vicepresidente in carica Dick Cheney, al ministro della Difesa Donald Rumsfeld e ad altri, in relazione agli eventi dell’undici settembre 2001. Le quindici pagine del reclamo sembrano il prodotto di un’indagine approfondita, che dimostra con dovizia di particolari l’esistenza di un’associazione a delinquere che coinvolge gli imputati. Questo sodalizio mirava a causare gli attentati o permettere che avessero luogo e ci colpissero mentre eravamo totalmente impreparati. Abbiamo già svolto processi per associazione a delinquere e permane un fondo di dubbio su cosa sia successo quel giorno e soprattutto sul perché. È stato un punto di svolta positivo per la presidenza Bush, che fino ad allora si era dimostrata tutt’altro che notevole, sopratutto a causa della sua controversa ascesa alla carica pochi mesi prima. Comunque, anche se si sottoscrivono alcune delle critiche e delle accuse mosse a Cheney, Rumsfeld e gli altri (curiosamente, Bush non viene citato in causa) per le loro attività in questi ultimi otto anni, e a prescindere dalla nostra disposizione verso questi individui ed il loro impatto sugli Stati Uniti, temiamo che la signora Gallop rimarrà molto delusa dal suo tentativo di ottenere risposte per via giudiziaria. La causa della Gallop ha un precedente simile. Sfortunatamente per la parte lesa, può essere un indizio del suo destino. Si tratta del caso di Valerie Plame, un ex-agente della CIA la cui copertura è stata fatta saltare di proposito da Dick Cheney e, probabilmente, altri funzionari della Casa Bianca. La rivelazione è stata una rappresaglia per alcune affermazioni poco gentili fatte dal marito della Plame, il quale stava indagando sulle affermazioni di Bush riguardo all’ipotetico acquisto, da parte di Saddam Hussein, di materie prime per armi di distruzione di massa da uno stato africano. La Plame ha intentato una causa contro Cheney ed altri per averle distrutto la carriera. La corte ha sbrigativamente decretato che la causa non aveva alcun fondamento: le questioni politiche di questo tipo non fanno parte della routine processuale. La corte ha inoltre decretato che il vicepresidente è immune a tutti i livelli per le attività che ha svolto o che ha omesso di svolgere nell’esercizio delle sue funzioni pubbliche. Un discorso analogo vale, ovviamente, anche per Bush sia durante che dopo il suo mandato. Mi sembra chiaro che nel caso della Gallop valgano le medesime considerazioni e si otterranno gli stessi risultati. La corte, in seguito alla mozione degli imputati, stralcerà la causa con le medesime argomentazioni. A prescindere dall’opinione che ciascuno di noi può avere di Dick Cheney, - a cui taluni si riferiscono con l’appellativo di "Principe delle Tenebre" o peggio - le sue azioni nell’esercizio delle funzioni di vicepresidente degli Stati Uniti sono protette dallo scrutinio del potere giudiziario. L’unica misura per punire i funzionari indegni che la Costituzione ci offre è l’impeachment. Però questo non vuol dire che la causa non possa essere intentata contro il governo. Si può fare e viene fatto ogni giorno per un’ampia casistica. Il nostro studio legale ne ha condotte molte con successo. I tribunali hanno decretato che gli Stati Uniti godono di un’immunità generalizzata, ma i giudici possono non tenerne conto e permettere le cause, in conformità alle decisioni del Congresso. Un esempio classico è il Federal Tort Claims Act del 1946, che autorizza le cause civili contro gli Stati Uniti per i danni causati da atti o omissioni da parte del governo, attraverso i suoi agenti o le sue agenzie, se tale condotta non è permessa dallo stato in cui l’atto o l’omissione ha avuto luogo. Esistono alcune eccezioni ed alcune difese speciali a disposizione del governo: principalmente la linea di difesa basata sulla Funzione Discrezionale, che protegge gli impiegati del governo, presidente compreso. Può essere applicata quando l’esercizio della discrezionalità ha avuto ripercussioni che in seguito si sono rivelate negative. Per esempio, questa linea di difesa ha protetto gli Stati Uniti da ogni responsabilità sugli attentati alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania del 1998. Ma la lotta continua. Gerald A. Sterns, Esq. Sterns & Walker www.Trial-Law.com ** Questa non è una semplice accusa di negligenza. Veale fa a brandelli l’argomentazione giurisdizionale nel paragrafo 8 del reclamo. Dovreste leggere qualcosa sul caso Bivens. La giurisdizione è un grosso ostacolo alla parte lesa, ma ci sono due strade per aggirarla: la prima è la Dottrina Bivens (per cui, se i fatti dimostrano una grave trasgressione da parte di agenti federali, esiste una sorta di giurisdizione del diritto federale; senza di essa, le violazioni del Bill of Rights non potrebbero oggetto di causa civile) e la seconda è la 28 USC sec. 1331, ovvero il Federal Tort Claims Act. Veale ha lanciato accuse straordinarie. Di solito, se ci si limita a segnalare un quantitativo sufficiente di fatti significativi, la corte non accetta una linea difensiva basata sulla giurisdizione. Ma con accadimenti così singolari, il giudice vorrà stabilire se esistono le prove necessarie per applicare la giurisdizione Bivens o la FTCA, prima di lasciare che Veale proceda con quella che sarà un’indagine conoscitiva colossale – tonnellate di documenti, deposizioni sotto giuramento di Cheney, Rummy e molti altri, sia imputati che semplici testimoni. Questo processo mi ricorda il caso Hatfill, il tizio che era "d’interesse" nella faccenda delle buste all’antrace e poi non lo era più. Ma stiamo parlando di un altro distretto. Veale svolge la sua causa nel distretto meridionale di New York, mentre Hatfill era da tutt’altra parte. Scommetto che questa causa proseguirà per altri quattro o cinque anni. Ci sarà materiale per molti altri articoli. --Philip L. Marcus, Esq. Business Negotiations & Agreements & Intellectual Property
www.negotiationpro.com

Fonte: Stephen C. Webster
18 dicembre 2008
Link: http://rawstory.com/news/2008/Legal_minds_respond_to_landmark_911_1218.html
Titolo nell’originale: “Legal minds respond to landmark 9/11 civil suit against Rumsfeld, Cheney”.

(traduzione di Massimo Spiga - Megachip)

15 dicembre 2008

11/9, la paralisi delle difese aeree

di Pino Cabras - da «Megachip»



Un ritornello delle versioni ufficiali sull’11 settembre (a partire dal sempre meno rispettato rapporto della Commissione d’inchiesta sull’11/9) recita che compito del NORAD (il Comando di Difesa Aerospaziale del Nord-America) era soltanto quello di attivare le difese nei confronti di attacchi dall’esterno.

Secondo tale versione, il sistema era un residuato della Guerra Fredda, e la difesa aerea aveva solo pochi caccia disposti a pattugliare il perimetro contro quel che restava della “minaccia sovietica”. Siccome Atta e soci attaccavano dall’interno e spegnevano i transponder, trovare gli aerei dirottati in mezzo al caos del traffico aereo era impossibile, poiché i velivoli non erano più distinguibili sui radar.

Non è proprio così. Il NORAD non aveva mai ridotto a quei termini i propri compiti di difesa, ossia badare agli attacchi da fuori e disinteressarsi degli attacchi dall’interno. Se si legge il Capitolo 3 di una direttiva del I aprile 2000 (e non è un pesce d’aprile) troviamo una di quelle formule concentrate, piene di sigle in cui si fissano certe procedure militari.

Che dice questo documento?

La 13-1AD, volume 3, sul comando e le operazioni di controllo nella difesa aerea, stabilisce che «il Primo Comandante della Air Force, in veste di comandante della regione continentale degli USA del NORAD, al Comandante in capo del NORAD fornisce il TW/AA (l’allarme tattico/ valutazione attacchi, ndt), la sorveglianza e controllo dello spazio aereo degli Stati Uniti nonché adeguate risposte nei confronti di un attacco aereo».

Tutte e tre le importanti funzioni attribuite al NORAD nel 1958 erano pienamente operative alla data dell’11 settembre 2001. La direttiva prima menzionata del I aprile 2000 al Capitolo 3.2.4. cita «il controllo operativo dei tre SAOC (Centri delle operazioni del settore aereo, ndt) e tutte le forze a disposizione per la sovranità aerea, la difesa aerea e l’allarme per attacco atmosferico»

Tra le altre disposizioni da seguire, la direttiva dell’Air Force delineava le procedure da seguire da parte delle unità ed elementi dell’ Air Combat Command (ACC) Air Defense System (ADS) degli Stati Uniti, ed era pienamente in vigore l’11 settembre 2001.

Lo stesso Rapporto della Commissione sull’11/9 cita il fatto che «la missione del NORAD è tracciata in una serie di accordi rinnovabili tra gli Stati Uniti e il Canada. In base agli accordi vigenti alla data dell’11/9, la “missione primaria” del NORAD era “l’allarme aerospaziale” e il “controllo aerospaziale” per il Nord America. L’allarme aerospaziale era definito come “la sorveglianza di oggetti costruiti dall’Uomo nello spazio e l’identificazione, la validazione e l’allerta di attacchi contro il Nord America provenienti da aeroplani, missili o veicoli spaziali”. Il controllo aerospaziale era un compito caratterizzato dal “fornire la sorveglianza e il controllo dello spazio aereo del Canada e degli Stati Uniti”».

Altro che attenzione concentrata sul perimetro. Tutta l’immensa superficie continentale del Nord America era chiamata alla stessa attenzione riservata ai confini. In tempo di guerra e in tempo di pace, 24 ore su 24.

Per giustificare l’impreparazione della Difesa americana di fronte agli attentati dell’11 settembre, i commentatori ben accreditati presso i mass media a larga diffusione e i governi, hanno parlato di eventi ‘imprevedibili’. Ma era davvero così?

Facciamo un passo indietro. Andiamo a vedere da vicino un’organizzazione molto attenta e influente, la Rand Corporation. Con un bilancio annuale di 160 milioni di dollari, la Rand Corporation è il più importante centro privato di ricerche in materia di strategia e d’organizzazione militare nel mondo. È l’espressione autorevole della lobby dell’industria a produzione militare statunitense. Presieduta da James Thomson. In passato ha avuto tra i suoi amministratori anche Ann McLaughin Korologos (ex presidente dell’istituto Aspen, quello di cui si fanno portavoce Lucia Annunziata e Gianni Riotta) nonché Frank Carlucci (presidente del Carlyle Group). La Rand è stata a lungo presieduta da Donald Rumsfeld.

In una conferenza pubblicata dall’Accademia dell’aviazione militare statunitense nel marzo 2001 (gli attentati sarebbero avvenuti sei mesi dopo), l’allora Vice Presidente della Rand, Bruce Hoffman, aveva in qualche modo anticipato l’‘imprevedibile’ scenario dell’11 settembre 2001, caratterizzato da un salto di qualità aeronautica dei mezzi non convenzionali utilizzati dal terrorismo, con un preciso target. Nel rivolgersi a un pubblico di ufficiali superiori dell’aviazione militare USA, Hoffman metteva in risalto che «noi siamo intenti a preparare le nostre armi contro Al-Qā‘ida, l’organizzazione – o forse il movimento – associato a bin Lāden […] Pensate un momento a ciò che fu l’attentato-bomba contro il World Trade Center, nel 1993. Ora rendetevi conto che è possibile far cascare la Torre Nord sulla Torre Sud e uccidere 60mila persone […] Troveranno altre armi, altre tattiche e altri mezzi per raggiungere i loro obiettivi. Hanno una scelta ovvia di armi, fra cui gli UAV (ossia aerei telecomandati, ndt)».

Solo un analista visionario? Hoffman erudiva le forze aeree americane circa un canovaccio grandioso, con decine di migliaia di morti in un colpo solo.

Dopo l’11/9 risulta alquanto curioso che Hoffman abbia dichiarato invece – durante la sua audizione in qualità di esperto presso la Camera dei Rappresentanti – che, per via della loro ampiezza, gli attentati erano inimmaginabili. Fantastico, no?

Ma ci sono altri fatti che, lungi dall’accreditare imprevedibilità, sembrano eccezionali precognizioni.

Esercitazioni simili allo scenario verificatosi erano già state effettuate. Come si è potuto leggere su «USA Today», nei due anni che hanno preceduto gli attentati dell’11 settembre «il NORAD ha condotto esercitazioni che simulavano quel che la Casa Bianca ha in seguito qualificato inimmaginabile […]: l’utilizzazione di aerei dirottati come arma nel farli schiantare su degli obiettivi».

La CNN trasmise un servizio di tenore simile il giorno dopo l’articolo di «USA Today». Vi si raccontava che uno dei bersagli immaginari era il World Trade Center. In merito a queste esercitazioni, il NORAD spiegava che fanno uso di «numerosi tipi di aerei civili e militari» per giocare il ruolo di aerei dirottati e testare «l’individuazione delle traiettorie e l’identificazione [degli aerei], il decollo d’emergenza e l’intercettamento, le procedure da seguire in caso di dirottamento, il coordinamento interno ed esterno dell’agenzia, così come le procedure di sicurezza operativa e di sicurezza delle comunicazioni.»

E il portavoce del NORAD ammetteva: «Noi organizziamo quattro esercitazioni all’anno che coinvolgono tutta l’area nordamericana, e la maggioranza comprendono scenari di dirottamento aereo».

Come minimo dunque «tutta l’area nordamericana» era stata da anni accompagnata alla dimestichezza con una procedura rivolta a emergenze non poi così impensabili.

Ma c’è di più, a conti fatti. Esisteva l’ombrello di una routine in grado di togliere aloni di sospetto alle azioni che vi si riparavano. Chi prepara un attentato può includere le operazioni all’interno di tante azioni parcellizzate che fanno parte delle esercitazioni.

In corrispondenza dei fatti dell’11 settembre, anche soltanto usando le notizie di pubblico dominio siamo in grado di individuare una concentrazione abnorme di esercitazioni militari, simulazioni su vasta scala e di manovre. Possiamo annoverare tra le 15 e le 20 esercitazioni collegate a ogni elemento rilevante dell’11/9.

Nonostante la mimetizzazione nelle routine delle attività militari, altri casi ci rivelano che diverse basi militari nell’area di Washington avevano programmato esercitazioni ‘anti-terroristiche’ con stato d’allerta massimo nel periodo immediatamente precedente l’11 settembre.

Mettendoci nei panni dei soggetti golpisti in grado di manovrare un’operazione di una tale portata, questa era una misura essenziale per esercitare un ferreo controllo delle basi nel corso del ‘pronunciamiento’ che avrebbe provocato la più grande scossa mai vista al sistema di comando degli Stati Uniti.

L'ipotesi di lavoro per un'inchiesta che abbia memoria di come funziona il "terrorismo di Stato" dovrebbe partire dall'ipotesi che gli attacchi dell’11/9 vennero eseguiti, portati avanti e mascherati per mezzo di tali esercitazioni. Diventerebbe così più produttivo indagare davvero sulle cause effettive che hanno determinato la paralisi della Difesa aerea.
La questione è sempre in piedi.

9 dicembre 2008

Ex capo dell’ISI: Mumbai e 11/9 sono entrambi casi di terrorismo di Stato



di Paul Joseph Watson - da prisonplanet.com
8 dicembre 2008

Il generale Hamid Gul, ex capo dei servizi pakistani ISI, ha riferito ieri alla CNN che sia gli attacchi di Mumbai sia l’undici settembre sono state entrambe operazioni pilotate all’interno del sistema ("inside jobs"), con grande dispiacere dell’ospite e luminare del CFR Fareed Zakaria, il quale ha detto agli spettatori che le opinioni di Gul sono «assolutamente errate e completamente screditate».

«Quando si esamina l’intero spettro delle possibilità su chi può averlo commesso, allora ci si accorge che quello del Samjhauta Express* era un caso simile, per il quale furono accusati i servizi pakistani ISI. Ma si è scoperto che erano gli stessi militanti hindu ad aver ucciso 68 passeggeri di quel treno, e che era un lavoro pilotato dall’interno». ha detto Gul. «Ora il colonnello Srikant Purohit, che è un ufficiale in servizio dell’esercito, è stato beccato in questo caso particolare e l’intera storia si è capovolta. Perciò si tratta ovviamente di un'operazione pilotata dall’interno.»

La rivelazione che Mukhtar Ahmed, «ufficiale di polizia antiinsurrezione che potrebbe avere agito in una missione sotto copertura » per conto delle autorità indiane, è stato arrestato per avere acquistato illegalmente schede di cellulari usate dai terroristi di Mumbai, insieme con i numerosi allarmi dell’intelligence comprovanti che il metodo, l’arrivo e gli obiettivi dell’attacco erano tutti ben conosciuti in anticipo, dimostrano che Gul ha ragione ad asserire che i terroristi non sarebbero potuti riuscire a mettere a segno una tale carneficina senza l’aiuto di elementi all’interno.

Alla domanda di Zakaria «Qual è la sua impressione su chi abbia commesso o perpetrato gli attacchi dell’11 settembre?», Gul ha risposto: «Be’, le mie posizioni sono ben note e ho detto che sono stati i sionisti o i neocon. È opera loro. È stata un’azione pilotata dall’interno. E volevano andare alla conquista del mondo. Hanno visto questa come una ‘finestra di opportunità’, quando il mondo islamico se ne stava prostrato, la Russia era ancora al di là dell’orizzonte e la Cina non era ancora il gigante economico che poi è diventato. E hanno pensato che quello fosse un buon momento per andare e riempire il vuoto in quelle aree strategiche, che ancora si trovavano a essere senza alcuna presenza americana. E, ovviamente, per controllare il rubinetto energetico del mondo. Oggi è il Medioriente, in futuro sarà l’Asia Centrale», ha concluso Gul.

Gul ha puntualizzato a Zakaria che la prova che l’11 settembre sia stato pianificato da Osāma bin Lāden e realizzato da Al-Qā‘ida non è emersa e che quegli eventi sono ancora «avvolti nel mistero».
«Tantissima gente ha un sacco di cattivi presentimenti su questo. E non sono solo io. Credo che tantissima gente in America la penserebbe allo stesso modo. Ci sono scienziati, studiosi che hanno scritto articoli su ciò» ha aggiunto Gul, appellandosi al presidente eletto Barack Obama affinché istituisca una nuova commissione che indaggi sugli attentati. Gul ha detto che gli attacchi sono stati pianificati in America da gente che ha un'agenda pericolosa che ha «messo il mondo sottosopra».

Dopo la pausa pubblicitaria, Zakaria, direttore di «Newsweek», esponente di punta del Consiglio per le Relazioni Internazionali e membro del direttivo della Commissione Trilaterale, ha detto agli spettatori: «Alcune delle visioni del generale Gul sono semplicemente false. C’è una montagna di prove sull’11 settembre che confutano le sue asserzioni», ma Zakaria si è guardato dal citarne anche una sola.

Zakaria è stato quindi raggiunto dall’esperto di contro-insurrezione David Kilcullen che ha detto che gli attacchi di Mumbai recano tutti i segni distintivi di una «azione clandestina o di una attività nelllo stile delle operazioni coperte», ma una volta incalzato su questo punto ha rifiutato di coinvolgere direttamente il Pakistan negli attacchi.

* Samjhauta Express: Attentato del 18 febbraio 2007 nel quale morirono 68 persone, la maggior parte delle quali civili pakistani, ma fra le vittime ci furono pure alcuni civili indiani e personale militare indiano.

Traduzione di Paolo Maccioni

8 dicembre 2008

All’Onu si denuncia la prigione di Gaza e l’apartheid in Terra Santa

di Pino Cabras - da «Megachip»


Miguel D'Escoto Brockmann, nicaraguense,
presidente dell'Assemblea generale dell'Onu

«Sono stupefatto che si continui ad insistere sulla pazienza mentre i nostri fratelli e le nostre sorelle palestinesi sono crocifissi. La pazienza è una virtù nella quale io credo. Ma non c’è alcuna virtù nell’essere pazienti con la sofferenza degli altri», dice. E poi aggiunge: «Tengo ugualmente a ricordare ai miei fratelli e sorelle israeliani che, anche se hanno lo scudo protettore degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza, nessun atto di intimidazione cambierà la Risoluzione 181, adottata 61 anni fa, che invita alla creazione di due Stati.» Parole del presidente dell’Assemblea Generale dell’ONU, Miguel D'Escoto Brockmann .
Il linguaggio del politico di oggi riflette ancora quello del prete di ieri. D’Escoto, un nicaraguense nato a Los Angeles nel 1933, era infatti uno dei più eminenti sacerdoti che aderirono alla teologia della liberazione e al movimento sandinista, prima di essere sospeso “a divinis” da Giovanni Paolo II, su istanza del suo allora braccio destro Joseph Ratzinger. Oggi come allora, D’Escoto porta nelle istituzioni parole di fratellanza universale e temi radicali. Una piccola riscossa su Ratzinger, poter essere investito di un’autorità che - fra gli uomini - ha un’estensione formale più vasta di quella di Benedetto XVI.
Le parole sono sopravvissute alla scomunica. La sua persona è scampata perfino a un tentativo di avvelenamento della CIA. La sua attuale denuncia delle condizioni dei palestinesi dovrà sopravvivere agli attacchi in stile maccartista della Anti-Defamation League e – all’opposto, al silenzio dei media che ha avvolto queste dichiarazioni.L’occasione del pronunciamento era il rapporto del Segretario generale Ban Ki-moon sulla situazione in Palestina, esaminato il 24 e 25 novembre 2008 dall’Assemblea generale dell’ONU.
D’Escoto ha aperto la seduta calcando le parole soprattutto sul caso di Gaza: «Io invito la comunità internazionale ad alzare la sua voce contro la punizione collettiva della popolazione di Gaza, una politica che non possiamo tollerare. Noi esigiamo la fine delle violazioni di massa dei Diritti dell’uomo e facciamo appello a Israele, la Potenza occupante, affinché lasci entrare immediatamente gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Questa mattina ho parlato dell’apartheid e di come il comportamento della polizia israeliana nei Territori palestinesi occupati sembri così simile a quello dell’apartheid, ad un’epoca passata, un continente più lontano. Io credo che sia importante che noi, all’ONU, impieghiamo questo termine. Non dobbiamo avere paura di chiamare le cose con il loro nome. Dopotutto, sono le Nazioni Unite che hanno elaborato la Convenzione internazionale contro il crimine dell’apartheid, esplicitando al mondo intero che tali pratiche di discriminazione istituzionale devono essere bandite ogni volta che siano praticate.»
Negli anni dell’amministrazione Bush voci come questa hanno avuto vita difficile. Persino l’ex presidente USA Jimmy Carter è stato fatto subito bersaglio di critiche estremamente aggressive per aver scritto un libro intitolato “Palestine, Peace Not Apartheid ”.
L’enormità della vicenda di Gaza - un milione e mezzo di persone in trappola rinchiuse entro confini sorvegliatissimi e sottoposte a rigidissime privazioni, deliberate dal governo israeliano - riesce pian piano a rompere il tabù. Chi di apartheid se ne intende, come i sudafricani, nel visitare Gaza ha sentito come di fare un tuffo nel passato. Quest’anno la Striscia ha raccolto il pianto e le denunce del Nobel per la pace Desmond Tutu per conto del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Altri hanno ricevuto una scossa.
D’Escoto raccoglie queste voci: «Abbiamo ascoltato oggi un rappresentante della società civile sudafricana. Sappiamo che in tutto il mondo organizzazioni della società civile lavorano per difendere i diritti dei Palestinesi e tentano di proteggere la popolazione palestinese che noi, Nazioni Unite, non siamo riusciti a proteggere.» Ecco, la protezione, un compito di quelli difficili o impossibili che ritroviamo nella vicenda dell’Onu. Una storia che tuttavia non ha registrato solo sconfitte. D’Escoto ripercorre il ruolo dell’istituzione che presiede: «più di venti anni fa noi, le Nazioni Unite, abbiamo raccolto il testimone della società civile quando abbiamo convenuto che le sanzioni erano necessarie per esercitare una pressione non violenta sul Sud Africa. Oggi, forse, noi, le Nazioni Unite, dobbiamo considerare di seguire l’esempio di una nuova generazione della società civile che fa appello per una analoga campagna di boicottaggio, di disinvestimento e di sanzioni per fare pressione su Israele.»
E poi le parole di d’Escoto riecheggiano quelle del prete che era. Ma non quelle del celebrante che dice messa per rassicurare, bensì quelle del liturgo che chiama la coscienza a un esame severo. Dalle celebrazioni di questo altro tipo di officiante non si esce rassicurati, ma inquieti: «ho assistito a numerose riunioni sui Diritti del popolo palestinese. Sono stupefatto che si continui ad insistere sulla pazienza mentre i nostri fratelli e le nostre sorelle palestinesi sono crocifissi. La pazienza è una virtù nella quale io credo. Ma non c’è alcuna virtù nell’essere pazienti con la sofferenza degli altri. Noi dobbiamo agire con tutto il nostro cuore per mettere fine alle sofferenze del popolo palestinese (…) Vergognosamente, oggi non c’è uno Stato palestinese che noi possiamo celebrare e questa prospettiva appare più lontana che mai. Qualunque siano le spiegazioni, questo fatto centrale porta derisione all’ONU e nuoce gravemente alla sua immagine ed al suo prestigio. Come possiamo continuare così?».
Non stupisce che di fronte a una denuncia così chiara ci sia il silenzio di Bush. Per come lo abbiamo visto pronunciarsi in questi anni, non stupisce nemmeno l’assenza di esternazioni di Giorgio Napolitano. Non è l’unica vicenda su cui si senta ronfare al Quirinale, d’altronde. Lo ricorda spesso la direttrice di infopal.it, Angela Lano, che ci scrive per rammentarci che sulla vicenda israelo-palestinese serve un passo coraggioso: l’accettazione di un dialogo con Hamās. I media principali rappresentano questo movimento come un gruppo cieco e fanatico di terroristi. In realtà, come ci ricorda Angela Lano, Hamās nei territori occupati della Palestina - così come accade per il partito Hizbu-llāh in Libano – è un grande movimento con larghi consensi nella popolazione di riferimento, presso cui organizza anche il welfare. E che ha vinto elezioni di invidiabile regolarità. I suoi dirigenti non appartengono al campo dei pazzi da film antiarabo di serie Z, ma sono personalità che coltivano razionalità politica e adottano uno stile di vita frugale, il quale si rispecchia in una popolarità molto profonda, proprio mentre i corrotti dirigenti di al-Fatah sembrano tanti Mastella sul viale del tramonto.
Se si pensa che da Hamās è giunta la proposta di una tregua di decenni con Israele, non è poi impossibile arrivare a un contatto serio per iniziare un lungo percorso di pacificazione in Terra Santa.
Certo, Hamās ha usato anche metodi e azioni terroristiche nella sua lotta. Ma non dovrebbe essere impossibile comprenderne il contesto. Ad esempio Rahm Emanuel, il capo di gabinetto scelto dal Barack Obama, è figlio di un terrorista ebraico non pentito dell’Irgun, un movimento che non lesinava stragi e attentati. Emanuel non può dire “i terroristi sono solo gli altri”.
Nel frattempo, il presidente dell’Assemblea Generale ci ha ricordato quali sono le risoluzioni dell’ONU tuttora in vigore. Potremo sempre meno giustificarci con un “noi non sapevamo”.

2 dicembre 2008

Yes We Can. So, What?



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